Il riposizionamento strategico dell’Arabia Saudita
Gli Accordi di Abramo hanno cambiato i rapporti di forza nel Golfo a sfavore dei Sauditi, e così anche l’elezione di Biden. Ora i Saud devono trattare con il nemico storico, l’Iran
Gli Accordi di Abramo hanno cambiato i rapporti di forza nel Golfo a sfavore dei Sauditi, e così anche l’elezione di Biden. Ora i Saud devono trattare con il nemico storico, l’Iran
Gli Accordi di Abramo possono essere considerati ragionevolmente una pietra miliare della diplomazia internazionale. Il riconoscimento dello Stato d’Israele da parte di Emirati Arabi Uniti e Bahrein ha portato, da un lato, alla fine di una serie di ostacoli prettamente ideologici e, dall’altro, enfatizzato ulteriormente l’ipocrisia del mondo arabo e di altri Paesi a maggioranza musulmana verso la questione palestinese, sfruttata principalmente a fini propagandistici di politica interna. In parallelo, le ripercussioni degli Abraham Accords hanno investito il ruolo egemone dell’Arabia Saudita, che oggi si ritrova nella complicata posizione di potenza centrale per la stabilità del Golfo, ma in subordine rispetto agli Emirati, sui quali sono attualmente puntati i riflettori di opinione pubblica, investitori e player internazionali.
Il protagonista degli Accordi di Abramo è stato indiscutibilmente Donald Trump, che in questo caso colse l’occasione della presidenza degli Stati Uniti per ragionare sui rapporti tra le realtà del Medio Oriente allargato in termini molto più pragmatici di quanto espresso in molteplici occasioni nel corso del suo quadriennio alla Casa Bianca. E infatti, anche e soprattutto in riferimento all’area del Golfo, le azioni repubblicane tra il 2016 e il 2020 hanno avuto risvolti spesso dichiaratamente dannosi, se non letteralmente contrari all’ordine costituito.
L’abbandono dell’accordo sul nucleare iraniano, JCPoA, si inserisce in questa lettura dell’approccio trumpiano in politica estera. Quella che è l’altra pietra miliare — ora a rischio rottura — della diplomazia internazionale è stata messa in discussione dall’enigmatica idea che il multilateralismo non sia la strada maestra per gli equilibri mondiali ma, semmai, un ostacolo. A questo, si aggiunge l’aver voltato le spalle a un attore fondamentale per la pacificazione del Medio Oriente come l’Iran, che a sua volta è considerato dall’Arabia Saudita nemico giurato per eccellenza.
Riad ha avuto carta bianca da parte del Presidente Trump, spazio di manovra che, ad esempio, ha causato l’inasprimento del conflitto in Yemen, con il Regno dei Saud in prima linea. Contestualmente, l’ampio margine di gestione locale della politica regionale lasciato dalla Washington repubblicana ha generato anche danni diretti agli stessi Stati Uniti, sia sul piano strategico che reputazionale. La morte del giornalista Jamal Khashoggi nel Consolato dell’Arabia Saudita di Istanbul ha creato forti frizioni nei rapporti con l’Unione Europea e altri alleati in Occidente, con Trump che, pur di difendere Mohammed Bin Salman, principe ereditario funzionale agli interessi statunitensi nell’area, secretò il report della Cia che accusa l’erede al trono di responsabilità dirette nell’uccisione di Khashoggi.
Ma Riad, ancora con l’esponente più in vista della Casa Reale, si è resa interprete anche del boicottaggio del Qatar. Rea d’aver intrapreso una politica estera autonoma specie nei confronti di Turchia e Iran, Doha si è trovata ai margini del Gulf Cooperation Council nonostante l’appello statunitense per scongiurare una mossa che ha creato difficoltà proprio a Washington, che nel Paese ha dislocato non meno di 13 mila soldati, il numero più alto di tutta l’area. Le ripercussioni dell’influenza saudita nei confronti della precedente amministrazione Usa non hanno, tuttavia, impedito che gli Stati Uniti mediassero abilmente tra i sottoscriventi degli Abraham Accords, patto che ha permesso la salita delle quotazioni degli Emirati, che oggi godono di una visibilità senza precedenti a scapito proprio del Regno Saudita. Gli Accordi di Abramo hanno dunque inevitabilmente cambiato i rapporti di forza nel Golfo.
Persino prima dell’avvento di Biden al Governo statunitense, l’Arabia Saudita ha cercato di muoversi in direzione favorevole al nuovo Presidente, riaccogliendo nel Gulf Cooperation Council il Qatar con l’incontro di Al-Ula, e poi proponendo un’iniziativa a livello di Nazioni Unite per il cessate-il-fuoco in Yemen. Necessariamente, Riad ha dovuto riposizionarsi rispetto alle politiche precedenti, conscia del fatto che i Democratici alla Casa Bianca, fin dalla campagna elettorale, hanno mostrato l’intenzione di dare discontinuità al rapporto con i Saud: il barbaro assassinio di Khashoggi diventa macchia indelebile che definisce il confine dell’amministrazione in carica, tanto che Biden ha disposto la pubblicazione del rapporto Cia che punta il dito contro l’erede al trono saudita.
