Visiting Fellow ad Harvard e PhD student alla LUISS. Fondatore di World Nexus e membro di TAB Risk.
Usa: il nuovo “Big Deal” americano
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La pandemia ha costretto l’economia globale a una brusca frenata che ha coinvolto anche gli Stati Uniti dove un anno fa si è registrata la peggiore contrazione del Pil mai osservata dalla statistica nazionale di Washington: -9,5% nel secondo trimestre del 2020. La crisi scatenata dall’emergenza sanitaria ha aperto un dibattito sull’impatto della pandemia e su come preparare l’economia americana alle trasformazioni della globalizzazione post-pandemica. In questa fase, i più importanti economisti si schierano a favore della visione prospettata dal Presidente Biden: bisogna ripensare la politica economica coniugando misure sanitarie e fiscali, politiche di spesa e investimenti pubblici, per cambiare il sistema produttivo e renderlo resiliente, sostenibile e innovativo. Seguendo l’esempio di Franklin D. Roosevelt, Biden parla di due priorità: relief e recovery, cioè il sostegno ai redditi e la ripresa economica. Per i consiglieri del presidente e lo staff della Casa Bianca non si tratta di riportare l’America nel passato pre-Covid, ma di porre le basi di uno sviluppo duraturo, che possa anche rafforzare la leadership globale di Washington.
Politica sanitaria e politica fiscale
La rinascita economica dell’America dipende innanzitutto da una politica sanitaria efficace e dalla politica fiscale espansiva. Sono questi i due pilastri della strategia iniziata con le scelte dei primi cento giorni dell’amministrazione Biden-Harris. In particolare, considerando il contagio da coronavirus come lo shock esogeno che ha colpito l’economia, la Casa Bianca ha puntato sul più ambizioso piano di vaccinazione di massa della storia, scommettendo sull’efficienza logistica e la capacità amministrativa del governo federale. Nelle ultime settimane, gli Usa hanno vaccinato quasi 5 milioni di persone al giorno, superando i 200 milioni di dosi somministrate. Al capolavoro organizzativo si aggiunge l’alta efficacia dei vaccini Made in Usa. La combinazione di questi fattori rende gli Usa la prima potenza globale nella lotta al virus e Biden spera di celebrare tali risultati in occasione della festa nazionale del giorno dell’indipendenza, il prossimo 4 luglio.
Oltre ad affrontare l’emergenza sanitaria, il Presidente Biden e Janet Yellen, alla guida del Tesoro, hanno voluto un piano di aiuti che ha impegnato circa l’8% del Pil, cioè più del doppio delle risorse stanziate dal piano Obama nel 2009 dopo il fallimento di Lehman Brothers. Nonostante le critiche di Larry Summers, che ha giudicato la mole di risorse mobilitate dalla Casa Bianca come eccessiva, per i timori di un ritorno dell’inflazione, Yellen ha giustificato la politica ambiziosa dell’American Rescue Plan dichiarando che la forte contrazione del Pil rischiava di ridimensionare, in modo permanente, il potenziale di crescita dell’economia. Secondo la numero uno del Tesoro bisognava evitare di cadere nella trappola delle politiche economiche conosciute con l’espressione “too little, too late”, ossia quelle dei Governi che fanno “troppo poco, troppo tardi”.
La campagna vaccinale consente alla società americana di eliminare le restrizioni ancora presenti in molti altri paesi e le misure anticrisi ripristinano la fiducia di famiglie e consumatori. Questo significa dare dimostrazione dell’affidabilità del governo di Washington ed è un messaggio che farà la differenza anche sulle scelte delle multinazionali che stanno riprogrammando la collocazione geografica dei loro insediamenti produttivi, plasmando le catene globali del valore del mondo post-Covid. In tal senso, gli Usa stanno già approfittando del fenomeno del reshoring, cioè del rimpatrio delle aziende che avevano delocalizzato, e di quello del decoupling, ossia del sottrarre la produzione di beni strategici dall’area asiatica. Da queste dinamiche, accelerate anche dalla capacità attrattiva dell’economia americana, avrà origine la de-regionalizzazione di molte filiere produttive. I flussi di capitali (e di investimenti) non andranno solo verso i paesi con una tassazione ridotta, ma anche verso i sistemi governativi più resilienti, dove le istituzioni sono capaci di intervenire prontamente contro le emergenze. Non a caso, si allarga anche il divario competitivo tra le due sponde dell’Atlantico. Infatti, la campagna vaccinale europea è indietro rispetto a quella americana e la risposta economica dell’Unione europea è più contenuta e diluita in un periodo di tempo più lungo. In definitiva, gli Usa hanno risposto alla crisi facendo di più e più rapidamente. Per tutte queste ragioni gli Stati Uniti si candidano a essere il Paese leader della metamorfosi dell’economica globale alla fine della pandemia.
