[PISA] Giornalista, scrive di geopolitica vaticana su diverse testate, occupandosi soprattutto di Chiesa cattolica negli Stati Uniti.
Il candidato presidente Donald Trump
Continua a leggere l’articolo e tutti gli altri contenuti di eastwest e eastwest.eu.
Abbonati per un anno a tutti i contenuti
del sito e all’edizione cartacea + digitale della rivista di
geopolitica a € 45.
Se desideri solo l’accesso al sito e l’abbonamento alla rivista digitale, il costo
per un anno è € 20
Hai già un abbonamento PREMIUM oppure DIGITAL+WEB? Accedi al tuo account
Il rematch tra Joe Biden e Donald Trump non è più fantascienza. Ciò che fino a qualche settimana fa poteva sembrare soltanto una remota suggestione, destinata a esaurirsi bruscamente sui banchi di qualche tribunale statunitense per le vicende legali che interessano l’ex presidente, dopo i caucus dell’Iowa di metà gennaio è un’ipotesi più che concreta.
Si badi bene: il processo delle primarie repubblicane è appena iniziato e i delegati del poco popoloso Stato del Midwest, alla convention di metà luglio, quando il candidato sarà ufficializzato, rappresentano meno del 2% del totale. E, ancora, i processi in capo al tycoon newyorchese non sono affatto svaniti nel nulla, né lo è la doppia decisione di escluderlo dalla corsa alla nomination da parte di altri due Stati, Colorado e Maine.
Ma il successo a valanga di Trump, certamente atteso seppur non ancora certificato, è la dimostrazione che, al di là di tutto, l’ex presidente continua ad avere un enorme ascendente sugli elettori repubblicani e, in particolare, sulla base più movimentista. Tanto che la rivincita contro Biden, a novembre, a oggi, è lo scenario più probabile.
Al voto in Iowa, Trump è arrivato da favorito. Del resto, la sua presa sul Partito repubblicano è ancora forte: ancor prima dell’annuncio sulla sua nuova candidatura, il magnate godeva del consenso di oltre i due terzi degli elettori del suo schieramento, come riportato da Associated Press. Non solo: l’agenda dei repubblicani è talmente subordinata agli indirizzi e alle scelte di Trump che nei mesi di avvicinamento al primo appuntamento delle primarie i suoi sfidanti si sono ben guardati dal criticarlo per paura di perdere i consensi residuali.
Senza contare coloro che, via via, hanno deciso di abbandonare la corsa visto lo scarso sostegno ottenuto – dall’ex vicepresidente di Trump, Mike Pence, al governatore del New Jersey Chris Christie, passando, per ultimo, in ordine cronologico, all’imprenditore di origini indiane Vivek Ramaswamy – in campo sono rimasti Ron DeSantis, governatore della Florida, e Nikki Haley, già ambasciatrice degli Stati Uniti alle Nazioni Unite.
Anche i due continuano a risentire della popolarità dell’ingombrante avversario: DeSantis, per esempio, è un trumpiano della prima ora, ha pubblicamente sostenuto in più occasioni l’ex presidente e ne condivide buona parte delle posizioni politiche; al contrario, Haley già dalle primarie del 2016 si era schierata contro Trump e a favore prima di Marco Rubio e poi di Ted Cruz.
In un secondo momento, però, anche lei ha dovuto rivedere la propria strategia, diventando presto uno dei principali volti dell’amministrazione del tycoon. Dal 2018, quindi, con le dimissioni da ambasciatrice e la successiva discesa in campo, Haley ha nuovamente cambiato approccio, presentandosi come la candidata ideale per i repubblicani più moderati, spaventati dalla retorica incendiaria di Trump in ambiti come l’immigrazione e il cambiamento climatico. Insomma: che sia oggetto di critica o di ispirazione, quest’ultimo continua a essere punto di riferimento e cartina di tornasole per l’intero Partito repubblicano.
Questa inossidabile centralità nel dibattito interno al fronte del Grand Old Party ha sicuramente giocato a suo favore. Innanzitutto, Trump si è potuto tenere alla larga da qualsiasi dibattito televisivo tra i candidati, continuando ciononostante a guadagnare voti senza il rischio di incappare in gaffe o esporsi alle critiche. In più di un’occasione, infatti, l’ex presidente è stato il convitato di pietra delle schermaglie tra i vari contendenti che si sono ritrovati addirittura a tesserne le lodi.