Il conflitto nello Stato a sud della Penisola Araba, che secondo l’Onu ha trascinato la popolazione yemenita nella peggiore crisi umanitaria al mondo, è il centro nevralgico di interessi geopolitici. L’azione militare saudita contro i ribelli Houthi appoggiati dall’Iran, ampiamente accettata dagli Stati Uniti nel corso della presidenza Trump, è stata concausa di sfollamenti, distruzione di obiettivi civili quali scuole e ospedali, del depauperamento delle condizioni di vita dei cittadini, tanto che 2 yemeniti su 3 necessitano dell’assistenza umanitaria delle organizzazioni internazionali. Anche per queste ragioni, la Casa Bianca democratica è in fase di riflessione relativamente al tipo di forniture militari — approvate dal Governo Trump — da consegnare a Riad. Al centro, un rinnovato interesse di Washington verso i diritti umani: se con i repubblicani la contrattualistica bellica prevedeva una consegna ad ampio spettro, con Biden — in maniera ancora non del tutto chiara né esplicita — metterebbe il veto sulla vendita di missili aria-superficie, munizioni ground-to-ground utilizzate da jet da combattimento, droni e sistemi che trasformano il lancio di bombe in munizioni a guida controllata.
Maggiori disposizioni sono state rese note dall’amministrazione in carica relativamente alle forniture per Abu Dhabi, tuttavia decisamente più generose rispetto a quelle verso i sauditi: dopo la sottoscrizione degli Accordi di Abramo, Washington ha accordato — sulla linea di quanto voluto dai repubblicani — un contratto da 23 miliardi di dollari che prevede la vendita di droni armati Reaper e di jet F-35. Il Dipartimento di Stato ha specificato che il deal non vedrà la consegna di mezzi prima del 2025 e che gli Emirati dovranno rispettare i diritti umani, nello schema delle leggi dei conflitti armati.
Per ritrovare la centralità perduta, Riad lavora su più fronti, col rischio di scompaginare ulteriormente le relazioni già fluide tra i Paesi del Gulf Cooperation Council. In quella che è considerata una mossa diretta agli Emirati, il Regno dei Saud, in parallelo a Vision 2030, ha ideato il Programme HQ, progetto finalizzato a garantire tax holiday di 50 anni alle multinazionali che sposteranno il quartier generale nella capitale saudita. Inoltre, Bin Salman ha previsto una spesa di 800 milioni di dollari per il raddoppio fisico di Riad e 6 trilioni di dollari in opportunità d’investimento. Le grandi aziende hanno le sedi principali negli Emirati, dunque una simile proposta — se mai accettata — causerebbe ad Abu Dhabi una perdita economica diretta. Ma non sarà semplice convincere le multinazionali, che in Uae poggiano il loro business su un’infrastruttura superiore a quella saudita e un sistema legale adeguato allo stato di diritto.
L’interesse statunitense nel giungere a un nuovo accordo con l’Iran nel quadro del JCPoA — trattato inviso al Principe Bin Salman, che ha supportato la politica di massima pressione contro Teheran — spinge Riad verso nuovi ragionamenti rispetto ai rapporti regionali, compresi quelli con la Repubblica Islamica. Nel mese di aprile si sono tenuti a Baghdad i primi incontri ufficiali tra i rappresentanti delle due nazioni, dopo anni di reciproche accuse e azioni militari su obiettivi sensibili. L’erede al trono vuol riconquistare la fiducia di Biden, optando così per una exit strategy dallo Yemen, che può avvenire solo tramite il confronto diplomatico con l’Iran.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di maggio/giugno di eastwest.
Gli Accordi di Abramo hanno cambiato i rapporti di forza nel Golfo a sfavore dei Sauditi, e così anche l’elezione di Biden. Ora i Saud devono trattare con il nemico storico, l’Iran
Gli Accordi di Abramo possono essere considerati ragionevolmente una pietra miliare della diplomazia internazionale. Il riconoscimento dello Stato d’Israele da parte di Emirati Arabi Uniti e Bahrein ha portato, da un lato, alla fine di una serie di ostacoli prettamente ideologici e, dall’altro, enfatizzato ulteriormente l’ipocrisia del mondo arabo e di altri Paesi a maggioranza musulmana verso la questione palestinese, sfruttata principalmente a fini propagandistici di politica interna. In parallelo, le ripercussioni degli Abraham Accords hanno investito il ruolo egemone dell’Arabia Saudita, che oggi si ritrova nella complicata posizione di potenza centrale per la stabilità del Golfo, ma in subordine rispetto agli Emirati, sui quali sono attualmente puntati i riflettori di opinione pubblica, investitori e player internazionali.
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