[ROMA] Giornalista e Junior Fellow del Centro Studi Geopolitica.info. Si occupa di politica internazionale, in particolare di Irlanda e Regno Unito.
Italia: il piano sull’Intelligenza Artificiale
Continua a leggere l’articolo e tutti gli altri contenuti di eastwest e eastwest.eu.
Abbonati per un anno a tutti i contenuti
del sito e all’edizione cartacea + digitale della rivista di
geopolitica a € 45.
Se desideri solo l’accesso al sito e l’abbonamento alla rivista digitale, il costo
per un anno è € 20
Hai già un abbonamento PREMIUM oppure DIGITAL+WEB? Accedi al tuo account
È servito il recente boom di ChatGpt per far entrare in modo permanente il tema dell’intelligenza artificiale nella vita e nel dibattito comune. Il maggiore dilemma è se il suo utilizzo sempre più massiccio rappresenterà un pericolo per l’umanità oppure sarà uno strumento che rivoluzionerà la società portando esclusivamente benefici? Una domanda dalle molteplici risposte e che fa sorgere immediate riflessioni.
La cosa che sembra sicura, invece, è che il settore dell’IA (o AI, per dirla in maniera anglosassone) può rappresentare una nuova corsa all’oro. Ogni epoca ne ha avuta una e oggi sembra essere proprio la competizione per sfruttare appieno le potenzialità dell’uso di tecnologie, algoritmi e modelli digitali che di fatto simulano le interazioni, i ragionamenti e le analisi umane.
Le grandi aziende da anni guardano con attenzione a quel mondo, usando l’intelligenza artificiale già in diverse modalità, in particolare nella gestione dei dati. E dietro le società, spesso, c’è la spinta di Stati che vogliono posizionarsi in campo internazionale, accumulando vantaggi economici e strategici sui competitor. Tra questi anche l’Italia, che in realtà è partita in ritardo rispetto ai principali paesi europei (senza contare gli altri grandi attori mondiali), ma il cui mercato e le iniziative cominciano ad assumere rilevanti proporzioni.
Nel 2022 si è verificato un aumento vertiginoso del valore del mercato italiano relativo all’intelligenza artificiale. Sono due le ricerche più recenti che, nonostante difformità sul calcolo finale, registrano una crescita simile. Secondo quanto pubblicato da Anitec-Assinform, cioè l’associazione di Confindustria che raggruppa le aziende ICT (Information and Communication Technologies), in Italia il valore ha raggiunto circa 422 milioni di euro, con un balzo del 21,9% rispetto al 2021. Cifre ancora maggiori quelle registrate dall’Osservatorio Artificial Intelligence della School of Management del Politecnico di Milano: 500 milioni di euro e un aumento del mercato del 32% rispetto all’anno precedente. Di questo mezzo miliardo, secondo il Politecnico, il 73% (cioè 365 milioni) è commissionato da imprese italiane mentre i restanti 135 da progetti esportati all’estero. In entrambi gli studi citati, comunque, il trend è nettamente in crescita, tanto che entro il 2025 – secondo l’associazione di Confindustria – il volume di affari salirà fino a 700 milioni mantenendo un tasso annuale di crescita in media maggiore del 20%.
Con il crescere del mercato è cresciuta anche l’attenzione delle istituzioni. Nel novembre del 2021 è stata lanciata la strategia nazionale italiana sull’IA, un programma stilato dal Ministero dell’Università e Ricerca, insieme a quelli dello Sviluppo Economico e dell’ormai vecchio Ministero per l’Innovazione tecnologica e la transizione digitale. Un testo arrivato con anni di ritardo rispetto agli altri principali paesi europei, come per esempio Francia e Germania che lo hanno presentato nel 2018 e che da allora immettono miliardi nei propri settori, e dopo le sollecitazioni dell’Unione europea che aveva esortato gli Stati membri ad adottare i propri piani nel 2019.
Ad ogni modo, nel documento italiano venivano delineate 24 politiche da perseguire entro il 2024, sei obiettivi, 11 settori prioritari per gli investimenti e tre aree di intervento. Tanto spazio è stato dedicato al mondo universitario e della ricerca italiana nel campo dell’IA, su cui il programma strategico individuava alcuni punti di debolezza: la frammentarietà tra laboratori di ricerca, lo scarso finanziamento pubblico/privato, l’insufficiente attrazione di talenti dall’estero, un divario di genere significativo – con quote bassissime di ricercatrici – e una capacità brevettuale minore rispetto ai vicini europei.