L’American Jobs Plan
Dopo i provvedimenti di breve e medio termine, la strategia della Casa Bianca si rivolge anche alle priorità di lungo periodo con l’American Jobs Plan. Il nome del piano, di circa 2600 miliardi di dollari, indica che il comune denominatore della manovra economica sarà il lavoro, ma in realtà si occuperà di vari settori per colmare i ritardi negli investimenti in infrastrutture, mobilità green, digitalizzazione urbana e nuove politiche sociali.
Secondo la Società americana degli ingegneri civili, servono almeno 2000 miliardi di investimenti per riparare le infrastrutture obsolete. Pete Buttigieg, Segretario ai Trasporti, ha dichiarato che la maggior parte delle strade, dei ponti e delle vie di comunicazione esistenti risale agli anni Cinquanta e il loro ammodernamento le renderà più sicure e utili alla lotta al cambiamento climatico. Una parte di questo piano di investimenti alimenterà anche la ricerca nella filiera industriale della produzione di auto elettriche. Come sottolineato dai sindacati dell’industria automobilistica americana nel 2018, l’unico modo per mantenere alti livelli di occupazione e rispondere alla sfida dei colossi asiatici dell’automobile è quello del finanziamento pubblico nel settore della mobilità green. Questa linea di intervento, apparentemente di politica interna, ha anche dei riflessi sul piano della politica internazionale e si pone in continuità con l’ordine esecutivo firmato da Biden a febbraio per controllare l’approvvigionamento dei semiconduttori e del litio (la materia prima su cui nasce l’elettromobilità).
Infine, un terzo delle risorse sarà investito nelle politiche della caregiving economy per sanare le fratture sociali emergenti, a partire dalla perdita educativa di milioni di bambini costretti alla didattica a distanza, quella dell’assistenza medica agli anziani, ai disabili e alle altre categorie che hanno sofferto di più la pandemia. Questi investimenti potranno creare ricchezza e accrescere l’occupazione già nei mesi successivi all’approvazione dell’American Jobs Plan. Il Congressional Budget Office (istituto indipendente del Congresso) aveva recentemente calcolato che ogni dollaro speso in infrastrutture può generare almeno 2,20 dollari di ritorno economico. Inoltre, per i policy-makers di Washington, quest’anno ci saranno circa 6,5 milioni di nuovi posti di lavoro derivanti dalle ristrutturazioni delle infrastrutture pubbliche. Se queste stime dovessero essere confermate, l’American Jobs Plan potrebbe smentire o rinviare l’idea del declino (non solo economico) degli States.
L’intero pacchetto di investimenti dovrà essere discusso e approvato dal Congresso e si crede che il confronto con i repubblicani continuerà almeno fino a luglio. Intanto vale la pena di sottolineare tre dati puramente politici. In primo luogo, nonostante le differenze tra GOP e democratici, questi temi potrebbero spingere il Congresso a un voto bipartisan. In secondo luogo, Biden ha aperto all’ala più a sinistra del partito, facendo propri i principi del Green new deal con l’obiettivo di far convergere sulla sua leadership le tante anime dem. Infine, lo staff di Biden sta correndo per arrivare alle elezioni di metà mandato con dei risultati spendibili per vincere le elezioni, memori del fatto che il partito che controlla la Casa Bianca ha storicamente perso in 19 delle ultime 21 midterm elections.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di maggio/giugno di eastwest.