Una situazione paradossale, che ha visto aumentare l’appeal di Trump senza che quest’ultimo muovesse un dito, strategia tra l’altro già piuttosto efficace nella campagna del 2016, quando le sue esternazioni eclatanti e spesso oltre il politicamente corretto gli assicuravano le prime pagine di giornali e telegiornali col minimo sforzo. Tant’è che, come detto, Trump si è presentato ai nastri di partenza delle primarie, quando effettivamente gli elettori si sono espressi, come capofila indiscusso.
Così, in Iowa Trump ha ottenuto addirittura il 51% delle preferenze e ben 20 delegati, in linea con i sondaggi della vigilia; inoltre, si è imposto su tutte le 99 contee che compongono lo Stato, mentre nel 2016 si era fermato a 36.
Alle sue spalle, invece, l’abisso. DeSantis, che tra i due principali sfidanti sembrava essere quello maggiormente in difficoltà, si è piazzato al secondo posto con poco più del 21%: per lui, finire terzo, avrebbe probabilmente significato la fine di qualsiasi velleità; quindi, sul gradino più basso è finita Haley, che si è mantenuta sopra il 19%. Quarto il già citato Ramaswamy, anch’egli profondamente influenzato dalla retorica trumpiana, che ha ricevuto meno dell’8% delle preferenze: un risultato che lo ha convinto a rinunciare alla corsa.
Il risultato dell’ex presidente, come detto, dev’essere contestualizzato. Non tanto per ridimensionarlo, perché la scalata di Trump verso la nomination del Partito repubblicano è piuttosto avviata al di là degli ostacoli giudiziari che, comunque, verosimilmente verranno meno a seguito dell’impugnazione da parte del suo team legale.
Quanto, al contrario, per senso di realtà: è vero, l’Iowa è stato travolto da un freddo polare e da tempeste di neve che hanno senz’altro disincentivato molti elettori dal recarsi al voto. Ma i numeri dicono che, considerando come gli iscritti siano intorno ai 750mila, sia la tornata del 2016, con 185mila partecipanti, sia quella del 2012, con 122mila, hanno avuto una maggior affluenza rispetto a quella di quest’anno, che si è fermata a 110mila.
Dati che, soprattutto per la composizione dello Stato, fanno riflettere: l’Iowa è a maggioranza bianca ed è la casa di una nutrita comunità evangelica, una corrente religiosa di fede cristiana, tendenzialmente conservatrice e di destra che negli anni, dall’ascesa di Trump per la prima sfida contro Hillary Clinton in poi, si sono dimostrati particolarmente sensibili alla causa del tycoon e lo hanno sostenuto a grande maggioranza. Dunque, anche per la distanza che ci separa dalla convention conclusiva, abbandonarsi a titoli sensazionalistici sul ritorno dato come certo di Trump alla Casa Bianca non è, almeno per il momento, esatto.
Dall’altro lato, comunque, il successo dell’ex presidente è indiscutibilmente netto, come preventivabile. La base del movimento Make America Great Again, eredità che difficilmente sarà archiviata insieme alla carriera politica di Trump stesso, è il vero punto di forza della sua candidatura. L’incrollabile popolarità che Trump riscuote in questa frangia dell’elettorato repubblicano, che si è radicalizzata ancor di più dopo gli eventi dell’assalto al Campidoglio nei giorni immediatamente antecedenti all’inaugurazione del nuovo presidente Joe Biden, ha pochissimi precedenti nella storia politica statunitense.
Anche al di fuori, comunque, la figura di Trump non è del tutto avversata: anche non militanti e cittadini comuni vedono soddisfatta nell’ex presidente quella insostenibile e irriducibile pulsione a ritirarsi dal mondo, al sicuro nella città sulla collina di cui parlava John Winthrop, delineando il futuro delle colonie americane prima di imbarcarsi da Southampton insieme ai primi coloni della Baia del Massachusetts nel Seicento.
Tentazione forte e storicamente mai sopita, che passa dal monito di George Washington contro le alleanze vincolanti all’isolazionismo dopo la Prima guerra mondiale. E che, oggi, di fronte al sostegno da 44 miliardi di dollari in favore dell’Ucraina contro la Russia – che, a dir la verità, si è bloccato proprio per la spaccatura sempre più evidente all’interno del Congresso –, al caos mediorientale che rischia di detonare in un conflitto senza confini e ai sommovimenti sempre più preoccupanti attorno allo stretto di Formosa, che divide la Cina popolare da Taiwan, torna a essere un punto all’ordine del giorno del dibattito pubblico.