Come fonte di investimento per quasi la totalità degli obiettivi, il piano ha previsto di attingere ai finanziamenti del Piano nazionale di ripresa e resilienza, insieme, in minima parte, a quelli del Fondo per la Scienza. Di fatto è grazie ai soldi europei se l’Italia ha potuto mettere in piedi una propria strategia riguardo l’intelligenza artificiale e faticosamente sta cercando di portarla avanti.
Il documento menziona dati del 2019 sulle spese per la ricerca in Europa in cui veniva sottolineato lo svantaggio del nostro Paese nei confronti degli altri Stati del continente. L’Italia, con l’1,46% di spesa del Pil, era dietro alla Germania (3,17%), Francia (2,19%) e Regno Unito (1,76%). Un rapporto che non è cambiato di molto in due anni: secondo Eurostat, infatti, nel 2021 l’Italia è leggermente salita a una percentuale del 1,49%, con la Germania scesa al 3,13% e la Francia salita a 2,21%. Il quadro è desolante anche per quanto riguarda il numero di ricercatori IA, con l’Italia nel 2019 ferma a 739, dietro a Regno Unito (2.974), Francia (2.755) e Germania (2.660).
Pur tenendo in considerazione le differenze economiche e demografiche dei Paesi in questione, i numeri riguardanti il mondo della ricerca, che di riflesso hanno conseguenze per quella specifica sull’intelligenza artificiale, sono emblematici delle difficoltà italiane. A ciò si aggiunge la differenza tra la media delle borse di studio destinate ai ricercatori e ai dottorandi in Italia e all’estero, così come le difficoltà di promuovere le carriere e i corsi in materie Stem (Science, technology, engineering, mathematics), soprattutto tra la popolazione femminile.
Tra gli obiettivi della strategia italiana c’è quello di rafforzare il numero dei ricercatori, ampliando tra l’altro il Dottorato nazionale in Intelligenza artificiale, l’iniziativa nata nel 2021 che raggruppa 61 università ed enti di ricerca in cinque dottorati federati e che attualmente conta 194 borse di studio. Il Pnrr prevede un investimento di circa 600 milioni di euro per il potenziamento e la creazione di dottorati innovativi e di assegni di ricerca. Entro il dicembre del 2024, secondo il portale Italia Domani che analizza lo sviluppo del Pnrr, dovranno essere assegnati 15mila dottorati di ricerca innovativi intersettoriali, e quindi in collaborazione con le imprese, ma ad oggi è ancora un progetto da realizzare.
In questa direzione si inserisce la nascita della fondazione “Fair” (Future Artificial Intelligence Research) sempre nel contesto del Pnrr, un progetto lanciato a marzo 2023 con sede a Pisa, coordinato dal Consiglio Nazionale delle Ricerche e che gestirà più di 114 milioni di euro. Dall’inizio il partenariato Fair coinvolgerà 350 ricercatori, a cui saranno aggiunti in un secondo momento altri 150 ricercatori e 100 dottorandi in tutta Italia. È un progetto nato esattamente per provare a migliorare alcune debolezze del Paese emerse nella strategia nazionale, come la frammentarietà del settore della ricerca italiana sull’IA. Inoltre Fair punta a creare un ecosistema integrato tra il mondo delle università e quello delle aziende, tra pubblico e privato. La rete che sta dietro a Fair, infatti, è composta da quattro enti di ricerca (tra cui lo stesso Cnr), da 14 università (dalla Bocconi al Politecnico di Milano, passando per la Sapienza di Roma, la Federico II di Napoli e molte altre), ma anche da sette aziende leader in diversi settori: Deloitte, Intesa Sanpaolo, Leonardo, Lutech, Bracco, Expert.ai e STMicroelectronics. Con questo progetto, l’Italia prova a fare uno scatto in avanti nello studio dell’intelligenza artificiale, puntando a sviluppare sistemi avanzati, cercando di attrarre talenti dagli altri Paesi per diventare così un hub globale sulla ricerca IA. In fondo era il fine ultimo della strategia italiana.