Biden-Harris: i provvedimenti dei primi cento giorni
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La presidenza di Joe Biden Jr. è iniziata il 20 gennaio 2021 con un appello all’unità della nazione americana. Nel suo discorso, il più anziano di tutti i Presidenti si fa carico di una responsabilità che torna alla ribalta della storia degli States dopo più di un secolo e che mancava dal dibattito politico sin dai tempi della Guerra di secessione: bisogna salvare l’America dalle divisioni interne che hanno raggiunto l’apice nell’assalto al Campidoglio del 6 gennaio.
Questa sarà la sfida principale che il Presidente Biden dovrà vincere nei prossimi anni alla Casa Bianca. Non si tratta di una prova semplice, né di un fine puramente ideale, ma di poter preservare l’integrità delle istituzioni che hanno reso gli Usa la prima potenza del mondo.
Per conseguire questo difficile traguardo Biden ha scelto di farsi affiancare da Kamala Harris, una vice-presidente la cui storia mette insieme alcune delle anime della società americana: quella delle comunità afro-americane, quella degli americani di origine asiatica, quella di un paese cresciuto con il contributo delle minoranze e dell’immigrazione. Il binomio Biden-Harris è già il simbolo di un’America che rinsalda i legami della coesione nazionale che sono stati logorati dalla tensione politica e riflette l’armonia che dovrebbe governare la transizione demografica in atto. Da un lato c’è Joe Biden Jr., un politico di lunga esperienza e uomo bianco, che rappresenta il volto tradizionale dell’establishment politico dell’America e la maggioranza bianca in declino, costretta a ridimensionarsi per le forze dei trend demografici. Dall’altro Kamala Harris, una giovane leader donna di colore e figlia di immigrati, emblema di quella parte della società che è stata tenuta ai margini del potere e che merita un posto nella politica americana. I due leader, le due metà della società, le due generazioni si presentano insieme alla guida di Washington, testimoniando che l’America deve camminare unita e in accordo. Tuttavia, se questo tandem politico riuscirà a funzionare non sarà soltanto per la forza del loro esempio, per l’empatia e la complicità tra i due leader, ma soprattutto per le loro scelte politiche.
Biden e Harris dovranno aiutare le istituzioni che presiedono, rispettivamente la Casa Bianca e il Senato, a approvare le leggi che gli Stati Uniti attendono da troppo tempo e che sono ostaggio degli steccati ideologici tra i partiti. Per comprendere quali sono le capacità di Governo dell’amministrazione Biden, si cercheranno delle risposte in quel tradizionale “banco di prova” che sono i primi cento giorni della presidenza. Come disse Franklin Delano Roosevelt, il Presidente che coniò questa espressione quasi un secolo fa: nei primi cento giorni si può capire cosa sa fare il Presidente. Ecco perché i candidati alle presidenziali annunciano le loro proposte per i primi cento giorni e perché il 30 aprile prossimo si farà il primo bilancio dell’America di Biden.
Se Biden avesse iniziato il suo mandato in un tempo ordinario, i primi cento giorni della sua presidenza sarebbero stati valutati semplicemente in un confronto con quanto fatto dai suoi predecessori, ma nel 2021, a un anno dalla dichiarazione dell’allarme pandemico le priorità sono innanzitutto quelle imposte dalle emergenze causate dalla diffusione del coronavirus e quelle ereditate dalla presidenza Trump come la polarizzazione, il ritardo sulla lotta al cambiamento climatico, le nuove vulnerabilità del multilateralismo indebolito dall’America First, la rivalità con i regimi autoritari, la condizione delle classi disagiate e la violenza razziale.