Trump, da parte sua, è un alfiere del self-restraint, ovvero della necessità, per gli Stati Uniti, di dismettere i panni dell’egemone; molto meno lo sono DeSantis e, soprattutto, Haley, che anche per questo difficilmente metteranno in discussione la candidatura del tycoon.
I giochi, probabilmente, si decideranno già prima dell’estate, quando i delegati di Trump saranno sufficienti per reclamare la nomination. Nel frattempo, comunque, non sono impossibili delle sorprese: Haley, più di DeSantis, resta un avversario da sconfiggere per l’ex presidente, visto l’appeal che esercita su alcune fasce dell’elettorato moderato e su parte dell’establishment.
Quel che è certo, è che la vittoria in Iowa, indipendentemente dai futuri esiti delle primarie, è l’ennesima riconferma del marchio evidente che Trump ha impresso sulla quotidianità statunitense: che sia a tutti gli effetti il prossimo sfidante di Biden, così come avvenne nel 2020, oppure no, la politica dovrà fare i conti con un’ampia fetta di trumpiani.
Le ragioni della pace
Continua a leggere l’articolo e tutti gli altri contenuti di eastwest e eastwest.eu.
Abbonati per un anno a tutti i contenuti
del sito e all’edizione cartacea + digitale della rivista di
geopolitica a € 45.
Se desideri solo l’accesso al sito e l’abbonamento alla rivista digitale, il costo
per un anno è € 20
Hai già un abbonamento PREMIUM oppure DIGITAL+WEB? Accedi al tuo account
L’incontro di fine marzo tra Xi Jinping e Vladimir Putin a Mosca ha aperto a un nuovo orizzonte nel conflitto in Ucraina. Fuori da ogni grammatica ideologica sulle dinamiche e le sorti della guerra, che non prenda dunque in considerazione le speranze di ognuno, il coinvolgimento di Pechino è un possibile punto di svolta per lo stallo orientale al confine tra gli oblast’ Donetsk e Lugansk e la Russia. Soprattutto se, come anticipato anche da Kiev, il Presidente cinese dovesse poi avere un confronto – seppur soltanto telefonico – con il suo omologo Volodymyr Zelensky.
Del resto, per un intero anno, dalle parti della Cina poco o nulla si era mosso, in un senso o nell’altro: nessuna condanna nei confronti dell’aggressione ordinata a febbraio dello scorso anno da Putin, sotto il nome di “Operazione militare speciale”, ma allo stesso tempo nessun sostegno fattivo al Cremlino, nonostante le voci insistenti su rifornimenti militari rilanciate dai media statunitensi. Quindi, proprio in occasione del primo, triste anniversario dell’attacco sferrato da Mosca, la Cina ha reso noto il proprio piano di pace in dodici punti. Anche se, come si è affrettato a fare lo stesso ambasciatore alle Nazioni unite, Zhang Jun, il piano stesso è stato presentato soltanto come un documento di posizionamento di Pechino sulla guerra.
Eppure, proprio dopo il faccia a faccia con Xi Jinping, il cui terzo mandato è iniziato quest’anno, rendendolo di fatto leader assoluto della Cina che ha posto fine al tradizionale limite dei due mandati istituito dopo la morte di Mao, Mosca ha rilanciato il piano in 12 punti cinese come un possibile punto di partenza per arrivare alla pace in Ucraina. Senza fare i conti, però, con Kiev stessa e con gli Stati Uniti, che difficilmente accetterebbero il ruolo di mediatore internazionale di Pechino e una pace che ratificherebbe le conquiste militari russe.
In questo contesto si muove anche la principale figura internazionale impegnata nell’avvio di un processo di pace dall’inizio del conflitto, ovvero Papa Francesco. Mentre la Cina è rimasta a lungo in silenzio e in contemplazione, anche per gli evidenti vantaggi strategici e geopolitici garantiti dal prolungarsi della guerra, che costringe Washington in Ucraina e distrae gli Stati Uniti dal Mar Cinese Orientale, dove si trova Taiwan, e al tempo stesso obbliga Mosca a vendere i propri idrocarburi a basso prezzo alle industrie cinesi, Bergoglio ha sin dagli inizi perseguito come priorità assoluta la fine della guerra.