Per quanto riguarda le competenze Stem, il Pnrr prevede un investimento di 1,1 miliardo di euro proprio per attivare progetti con materie scientifiche e tecnologiche in modo da appianare la differenza di genere in quel campo, oltre che un rafforzamento di programmi linguistici adeguati. Il Ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara ha recentemente ricordato che – sempre dei fondi del Piano nazionale di ripresa e resilienza – circa 600 milioni di euro saranno destinati alle scuole proprio per realizzare percorsi formativi di potenziamento e di orientamento per le carriere Stem, con particolare attenzione alle studentesse. Il motivo è semplice: la categoria femminile è decisamente sottorappresentata tra i lavori scientifici e tecnologici. Nel 2021 i dati Istat hanno dimostrato che il 24% della fascia 25-34 anni di laureati ha una laurea Stem. Se si scompone la parte femminile da quella maschile, però, si vede che la prima ha una quota del 17,6% contro il 33,7% della seconda. Per quanto riguarda lo specifico caso dell’intelligenza artificiale, una delle uniche statistiche a riguardo è il sondaggio di CINILab Aiis National Assembly, citato anche nel documento strategico italiano, che mostra come solo il 19,6% dei ricercatori di IA siano donne. È evidente come simili dati rappresentino plasticamente il potenziale inespresso per il mondo della ricerca e del lavoro in Italia, una dinamica che lentamente si sta cercando di migliorare.
Insieme al mondo della ricerca e dell’istruzione, il programma italiano ha puntato anche a incentivare l’utilizzo di tecnologie IA sia nella pubblica amministrazione che in tutte le filiere produttive. Secondo le stime dell’Osservatorio del Politecnico di Milano, nel 2022 in Italia le piccole e medie imprese che hanno portato avanti almeno una sperimentazione IA sono state il 15%, mentre tra le grandi imprese i numeri sono più alti, con una quota che raggiunge il 61%. A livello europeo, secondo l’ultima rilevazione di Eurostat del 2021, solo il 6% delle imprese italiane utilizza realmente tecnologie di intelligenza artificiale, a fronte di una media Ue dell’8%. Numeri che dimostrano come sia solo l’inizio di un utilizzo sempre più pervasivo della tecnologia – nei settori industriali, manifatturieri e nei servizi terziari – per attività come l’analisi di dati, la gestione delle interazioni con i clienti tramite chatbot o la scoperta di nuove possibilità nel mercato o nella produzione.
In Italia i settori più interessati sono quelli bancari, assicurativi ma anche sanitari, dove la gestione di grosse quantità di dati è essenziale. Tuttavia, il problema principale è ancora la scarsa digitalizzazione del Paese che frena inevitabilmente lo sviluppo e l’utilizzo capillare di tecnologie avanzate. Ci sono stati passi in avanti, tanto che nel 2022 l’Italia è salita al 18° posto in Ue (nel 2021 era al 20°) nell’indice di digitalizzazione Desi (Digital Economy and Society Index) della Commissione, confermando una crescita ormai stabile. Ma rimangono alcune forti criticità, prima fra tutte il tasso di capitale umano con competenze digitali di base – fondamentali per l’utilizzo di IA – che ci vede agli ultimi posti tra i Paesi europei. Anche per questo il 21% degli investimenti dell’intero Pnrr (più di 40 miliardi di euro) è mirato alla transizione digitale dell’Italia.
Di questa nuova rivoluzione tecnologica, l’Italia si sta rendendo conto e sta cercando di colmare le proprie lacune anche collaborando e sfruttando altri attori e partner internazionali. In ambito europeo, all’interno del piano Horizon Europe, nel 2022 sono stati avviati diversi progetti di robotica e di intelligenza artificiale sviluppati direttamente da enti italiani o in cui sono coinvolte università, fondazioni e istituti della penisola. A dimostrazione della qualità e dell’efficienza del mondo della ricerca italiana, inibita solo dagli investimenti ridotti negli ultimi anni.
Ma Roma ha cominciato a guardare anche oltre i confini continentali. Nel luglio del 2022, infatti, l’ex Ministra del Mur Maria Cristina Messa ha firmato un accordo di collaborazione per progetti scientifici riguardanti l’intelligenza artificiale con Sethuraman Panchanathan, direttore della National Science Foundation, l’agenzia governativa degli Stati Uniti che si occupa di ricerca e formazione. Un memorandum dalla durata di tre anni che ha l’obiettivo di favorire l’interscambio tra ricercatori dei due Paesi su programmi di innovazione. L’accordo è uno dei recenti fiori all’occhiello del ministero nel campo dell’IA, arrivato dopo un ampio lavoro svolto con gli statunitensi.