I cento giorni dell’amministrazione Biden saranno giudicati considerando l’attualità e il lavoro degli altri presidenti che si sono trovati a gestire parentesi storiche altrettanto complesse. L’esempio è di nuovo quello di Roosevelt che fu eletto alla guida degli Usa quattro anni dopo il crollo di Wall Street del 1929. Roosevelt riuscí a lanciare l’ambizioso programma di rilancio dell’economia, il celebre New Deal, e far approvare 15 leggi nei primi cento giorni, ma non ci si aspetta nulla di simile da Biden. Roosevelt poteva contare su un’ampia maggioranza in entrambe le Camere del Campidoglio: c’erano 313 democratici nella House of Representatives e 70 nel Senato. Le maggioranze che invece sono a disposizone dei democratici nell’attuale Congresso sono numericamente ridotte e il numero di senatori dei due schieramenti è sostanzialmente pari. Inoltre, l’esito del secondo impeachment contro Trump ha riacutizzato la frattura tra i partiti, rendendo meno probabile che nei prossimi mesi si raggiunga il consenso bipartisan richiesto per approvare delle grandi riforme. In veste di Presidente del Senato, con un voto decisivo per determinare la maggioranza, ci si aspetta che il ruolo di Kamala Harris sia più rilevante rispetto a quello del suo predecessore Mike Pence. In particolare, la stampa americana ha messo in evidenza come il successo del piano di aiuti pandemico del governo federale dipenda dalla capacità dei democratici nel Senato, e quindi di Harris, di superare l’ostruzionismo dei repubblicani.
Gli ordini esecutivi
Mentre il Congresso è nella trappola della sostanziale paralisi politica, Biden ha fatto ricorso ai tanti strumenti che rientrano negli atti a disposizione del Presidente: ordini esecutivi, memorandum e disegni di legge. Sono circa 50 i provvedimenti adottati da Biden finora e potremmo raggrupparli in macro-aree per provare a ricostruire l’agenda dei suoi primi cento giorni. Diciassette atti sono dedicati a fronteggiare la pandemia, nove alla gestione dei flussi migratori, cinque alla politica internazionale, cinque all’eguaglianza razziale e ai diritti delle minoranze. In gran parte si tratta di atti che cancellano le politiche di Trump, ma a guardar bene c’è anche dell’altro. Nei documenti che il presidente ha firmato nelle scorse settimane c’è sia un ordine di priorità sia il tentativo della Casa Bianca, e dei democratici, di misurare il gradimento dei cittadini.
Nel primo gruppo rientrano gli ordini esecutivi per bloccare il contagio del virus (si pensi alla campagna “mask up”) e per vaccinare cento milioni di americani in cento giorni. Il piano vaccini voluto da Biden mira a fermare l’emergenza sanitaria e a riportare i tassi di mortalità al periodo pre Covid entro il 2021. Questo è l’obiettivo numero uno dell’agenda del presidente Biden e gli americani dimostrano un ampio sostegno per le politiche contro il coronavirus. Recenti sondaggi rivelano che quasi otto americani su dieci sono favorevoli al piano vaccini e ai provvedimenti che impongono più rigore sull’uso dei dispositivi di protezione individuale (FONTE: Sondaggi Morning consulting tra il 25 gennaio e il 15 febbraio 2021).
Con il secondo gruppo di atti, il nuovo inquilino dello Studio Ovale cambia nettamente l’approccio degli Usa alla questione dei migranti. Il presidente sta pianificando una task force per riunire le centinaia di bambini separati dalle loro famiglie al confine tra Usa e Messico. Inoltre, il primo progetto di legge presentato dall’amministrazione Biden al Congresso, conosciuto come US Citizenship Act del 2021, si pone l’obiettivo di rinnovare l’intera legislazione sui migranti che risale al 1986.