Dalla sortita assai poco protocollare che lo ha portato, un paio di giorni dopo l’inizio dell’aggressione, a far visita all’ambasciatore russo Alexander Avdeev accreditato presso la Santa Sede, fino alla conferma da parte del cardinale britannico Paul Richard Gallagher, segretario per i Rapporti con gli Stati, di una disponibilità concreta da parte del Vaticano di fare da mediatore nel conflitto: l’obiettivo di Papa Francesco rimane quello della pace.
A distoglierlo da questo intento non è servita neppure la magra diatriba sulla presunta simpatia putiniana dello stesso pontefice. Dopo aver dato più volte udienza al Presidente russo e aver lavorato a lungo sul ripristino della piena comunione con la Chiesa ortodossa di Mosca, firmando anche una dichiarazione comune con il patriarca Kirill all’aeroporto dell’Avana nel 2016, Bergoglio è stato presto etichettato come personaggio sin troppo ambiguo sul conflitto. Quando, poi, durante un’intervista ha riportato le parole di un capo di Stato, che gli avrebbe confidato come l’espansione verso est dell’Alleanza atlantica sia stata una delle cause della guerra in corso, il famoso “abbaiare della Nato alle porte della Russia”, una parte dell’opinione pubblica lo ha squalificato.
Ben poca eco, al contrario, ha ricevuto un’altra intervista, rilasciata alla rivista dei gesuiti statunitensi, America, nella quale ha specificato in maniera netta come il conflitto si articoli lungo una linea di faglia ben precisa: c’è un popolo martirizzato, ovvero quello ucraino, e qualcuno che lo martirizza. Tanto che le sue parole hanno portato il governo russo a condannarle immediatamente.
Gli attacchi al pontefice, da una parte e dall’altra, sono la miglior controprova di una ricerca spassionata e incessante della pace, senza cedimenti o retropensieri. L’approccio di Papa Francesco, a dieci anni dalla sua elezione, non dovrebbe più destare sorpresa: nell’ambito internazionale, così come in quello domestico, non esistono le maschere teatrali dei drammi morali cinquecenteschi, dove il bene lotta contro il male seguendo ruoli precostituiti e un canovaccio senza spazio per i fraintendimenti. Questo può accadere in uno spazio ultraterreno e non umano. Nel mondo, invece, nessuno è interamente cattivo e, per questo, nessuno è da considerare perso per sempre: proprio per questo, per la sua ostinata convinzione di poter rimarginare le ferite, Francesco ha detto, di ritorno dal viaggio in Congo e Sud Sudan, di essere disposto ad andare a Kiev, a patto che potesse fare altrettanto recandosi a Mosca. Non per uno sterile equilibrismo, ma per ricongiungere davvero i due pezzi del puzzle.
Alla prospettiva di pace vaticana, come detto, si è aggiunta quella, seppur peculiare, della Cina. Che, in ogni caso, rilancia almeno formalmente il ruolo del multilateralismo in ambito globale e che rappresenta il baluardo del rispetto della sovranità territoriale. Pechino ha sul proprio tavolo pro e contro di una fine del conflitto: i vantaggi, come detto, sono evidenti; a questi, inoltre, si potrebbe aggiungere anche quello di un ipotetico balzo in avanti nella propria reputazione internazionale, ai minimi storici dopo la breve parentesi degli esordi della pandemia.
La causa della pace, però, trova un’ulteriore sponda in un’altra, grande cultura asiatica: l’India. A dicembre scorso, Zelensky ha parlato con il primo ministro Narendra Modi. Su Twitter, poi, il Presidente ucraino ha scritto di aspettarsi l’adesione indiana alla “peace formula” proposta da egli stesso per porre fine alla guerra. Gigante demografico ma, da sempre, adolescente geopolitico, l’India si è improvvisamente ritrovata in prima fila tra le possibili potenze esterne che potrebbero giocare un ruolo fondamentale nell’avviare un processo negoziale e dialogico tra Kiev e Mosca. Anche la stessa Presidente del Consiglio italiano, Giorgia Meloni, ha assegnato al suo omologo Modi un ruolo rilevante nell’aprire un varco verso la pace.