Nella corsa globale a implementare l’intelligenza artificiale è partita quindi anche l’Italia, seppur in ritardo e con alcune difficoltà. Il Piano nazionale di ripresa e resilienza sta dando l’impulso economico, sia ai progetti relativi all’IA sia a quelli volti al rafforzamento della ricerca e della digitalizzazione generale del Paese. Tra le prime priorità ci deve essere quindi la messa in sicurezza dei fondi del Pnrr, con il raggiungimento degli obiettivi previsti. Possibili indugi, con il rischio di perdere i fondi europei, intaccherebbero il percorso intrapreso, allargando lo svantaggio italiano. Insieme all’impegno di università e imprese, deve quindi continuare l’attenzione delle istituzioni politiche verso il mondo dell’intelligenza artificiale, ci deve essere consapevolezza dei benefici sistemici di questa tecnologia, pur con le necessarie regolamentazioni. L’interesse nello sviluppare sistemi IA può combaciare con alcune esigenze strutturali del Paese. Ne è un esempio il possibile sfruttamento sempre più intenso di tecnologie di intelligenza artificiale nel campo della sanità e della telemedicina, visto il progressivo calo demografico e l’aumento dell’età media in Italia.
In questo senso, forse, l’aver dismesso il Ministero per l’Innovazione e la Transizione digitale rappresenta un passo indietro quantomeno simbolico, visto che poi il lavoro lo continua a portare avanti il dipartimento per la trasformazione digitale. La strada sembra essere comunque segnata, in caso potremmo sempre chiedere indicazioni a qualche chat IA.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di aprile/giugno di eastwest
Puoi acquistare la rivista sul sito o abbonarti
Microchip: l’ambizione tecnologica europea
Continua a leggere l’articolo e tutti gli altri contenuti di eastwest e eastwest.eu.
Abbonati per un anno a tutti i contenuti
del sito e all’edizione cartacea + digitale della rivista di
geopolitica a € 45.
Se desideri solo l’accesso al sito e l’abbonamento alla rivista digitale, il costo
per un anno è € 20
Hai già un abbonamento PREMIUM oppure DIGITAL+WEB? Accedi al tuo account
Sui chip un’Europa ritardataria cerca di mantenere il passo delle altre grandi potenze internazionali. È un concetto che in realtà si potrebbe applicare in diversi fronti nell’attuale contesto globale, ma che per quanto riguarda il settore dei semiconduttori è particolarmente rappresentativo. I cosiddetti microchip, di cui si sente sempre più parlare, sono delle componenti fondamentali nell’industria elettronica: sono necessari per il funzionamento di quasi qualsiasi oggetto usiamo nel quotidiano, dallo smartphone all’automobile, passando per elettrodomestici e computer. Tanto più sono imprescindibili in campi come la difesa e la sanità. Già di per sé sono quindi un elemento strategico, ma in più c’è anche il fattore economico: le stime parlano di un valore complessivo del mercato in crescita che alla fine del 2022 sarà di circa 600 miliardi di dollari e nel 2030 sarà quasi raddoppiato.
La strategia europea sui semiconduttori
Non a caso Stati Uniti e Cina sono sempre più coinvolti nella cosiddetta “guerra dei microchip”, la competizione per il controllo della filiera di produzione dei semiconduttori, affrontata a colpi di protezionismo, sussidi nazionali e sanzioni. L’Unione Europea vuole provare a dire la sua, o quantomeno a non farsi schiacciare totalmente da est e ovest. Si spiega così lo European Chips Act, il piano della Commissione europea, proposto lo scorso febbraio, che prevede circa 43 miliardi di euro tra soldi pubblici e privati per raggiungere la quota del 20% della produzione mondiale di microchip entro il 2030, oggi ferma intorno al 9%. È una cifra consistente, al netto delle discussioni scatenate in seno all’Ue sull’effettiva capacità per le istituzioni e per gli stati di metterla sul piatto. Ma se messa a confronto con quelle previste da Cina (150 miliardi tra il 2015 e il 2025), Stati Uniti (quasi 53 miliardi federali, con il CHIPS act) e Corea del Sud (450 entro la fine del decennio) non sembra essere abbastanza. Tra l’altro la cifra comprende anche gli investimenti già decisi dei programmi “Horizon Europe” e “Digital Europe”.
All’interno della stessa Commissione Ue, nei mesi precedenti alla stesura del testo, sono inoltre emerse delle divergenze, anche ampie, sull’approccio da tenere. Lo scontro è avvenuto soprattutto sul tema dei sussidi e sull’autosufficienza europea tra i commissari Margrethe Vestager e Thierry Breton. La prima sosteneva la necessità di evitare il più possibile aiuti pubblici che potessero portare a una competizione pericolosa tra stati nazionali per calamitare investimenti stranieri così come il bisogno di fare affidamento sulle aziende statunitensi, senza voler cercare a tutti i costi una ferrea autonomia. Il secondo, invece, premeva per la ricerca di un’indipendenza totale dell’Ue in tema di industrie di semiconduttori.