Il nuovo Presidente ha detto che la sua amministrazione non permetterà più alcuna politica fondata sul sacrificio dei loro diritti e al contempo cercherà soluzioni per limitare il fenomeno migratorio. Ciò significa evitare che si ripetano le separazioni forzate dei membri delle famiglie migranti, programmare nuovi accordi con i paesi da dove partono le carovane umane che attraversano l’America centrale verso il Messico, distinguere i richiedenti asilo e coloro che godono di protezione umanitaria dagli altri migranti. Queste sono le scelte più contestate dagli americani. Indipendentemente dalle preferenze politiche, la maggior parte dei cittadini sostiene che sia giusto chiudere i confini. Tra i favorevoli alle politiche per bloccare i flussi migratori non ci sono soltanto i sostenitori dell’ex presidente, ma anche molti democratici. Quattro dei cinque provvedimenti che gli americani hanno gradito di meno in assoluto, tra i cinquanta atti che il presidente Biden ha adottato finora, riguardano le politiche per i diritti dei migranti. Meno del 40% degli americani intervistati condivide la scelta di Biden di innalzare il numero di richiedenti asilo che gli Usa ammetteranno nel prossimo anno. Circa il 45% è contrario alla sospensione della politica di rimpatrio forzato nel territorio messicano, conosciuta come “Remain in Mexico” policy. Meno del 50% degli americani è favorevole alla fine del Muslim Ban approvato da Trump nel 2017.
Nel terzo gruppo di provvedimenti del Presidente troviamo le prime scelte sul fronte della politica estera. Il 20 gennaio 2021, il presidente Biden ha firmato gli atti per bloccare il recesso degli Usa dall’Organizzazione Mondiale della Sanità e riportare gli Stati Uniti nell’Accordo sul clima di Parigi. Queste decisioni confermano quanto Biden ha detto piú volte nei suoi discorsi: “America is back”, cioè “l’America è tornata”. La posizione di Biden non avrebbe potuto essere più antitetica rispetto a quella di Trump. Per l’ex Presidente l’obiettivo era quello di staccare gli Usa dall’assetto multipolare contemporaneo e affermare una politica estera unilaterale. Ora Biden deve rammendare gli strappi che la “diplomazia poco diplomatica” (per riprendere il commento di un esperto) del presidente Trump ha lasciato sulla fitta rete di alleanze degli Usa. Prima di essere vicepresidente di Barack Obama, Biden è stato membro della Commissione sugli affari esteri del Senato e saprà valorizzare la sua esperienza ridisegnando il perimetro dell’influenza geopolitica americana. Sembra che la maggioranza dei cittadini sia favorevole al ritorno di Washington ad un ruolo di protegonista delle organizzazioni internazionali che l’America ha costruito nei decenni.
Un altro gruppo di provvedimenti promossi da Biden include le misure per contrastare le discriminazioni e la violenza razziale. L’ordine esecutivo più significativo di questo gruppo di atti presidenziali è quello per chiudere la “Commissione 1776”. Questa Commissione era stata voluta da Trump per scrivere i principi teorici di quella che il tycoon chiamò “educazione alla patria”. Due giorni prima del termine del mandato dell’ex presidente (nel giorno dedicato a Martin Luther King) la Commissione 1776 ha diffuso un rapporto che avrebbe dovuto riscrivere i programmi di storia delle scuole americane. La storiografia accademica americana non ha esitato a definire il rapporto della Comissione 1776 come una manipolazione della storia nazionale o pseudo-storia che prova a cancellare le tracce delle discriminazioni agli afro-americani e i sacrifici delle conquiste dei diritti delle minoranze. Fermare la riscrittura dei piani formativi che avrebbe oscurato dai libri di scuola la storia dell’affermazione dei diritti degli afro-americani è un atto politico molto rilevante che il presidente Biden ha firmato in occasione dell’inizio del Black History Month.
Gli altri ordini esecutivi del P residente Biden non possono essere raggruppati in una categoria omogenea e non hanno avuto ampia visibilità mediatica, tuttavia sono decisioni politiche molto indicative perché segnano un cambio di prospettiva nella leadership della Casa Bianca. Ad esempio, Biden ha voluto elevare il climate change ad una priorità per la sicurezza nazionale e la politica estera. Inoltre, dopo il negazionismo del valore del sapere scientifico, Biden ha istituito nuovamente il comitato di esperti del presidente sulla scienza ed ha diffuso un memorandum che vincola le agenzie federali a elaborare le loro politiche sulla base di evidenze empiriche verificabili.
Nell’immobilismo del Congresso, bloccato dalle polemiche tra i partiti, il presidente Biden e la nuova amministrazione hanno scommesso sui poteri di governo della Casa Bianca per aiutare l’America a superare le criticità dei primi cento giorni.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di marzo/aprile di eastwest.