Tutto questo, Nuova Delhi lo farebbe per portare alla ribalta un nuovo concetto di stabilità e di pace, derivato direttamente dalle esigenze del Sud globale. Se a porre fine alla guerra nel Vecchio continente fosse uno dei principali Paesi ex coloniali, già terra di conquiste e dominio di Portogallo, Francia e Regno Unito, allora la prospettiva per guardare in modo diverso al di sotto della linea di Brandt, tracciata dall’ex cancelliere socialdemocratico tedesco per individuare sulla cartina il Nord e il Sud del mondo, non potrà che cambiare in modo radicale. Ottenere la pace per l’Ucraina, in questo senso, sarebbe una nuova era per l’India. Anche se, per il momento, il coinvolgimento nelle dinamiche ucraine sembra piuttosto lontano dalla realtà.
Ciò avviene a livello epidermico, nel campo del visibile globale. Ma cosa accade nella dimensione interna di ciascun Paese? Ovvero: chi vuole la pace nella pancia degli Stati? Una conformazione ben più vasta rispetto a quella che, per il momento, è alla ricerca effettiva di una fine delle ostilità. In Italia, un sondaggio di Ipsos a un anno dall’inizio della guerra ha evidenziato come il 45% degli italiani intervistati abbia dichiarato di essere contrario al rifornimento di armi per Kiev, contro il 34% che si è schierato a favore. In particolare, tra i governisti, è la Lega a comandare il fronte del no col 55% dei propri elettori, mentre nel Partito Democratico il 52% dei votanti è a favore dell’invio.
E mentre nel nostro Paese vi è anche una forte componente extraparlamentare contraria all’invio delle armi e, in generale, al proseguimento del conflitto fino a far retrocedere la Russia sulle posizioni ante 2022, anche in altri Stati dell’Unione Europea l’opinione pubblica è rivolta a una conclusione più rapida possibile per il conflitto. In Germania e in Austria, per esempio, il network di Euroskopia ha rilevato come il 60% degli intervistati speri in questo esito. Inoltre, in Grecia, come in Italia, prevale la contrarietà all’invio di armi a Kiev (60% contro 38%).
Il panorama, a un anno di distanza, è dunque più complesso: oltre all’attività di Papa Francesco per la ricerca di una soluzione, si sono aggiunte a vario titolo anche Cina e India, mentre nelle opinioni pubbliche europee vi sono margini tra chi vorrebbe la fine immediata del conflitto. È chiaro, però, come quest’ultima non possa essere semplicemente la conclusone hic et nunc dell’aggressione. Ci viene in aiuto, in questo senso, Immanuel Kant, che nel 1795, di fronte a un’Europa sconvolta dalle guerre rivoluzionarie francesi, scrisse Per la pace perpetua. Porre fine al conflitto non può che avvenire attraverso una pace sostenibile, organica, convinta, che contrasta quella che scaturisce dal mero equilibrio di potenza e che, in sé, porta i semi della guerra futura al primo, lieve cambiamento dell’equazione. In breve: la pace non è semplicemente assenza di guerra, ma eliminazione della guerra stessa come mezzo di risoluzione delle controversie. Altrimenti, l’Europa farebbe la fine della casa dell’architetto di Swift, citato ne I viaggi di Gulliver: costruita secondo le migliori tecniche, ma destinata a crollare non appena ci si posi un passero.
La pace perpetua e sostenibile, del resto, è ancor più fondamentale oggi di quanto non lo fosse più di 200 anni fa, quando l’armamentario nucleare non minacciava l’esistenza non solo di chi subisce la minaccia, ma anche di chi quella minaccia la sbandiera. Come ha detto Papa Francesco, riprendendo il fil rouge lasciato in eredità dalla Pacem in Terris di Giovanni XXIII, di fronte allo spettro nucleare, siamo tutti perdenti.
Un richiamo, anche quest’ultimo, che ha una certa reminiscenza kantiana. Per il filosofo, quando gli esseri umani si ritrovano a non essere all’altezza del dovere, a quel punto subentra la natura. Ovvero: quando non sono gli uomini, esseri razionali, a ricercare la pace per guadagnarsi un posto migliore nel mondo, essa sarà comunque conseguita dalla natura nel corso della storia.
“Non significa tanto che essa ci impone un dovere di farlo”, scrive Kant nel manoscritto del 1795, “bensì che lo fa da sé, lo si voglia o no”: utilizzando una frase latina tratta dalle Epistole a Lucilio di Seneca, fata volentem ducunt, nolentem trahunt. Cioè: il fato guida colui che vuole farsi guidare, ma trascina colui che non vuole. Farsi travolgere dall’esplosione nucleare verso il raggiungimento della pace perpetua, significherebbe attuarla in quello che Kant descrive come il “grande cimitero del genere umano”.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di aprile/giugno di eastwest
Puoi acquistare la rivista sul sito o abbonarti
La geopolitica della pace
Continua a leggere l’articolo e tutti gli altri contenuti di eastwest e eastwest.eu.