Gli obiettivi dell’European Chips Act…
Nella composizione dello European Chips Act si è arrivati a un compromesso. L’obiettivo principale pensato dalle parti di Bruxelles è quello di diminuire la dipendenza europea dall’esterno per arrivare a una sorta di sovranità industriale e diventare leader nel settore. Un progetto ambizioso, ma che nasconde alcune criticità proprio nella realizzazione. Oggi la fase di progettazione di un semiconduttore, quella che prevede la ricerca e il design, è in mano principalmente agli Usa, che ne detengono circa il 65% mondiale. Nel passaggio successivo − quello della produzione − a primeggiare per distacco è invece Taiwan, grazie soprattutto alla sua maggior azienda: la Taiwan Semiconductor Manufacturing Company (Tsmc). Attualmente l’Unione Europea rincorre sia nella prima che nella seconda fase ed è costretta a importare i chip dagli Stati Uniti o dall’Asia, Taiwan e Corea del Sud perlopiù, ma anche Cina. Inoltre, le aziende e le fabbriche produttrici europee, tra cui la società italo francese STMicroelectronics, non sono all’avanguardia. Cioè, non comprendono la creazione dei semiconduttori con i transistor di lunghezza minore di 10 nanometri; oggi gli ultimi disponibili sul mercato sono arrivati a quattro nm mentre la ricerca vola verso quelli da tre e due nm. In generale quelli più piccoli di 10 nm servono soprattutto nella produzione di computer, smartphone e device simili, tutti oggetti che non vengono prodotti in Europa ma in altri mercati.
Lo sforzo di Bruxelles mira − almeno in parte − ad attrarre i campioni stranieri, tra cui soprattutto l’azienda americana Intel, dopo i sostanziali rifiuti di Tsmc e Samsung, per costruire delle fabbriche di semiconduttori di ultima generazione sul suolo europeo. Intel, lo scorso marzo, ha annunciato degli investimenti importanti − circa 33 miliardi di euro nell’immediato, 80 da qui al 2030 − per degli impianti di produzione, ricerca e design, e packaging dei chip in Europa, tra Germania, Francia, Italia, Spagna, Irlanda e Polonia.
…e gli interrogativi
Ed è qui che sorgono dubbi. Il proposito di slegarsi dalle catene di approvvigionamento mondiale, visti i rischi venuti a galla durante la pandemia (la carenza di microchip e quindi il rallentamento della produzione globale di beni), va nella giusta direzione. Solo che i chip prodotti oggi in Europa − i meno avanzati − rimangono in maggioranza nei circuiti del continente, soprattutto per la creazione di macchinari industriali e nel settore dell’automotive, che non hanno bisogno di chip all’avanguardia. Con la creazione di fabbriche di ultima generazione si rischierebbe di produrre materiali poi difficili da riutilizzare, vendere o piazzare all’interno dell’Unione. I maggiori dubbi e le critiche riguardano proprio questo: la volontà di provare a costruire nuovi microchip, invece di incrementare le capacità attuali, più adatte alle esigenze dell’industria continentale.
Altri interrogativi sono emersi direttamente dalle aziende europee e sono attinenti all’assunzione del personale. Come ha riportato recentemente il Financial Times (ma l’allarme lo aveva lanciato anche la stessa Commissione), il rischio a cui vanno incontro le società è la mancanza di lavoratori qualificati. L’espansione del mercato in Europa e la prevista creazione di nuove fabbriche e nuovi stabilimenti porterà infatti alla ricerca contemporanea di personale specializzato, ovvero migliaia di ricercatori, ingegneri e tecnici. Cioè categorie che nel continente europeo si fatica a trovare, rendendo necessario il più difficile ricorso a personale straniero. A oggi serve ampliare il percorso di formazione, non solo accademico, che possa sopperire alla carenza europea di queste figure fondamentali per il potenziamento del settore. Tanto che tra le condizioni tenute in conto dalle grandi aziende, prima di scegliere il luogo dove installare il proprio sito, oltre ai collegamenti infrastrutturali, c’è anche la presenza di università e istituti tecnici nelle vicinanze da dove attingere manodopera. La Commissione ha dichiarato che interventi in materia di istruzione e formazione saranno sostenuti, ma intanto la carenza di personale continua.