Kamala Harris: una donna alla Casa Bianca
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Lo scorso novembre gli elettori americani hanno scelto Kamala Harris come vice Presidente degli Stati Uniti. L’arrivo alla Casa Bianca di “una” vice Presidente, peraltro, con una storia personale che trova le sue origini in una famiglia di immigrati, rappresenta un evento epocale per la democrazia di Washington.
L’investitura di Kamala Harris accanto a Joe Biden è il culmine del lungo cammino percorso dalle donne nella politica americana. Un percorso che iniziò nel 1872 quando Victoria Woodhull si candidò alla presidenza degli Usa, ben prima dell’approvazione del diciannovesimo emendamento della Costituzione, che solo nel 1920 garantí il diritto di voto alle donne. Dopo di lei quasi quaranta donne si sono candidate alla presidenza e alla vice presidenza. Le loro storie, da Victoria Woodhull a Kamala Harris, ci dicono che le donne sono entrate nella scena delle presidenziali americane da molto tempo e non soltanto nel ruolo delle first lady della Casa Bianca. Dopo Franklin D. Roosevelt, che fu il primo presidente a volere una donna nella sua squadra di governo, il ruolo delle donne nelle amministrazioni federali è cresciuto fino a raggiungere l’apice nelle presidenze Clinton, quando più del 40 % degli incarichi fu affidato alle donne. La crescente presenza femminile si osserva non soltanto in termini quantitativi, ma anche dall’importanza dei loro ruoli. Mai prima del 2020, una donna era stata eletta alla seconda carica del governo degli Stati Uniti e al momento dell’insediamento, tante donne si sono aggiunte al team del nuovo presidente: Janet Yellen, che guiderà il Dipartimento del Tesoro, Avril Haines, al vertice dell’intelligence nazionale, e Deb Haaland, come segretaria all’Interno.
Chi è e cosa ha fatto
Come già detto, Kamala Harris sta scrivendo una nuova pagina della storia degli Usa anche per le sue origini. La vice Presidente Harris è americana, ma è anche afro-americana e asiatica. I suoi genitori, Shyamala Gopalan e Donald Harris, si trasferirono in California, lei dall’India e lui dalla Giamaica, per studiare in due importanti università di Berkeley. È molto significativo il fatto che i coniugi Harris si siano conosciuti in occasione di un incontro dell’Afro American Association e che abbiano partecipato alle marce del movimento per i diritti civili negli anni Sessanta. Come dichiarato dalla stessa Harris dopo l’elezione al Senato nel 2016: “Se sono arrivata qui è grazie a loro e alle persone che scesero in strada per chiedere più diritti in quella stagione politica”. Dopo il dottorato entrambi i genitori intrapresero la carriera accademica. La madre si interessò alla prevenzione clinica del tumore al seno, collaborando con molti atenei nord-americani, mentre il padre si specializzò nella ricerca sui problemi della crescita economica e delle diseguaglianze. La Professoressa Gopalan morì nel 2009 in California dopo aver vissuto a lungo in Canada a seguito del divorzio. Il Professor Harris invece fa ancora parte del corpo docenti della Stanford University.
A segnare la vita della futura leader democratica sono stati anche l’esempio del nonno materno P. V. Gopalan e il sostegno della sorella Maya. Il nonno di Kamala Harris fu incaricato dal Governo indiano di assistere lo Zambia nella decolonizzazione per gestire l’emergenza dei rifugiati. Durante i periodi trascorsi a Lusaka la giovane Harris vide il nonno al lavoro tra i migranti. La memoria di quelle storie di umanità e sofferenza è stata una delle costanti della vita di Kamala Harris insieme alla complicità con la sorella Maya. L’entourage della nuova vice Presidente descrive il rapporto tra le due sorelle alludendo all’empatia che esisteva tra i fratelli John e Robert Kennedy. Le sorelle Harris condividono sia la professione legale sia la passione politica e, prima di assistere la sorella maggiore nel 2020, Maya Harris è stata consulente di Hillary Clinton nella campagna contro Trump.