Abbonati per un anno a tutti i contenuti
del sito e all’edizione cartacea + digitale della rivista di
geopolitica a € 45.
Se desideri solo l’accesso al sito e l’abbonamento alla rivista digitale, il costo
per un anno è € 20
Hai già un abbonamento PREMIUM oppure DIGITAL+WEB? Accedi al tuo account
Per il Papa che vuol portare la Chiesa fuori dall’Occidente, tornare nei ranghi non sarebbe soltanto contraddittorio, bensì controproducente. L’impegno assunto da Bergoglio sin dal 2013, anno di elezione dopo le dimissioni di Papa Benedetto XVI, è mirato, almeno in ambito internazionale, a drenare la romanità dalla Chiesa romana. Ovvero: sottrarla al raggio d’azione euroamericano, dando all’aggettivo “cattolico” il suo significato più pieno. Quello di “universale”.
Una traiettoria inconsueta alle nostre latitudini, abituati da oltre un trentennio a pontefici che sul suolo europeo – Wojtyla – e sul suolo americano – Ratzinger – ritrovavano l’essenza più profonda del cristianesimo. Il primo, va da sé, per ragioni storiche e personali, se non addirittura biografiche; il secondo, seppur tedesco, ammirava il substrato profondamente religioso della società statunitense che si contrappone a quella europea, sempre più relativista e composta da nones, i “non affiliati”.
Al contrario, Papa Francesco, che viene “dalla fine del mondo”, vede il globo da un altro punto di vista. Né europeo, né occidentale, bensì periferico. Un modo di approcciare le cose che divide e, allo stesso tempo, riunisce in unico sguardo la moltitudine dei centri del nostro pianeta. Lo stesso con cui Bergoglio ha osservato – e continua a osservare – il conflitto in Ucraina.
L’attacco russo nel febbraio scorso ha restituito alla cronaca internazionale una sorta di riedizione di quelli che, prima del crollo dell’Unione sovietica, furono i campi contrapposti. Soltanto una percezione di Guerra fredda, da non confondersi con una vera e propria riproposizione della stessa nei termini novecenteschi. Da un lato, il fronte ovest si è riproposto in modo compatto, con tentennamenti forse ancor meno percettibili di quelli che, negli anni Sessanta e Settanta, avevano scosso l’Occidente. Gli Stati Uniti, grazie a una nuova leadership senz’altro più riconoscibile dai partner europei e maggiormente legata alla tradizione del legame euroatlantico, tirano le fila. Dall’altro, la Russia, che non è l’Unione sovietica e che non fa più leva su un blocco di Stati amici, se non con rarissime eccezioni, si dice pronta a riscrivere le regole del gioco.
Uno scenario fortemente polarizzato, che scinde e ha la capacità di descrivere le dinamiche del mondo secondo uno schema dicotomico. Niente di meno accettabile per il messaggio internazionale di papa Francesco. La riduzione della complessità in schieramenti opposti non è prevista da quella che il direttore de La Civiltà Cattolica, padre Antonio Spadaro, ha definito “geopolitica della misericordia”, che rigetta la logica dello scontro di civiltà e che, al contrario, ambisce alla riconciliazione della famiglia umana. E non vi è riconciliazione se l’assunto di partenza è la divisione tra “buoni” e “cattivi”.
Sul caso ucraino, Papa Francesco non ha esitato a recarsi personalmente dall’ambasciatore russo presso la Santa Sede all’indomani dell’inizio del conflitto. Inoltre, il pontefice non ha certo mantenuto un atteggiamento titubante quando ha bollato l’invasione russa come “guerra”, scartando immediatamente la perifrasi del Cremlino, “operazione militare speciale”. Allo stesso modo, nonostante il processo avviato ormai da anni con la Chiesa ortodossa del patriarca Kirill, Bergoglio non si è risparmiato, invitando quest’ultimo a non vestire i panni del “chierichetto” del potere.
Prese di posizione precise e nette. Che, comunque, non sono sfuggite alla logica della contrapposizione. Riportare le frasi di un capo di Stato circa la possibilità di uno scoppio di un conflitto in Ucraina, il famoso “abbaiare della Nato alle porte di Mosca”, è bastato a papa Francesco per ritrovarsi proiettato tra i presunti sostenitori di Putin.