La questione dei sussidi di stato
Il programma proposto dalla Commissione, a cui il Consiglio ha dato il via libera lo scorso 1° dicembre, ma a cui serve comunque il passaggio nel Parlamento europeo, prevede la “Chips for Europe Initiative” con 11 miliardi da destinare alla ricerca e allo sviluppo, per arrivare alla progettazione di semiconduttori delle ultime generazioni. Sul tema dei sussidi statali ha di fatto prevalso l’apertura. La Commissione di Ursula von der Leyen ha dato il via libera, infatti, agli incentivi per tutti quei progetti e fabbriche cosiddette “first of a kind”, ovvero primi nel loro genere in Europa a livello di tecnologia. Una definizione semplice ma anche piuttosto vaga, che avrà bisogno di ulteriori specifiche, come richiesto nel mandato del Consiglio.
Tra i rischi c’è anche quello della possibilità paventata da Vestager di scatenare una competizione tra nazioni a chi offre di più in incentivi. A essere premiati sarebbero con ogni probabilità i paesi più grandi e più ricchi del continente, come Germania e Francia, che grazie a una maggiore disponibilità di offrire sussidi alle aziende potrebbero attirare i principali investimenti. Tutto a danno dei paesi europei più piccoli che si troverebbero, almeno in parte, a finanziare lo sviluppo di società e poli produttivi di altri attori. La globalizzazione e l’interdipendenza mondiale sulla catena di valore e produzione di un semiconduttore è nota. Per arrivare a utilizzare un prodotto finito è necessario il contributo di aziende e paesi diversi, e al momento, considerato lo svantaggio accumulato negli ultimi 20 anni, l’Europa è in difficoltà. Ma c’è qualche eccezione: l’Ue ha una discreta fetta di mercato (circa il 14%) relativo alla fornitura di materie prime, wafer di silicio e sostanze chimiche, necessarie alla fabbricazione dei semiconduttori. Inoltre, ha circa il 23% della produzione di quei macchinari essenziali alla creazione di microchips, in primis grazie alla società olandese Asml Holding.
Il caso olandese: l’Asml Holding
L’azienda, con 60 siti sparsi tra il continente europeo, gli Usa e l’Asia, ha una sua peculiarità che la rende strategica nell’industria globale dei semiconduttori. Asml, infatti, produce macchinari e sistemi litografici fondamentali; ha poi sviluppato una tecnica − la litografia ultravioletta estrema (Euv) − che la rende praticamente egemone in tutto il mondo. Le società soprattutto di Taiwan, Corea del Sud e Cina si rivolgono proprio all’azienda olandese per ottenere gli apparecchi necessari alla produzione dei loro semiconduttori. Ecco perché Asml è finita nell’occhio del ciclone e nel pieno della guerra dei chip tra Washington e Pechino. Gli Stati Uniti, infatti, hanno premuto per mesi affinché la produttrice di macchinari vietasse la vendita dei suoi prodotti alla Cina. L’obiettivo della Casa Bianca è di minare la capacità cinese di realizzare microchip e contenere i suoi piani di espansione nella filiera dei semiconduttori, in una competizione tecnologica tra le due grandi potenze che si fa sempre più accesa. L’attore chiave europeo, dopo aver provato a resistere alle pressioni statunitensi, si è allineato alla postura che viene da oltreoceano. D’altronde − come dimostra la scelta dell’americana Intel di espandersi in Europa − al momento al Vecchio Continente conviene ancora affidarsi al suo alleato maggiore riguardo la produzione di semiconduttori. Anche perché nel breve periodo, pur riuscendo a sciogliere tutti i non pochi nodi attorno allo European Chips Act, non sarà in grado di raggiungere la piena indipendenza nel settore.
La sovranità tecnologica ricercata da Bruxelles parte proprio da quei campioni nazionali − come Asml − grazie a cui oggi può avere voce in capitolo nella competizione. Se è vero che l’Europa deve farsi trovare pronta a produrre chip viste le instabilità internazionali che potrebbero portare all’interruzione delle catene di approvvigionamento dei microchip, è altrettanto vero che incentivarne la produzione senza prima armonizzare l’industria del continente potrebbe avere effetti deleteri. Soprattutto se al momento si può appoggiare ancora su determinati alleati come gli Stati Uniti (nonostante l’Inflation Reduction Act) e sulla forza di alcuni campioni europei strategici da alimentare.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di gennaio/marzo di eastwest
Regno Unito post Brexit, un anno dopo
Continua a leggere l’articolo e tutti gli altri contenuti di eastwest e eastwest.eu.