La giovane Kamala trascorse la sua gioventú in un quartiere abitato prevalentemente da afro-americani dove frequentò la scuola nell’epoca della de-segregazione. Di quell’esperienza la nuova vice Presidente ha ricordato pubblicamente la fine delle divisioni tra bianchi e neri negli scuolabus e nelle aule. La sua vicinanza al tema dei diritti la spinse a studiare alla Howard University di Washington e questa scelta non fu casuale. Howard è uno dei campus simbolo della storia afro-americana dove si laurea oltre il 20% dei neri negli Stati Uniti. Tornata in California Kamala Harris si unì alla National Black Law Students Association per sostenere la lotta alle discriminazioni razziali. Queste priorità (i diritti civili e politici delle minoranze) hanno orientato anche la sua carriera da prima procuratrice distrettuale di colore della California. Si parlò di lei come della “procuratrice progressista” per l’iniziativa Back on track che promuoveva programmi di rieducazione alternativi al carcere. Una politica di rottura rispetto all’approccio conservatore dominante in California.
In questi brevi riferimenti alla sua vita privata si possono scorgere le basi ideali che hanno plasmato la visione politica della nuova vice Presidente. La senatrice Harris si è schierata a favore di nuovi controlli sulla detenzione e l’uso delle armi, destando l’opposizione della National Rifle Association; ha sponsorizzato la legge di Bernie Sanders sulla sanità Medicare for All; ha definito la pena di morte “incostituzionale” e ha avversato la politica di Trump sui migranti, proponendo una legislazione chiamata REUNITE Act per il ricongiungimento delle famiglie divise al confine con il Messico. Secondo le indagini di GovTrack, Kamala Harris è stata la voce più liberal nel Senato dal 2016 al 2020.
Un futuro da Presidente?
Se tutto questo attiene a quanto fatto finora dalla nuova vice Presidente, dovremmo attenzionare almeno altre due informazioni essenziali per comprendere il suo futuro politico e il significato della sua elezione per la democrazia di Washington. La Costituzione americana dedica al suo ufficio alcune parole particolarmente rilevanti per i rapporti tra la Casa Bianca e il Congresso: “Il vice Presidente degli Stati Uniti sarà Presidente del Senato, ma avrà il diritto di voto soltanto in caso di parità.” La Costituzione affida quindi alla neo vice Presidente un compito fondamentale, che potrebbe divenire ancora piú dirimente considerando che gli equilibri tra democratici e repubblicani nel Senato saranno decisi nel ballottaggio del 5 gennaio in Georgia. Se i democratici dovessero ottenere i due seggi contesi, allora la vice-presidente Harris potrebbe diventare l’ago della bilancia nella camera alta del Congresso.
Infine, i più attenti esperti delle istituzioni americane si sono soffermati sul fatto che Kamala Harris potrebbe potenzialmente ritrovarsi a essere la prima donna di colore a occupare lo Studio Ovale. Le norme che regolano il funzionamento della presidenza prevedono una successione gerarchica programmata: in caso di assenza del Presidente, il vice o la vice subentrano al suo posto fino alle prossime elezioni. Kamala Harris potrebbe essere chiamata dalla sorte a succedere a Biden. Questa è un’ipotesi tutt’altro che infondata, in quanto più della metà dei quattordici vice Presidenti che si sono ritrovati alla Casa Bianca, sono diventati a loro volta Presidenti per le dinamiche della successione e non per aver vinto le elezioni. Le élite della capitale americana sono consapevoli di questo “piano B”, dato che Biden sarà il Presidente più anziano della storia e il suo mandato inizia in piena pandemia.
Kamala Harris è destinata a essere la figura più promettente della nuova amministrazione per il suo carisma, le tracce del sogno americano che si trovano nella sua vita privata e nella sua carriera, e i poteri che potrebbe esercitare nei prossimi anni. È come se la sua elezione avesse permesso agli Stati Uniti di scrivere una nuova pagina della loro storia per sconfessare la retorica di Trump, che ha stigmatizzato le donne e le minoranze.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di gennaio/febbraio di eastwest.