Certo, Bergoglio, prima del 2020, ha incontrato a più riprese il Presidente russo. Soltanto Angela Merkel, ex Cancelliera tedesca, ha avuto più udienze durante il pontificato di Francesco. Ed è altrettanto vero che, nel 2016, il papa ha firmato una dichiarazione congiunta a Cuba con il patriarca Kirill, primo passo verso la tanto agognata comunione tra cattolici e ortodossi. Fatti che, però, non possono essere interpretati correttamente, se letti al di fuori della logica della geopolitica della misericordia di Francesco.
Nessuno è mai definitivamente perduto e nessuno, in un contesto di guerra, può leggere gli eventi come leggerebbe la favola di “Cappuccetto rosso” – come ha detto lo stesso Francesco durante la conversazione con i direttori delle riviste gesuite – con un cattivo e un buono preconfezionati.
Una posizione complicata, quella di Bergoglio, che dischiude almeno due conseguenze: una in negativo e un’altra in positivo, in una sorta di dialettica tra le baconiane pars destruens e pars costruens. La prima, innanzitutto, è quella della necessità per la Chiesa, se vuol davvero essere universale, di non prendere parte. Incensare i vessilli del potere o fare da porto sicuro per i governi del mondo non è compito della fede.
In questo senso, si è visto a più riprese come l’uso improprio dei simboli religiosi da parte di leader internazionali abbia ricevuto accoglienza quanto mai gelida dalle parti di San Pietro. Ed è proprio questa repulsione della commistione tra fede e potere che, da tempo, approfondisce la crepa che si è creata nell’oceano Atlantico e che separa Washington dal Vaticano. La cifra religiosa della società statunitense è ben evidente e descrive alla perfezione l’ethos di una nazione che si percepisce portatrice di una missione universale e custode di valori fondamentali. I quali, secondo i cattolici più conservatori, non trovano la giusta attenzione da parte di Francesco, preoccupato perlopiù dalle sfide della povertà e dell’emarginazione sociale.
Quindi, in secondo luogo, la proposta. L’obiettivo della geopolitica di Bergoglio non è il neutralismo. L’immobilismo, per un Papa che condanna il balconear, termine lunfardo riutilizzato spesso per indicare la contemplazione distaccata e passiva della vita, non è accettabile.
Per questo, non prendere parte non significa rimanere terzi, ma immergervisi senza mescolarsi, mantenendo un profilo alto e di riferimento per entrambe le parti in causa. Ciò, da un lato, consente di offrire una piattaforma di dialogo per la risoluzione dei conflitti in cui i contendenti trovano uno spazio privo di pregiudizi o posizioni precostituite. Dall’altro, invece, permette allo stesso Francesco di potersi esprimere liberamente, senza preoccuparsi delle proprie parole e, per questo, dar loro un valore ancor più importante.
In quest’ottica, dunque, vanno interpretate le uscite di Bergoglio sul conflitto in Ucraina. Da una parte e dall’altra, il pontefice non ha rinunciato a esprimersi con franchezza, denunciando gli orrori della guerra indipendentemente dalla mano che li ha commessi. Più di ogni altro, con questo approccio, Francesco ha puntato sulla riconciliazione e sul dialogo come unica, possibile strada per il raggiungimento della pace.
Quest’ultima, del resto, non può essere costruita con l’emarginazione o la sopraffazione di qualcuno. Attori rilevanti in ambito internazionale come la Russia, ma come anche la Cina e l’Iran, non possono rimanere esclusi dall’edificazione della pace. Lo stesso Bergoglio, nell’esortazione apostolica Evangelii Gaudium, ha scritto che “quando la società – locale, nazionale o mondiale – abbandona nella periferia una parte di sé, non vi saranno programmi politici, né forze dell’ordine o di intelligence che possano assicurare illimitatamente la tranquillità”.
L’unica strada percorribile, per Francesco, è allora quella offerta dalla misericordia, ovvero impegnarsi fino allo stremo per il dialogo e il reciproco riconoscimento, con la convinzione che il giudizio sui “buoni” e quello sui “cattivi” sia demandato alla vita ultraterrena, dove sarà Dio a decidere. Oggi, in terra, il Papa può solo far questo: operare perché sia intrapreso il cammino della pace per tutti.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di settembre/ottobre di eastwest.