Abbonati per un anno a tutti i contenuti
del sito e all’edizione cartacea + digitale della rivista di
geopolitica a € 45.
Se desideri solo l’accesso al sito e l’abbonamento alla rivista digitale, il costo
per un anno è € 20
Hai già un abbonamento PREMIUM oppure DIGITAL+WEB? Accedi al tuo account
La vigilia di Natale del 2020 le estenuanti trattative tra i negoziatori europei e britannici sfociarono in un compromesso che già allora sembrava imperfetto ma che andava siglato per evitare un caotico 1° gennaio. L’annuncio del premier Boris Johnson era stato euforico: “Il più grande accordo mai fatto”, “difenderemo i posti di lavoro”, “riprenderemo il nostro destino nelle mani”. Dichiarazioni retoriche utilizzate per esaltare il progetto Brexit voluto fortemente dallo stesso Johnson. A distanza di circa un anno da quel 24 dicembre, il quadro che emerge, però, è ben diverso.
Le tensioni in Irlanda del Nord
A partire dal problema, inasprito nel corso dell’ultimo anno, delle tensioni in Irlanda del Nord. La regione, a causa della Brexit, ha compiuto pericolosi passi indietro nel processo di pacificazione iniziato con gli Accordi del Venerdì Santo del 1998. La comunità unionista-protestante è sul piede di guerra, si sente abbandonata da Londra dopo l’imposizione de facto di un confine nel mar d’Irlanda. Per difendere il mercato unico, le merci che viaggiano tra il resto del Regno Unito e l’Irlanda del Nord infatti sono, o meglio dovrebbero essere, controllate nei rispettivi porti di approdo, secondo quanto concordato nell’accordo. Una misura che avvicina quindi Belfast a Dublino e che ha fatto montare la rabbia dei lealisti. Le verifiche britanniche, però, sono state interrotte anche a causa delle minacce dei paramilitari agli operatori portuali.
Nel 2021 si è verificato “un preoccupante ritorno dei disordini in strada” secondo il rapporto annuale dell’IRC (Independent Reporting Commission), una commissione creata per monitorare le attività paramilitari in Irlanda del Nord. Le proteste lealiste hanno puntato all’attivazione dell’articolo 16 del protocollo nordirlandese, che consente il recesso unilaterale dall’accordo reo di istituire il confine marittimo. Le marce pacifiche si sono alternate a episodi di violenza che hanno riportato l’Ulster con la mente indietro a più di 20 anni fa. Come ad aprile, quando a Belfast e in altre cittadine, centinaia di giovani si sono scontrati con la polizia. Decine di feriti tra gli agenti e altrettanti ragazzi arrestati, spesso poco più che bambini.
È ancora diffuso il fenomeno del “recreational rioting”, ovvero piccoli disordini − lanci di sassi, piccoli incendi, nei casi peggiori uso di bottiglie molotov − creati dai giovani per divertimento e per emulare i genitori o i nonni coinvolti nei Troubles. Nuove leve mandate avanti dai più anziani della comunità per creare instabilità, consapevoli del rischio minimo che corrono i ragazzi a livello legale. La mano dei gruppi paramilitari nella regione si è vista poi in alcuni dirottamenti di bus dati alle fiamme. Inoltre, a metà dicembre, a Newtownards, sono comparse delle inquietanti scritte sui muri, emblematiche del clima in cui vive l’Irlanda del Nord: “Gli avvertimenti non sono bastati, serve una guerra”. La firma è del Protestant Action Force, un movimento creato dalle sigle paramilitari lealiste.
Tutte azioni compiute con l’obiettivo di alzare il livello di tensione, accompagnando le negoziazioni tra Londra e Bruxelles proseguite anche nel 2021 per trovare una soluzione definitiva alle controversie commerciali. Gli unionisti stanno alzando la voce anche perché sanno che il futuro che li attende potrebbe essere molto duro. A livello politico il Dup (Democratic Unionist Party), principale partito della comunità, è attraversato da una crisi profonda, con cambi di leadership ravvicinati e con lo scivolamento nei sondaggi dietro allo Sinn Fein, il Partito nazionalista. Ma non sono solo le rilevazioni politiche a preoccupare gli unionisti. Il prossimo anno verranno resi noti i risultati del censimento condotto nel Regno Unito che potrebbero, con ogni probabilità, confermare il sorpasso demografico della popolazione nazionalista-cattolica nei confronti di quella lealista-protestante. Un dato che avvicinerebbe il momento di un referendum sull’unità dell’isola irlandese, dall’esito quanto mai incerto. Un’eventualità che, insieme all’indipendenza della Scozia, rappresenta uno dei peggiori scenari per il 10 di Downing Street.
I diritti di pesca
Ma, come detto, l’instabilità nordirlandese è solo la prima delle conseguenze post-Brexit. Una delle principali questioni, emerse già durante le trattative dell’anno scorso, è quella sui diritti di pesca contesi tra Regno Unito e Francia. L’accusa di Parigi a Londra è di aver concesso troppe poche licenze alle imbarcazioni francesi per poter pescare nelle acque britanniche, dove da anni i pescherecci europei si rifornivano in virtù delle regole europee. Le trattative sono continuate a oltranza, condite anche da episodi di aperta provocazione nel Canale della Manica. Come al largo dell’isola di Jersey, vicina alle coste francesi ma di dominio britannico, dove scioperi di pescherecci e invii di navi militari hanno rischiato di scatenare incidenti. Su questo dossier il governo britannico sa di avere il coltello dalla parte del manico, essendo il titolare effettivo dei diritti sui pescherecci. Entrambi gli attori sono consapevoli di come sia un problema relativamente piccolo per portata economica, ma con risvolti simbolici più ampi, tanto che oggi tra i due Paesi i rapporti sono molto tesi.
Quella delle licenze di pesca si interseca con due vicende che hanno incrinato le relazioni tra Londra e Parigi negli ultimi mesi: il patto di difesa Aukus tra Regno Unito, Australia e Stati Uniti, ma in particolare la crisi dei migranti nello stretto della Manica. Migliaia di profughi hanno attraversato la Manica per raggiungere le coste inglesi, e in alcuni casi si sono verificati anche naufragi che hanno causato morti. Si parla di 26mila persone sbarcate solo nel 2021, un numero che ha fatto scattare il campanello d’allarme al governo Johnson, che ha protestato con il presidente Emmanuel Macron per gli scarsi controlli delle partenze, addossandosi a vicenda le responsabilità.
Crisi degli approvigionamenti e pandemia
Londra, tra l’altro, ha vissuto mesi complicati per la scarsità di scorte e la carenza di lavoratori, che dopo l’estate del 2021 hanno rischiato di bloccare il Paese. L’approvvigionamento di beni è stato reso complicato in particolare dalla mancanza di autotrasportatori. Una dinamica dovuta in parte alla pandemia, visto che lo stesso problema è stato riscontrato anche dai Paesi comunitari, ma in parte causata dall’uscita dall’Ue e dalle regole più stringenti per entrare da immigrato nel Regno Unito. Tutto ciò si è trasformato in scaffali vuoti nei supermercati, nelle file chilometriche o nelle risse davanti ai distributori di benzina. Una crisi che ha costretto il Governo di Johnson a far uso di mezzi e uomini militari per supportare la catena logistica del Paese.
E proprio lo stesso Johnson sta vivendo un periodo politico molto complicato. La scommessa Brexit, su cui si è speso in prima persona, fatica a compiersi, nonostante non si siano verificati gli scenari drammatici che in certi casi venivano paventati. A distanza di due anni dalla sua schiacciante elezione nel 2019, la sua leadership nel Partito conservatore è messa a dura prova. La gestione della pandemia è stata altalenante con diversi malumori scoppiati anche dentro la maggioranza e lo scandalo delle feste tenute dal suo gabinetto durante il lockdown ha fatto scalpore. In aggiunta è arrivata anche la sonora sconfitta dei Tories del 17 dicembre nelle elezioni suppletive del seggio di North Shropshire, roccaforte conservatrice passata ai liberal-democratici. Tutti episodi che hanno minato il ruolo e la figura di BoJo. Dietro di lui scalpitano due giovani rappresentanti del partito che reclamano spazio: il Cancelliere Rishi Sunak e Liz Truss, nuova Foreign Secretary.
Il futuro di Boris Johnson è quanto mai incerto, così come il ruolo del Regno Unito post-Brexit, che doveva rilanciarsi come attore protagonista nel mondo con la Global Britain. L’unica certezza, oggi, è che il primo anno ufficiale di uscita dall’Unione europea, con la congiuntura imprevedibile del virus, ha dimostrato tutta la fragilità interna di Londra.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di gennaio/febbraio di eastwest.