L’alternativa democratica, e più ambiziosa, alla Belt and Road Initiative coinvolgerebbe Stati Uniti, i restanti membri del G7 e altri partner affini
Joe Biden ha il pallino per le infrastrutture: ha dedicato loro un piano da 2000 miliardi di dollari e pensa che renderanno gli Stati Unitipiù competitivi, permettendogli di vincere la corsa con la Cina. La sfida a Pechino ha però una portata internazionale. E dunque, per poter raggiungere il loro scopo, le infrastrutture americane dovranno per forza farsi globali.
Anche perché, quelle cinesi, globali lo sono già. Il Paese ha un progetto, la Belt and Road Initiative (BRI), che consiste nel costruire strade, porti e reti di telecomunicazione all’estero per ampliare la sua influenza nel mondo.
L’idea di rispondere alla BRI per arginare la Cina è nella mente dell’America da anni, in realtà. Nel 2018 era stato approvato il BUILD Act per agevolare gli investimenti privati nelle nazioni emergenti; nel 2019 era invece stato lanciato (con Australia e Giappone) il Blue Dot Network, rivolto all’Indo-Pacifico. A fine 2020 Washington aveva svelato un piano di collaborazione con Taiwan per il finanziamento di opere tra l’Asia e l’America latina. Non sono mancate le proposte, insomma, ma la loro realizzazione concreta.
Cos’è il Build Back Better World
A marzo Biden aveva telefonato al Primo Ministro britannico Boris Johnson per parlargli di “un’iniziativa simile” alla BRI, ma a trazione democratica. Di questa ennesima (ma più ambiziosa, sembrerebbe) proposta a stelle e strisce abbiamo saputo di più durante l’ultimo vertice del G7, in Cornovaglia, conclusosi domenica.
Si chiama Build Back Better World (B3W), innanzitutto – un richiamo esplicito al programma di ripresa economica elaborato dal Presidente in patria –, e punta a offrire un’alternativa allo schema di connettività cinese. Vi prenderanno parte gli Stati Uniti, i restanti membri del G7 “e altri partner affini”, a cominciare probabilmente da quelli invitati al summit della settimana scorsa: Australia, Corea del Sud, India, Sudafrica.
Il B3W avrà un respiro globale, si rivolgerà ai Paesi in via di sviluppo (per soddisfare il loro fabbisogno infrastrutturale da 40mila miliardi al 2035) e si concentrerà su quattro aree: il clima, la salute, il digitale e l’equità di genere. Nel comunicato pubblicato dalla Casa Bianca si legge che si insisterà sulla mobilitazione del settore privato, al contrario della BRI che si fonda sui finanziamenti pubblici.
Sembra dunque che il B3W non sarà una copia esatta dell’iniziativa cinese, probabilmente impossibile da replicare nelle dimensioni: alla BRI si sono infatti legati un centinaio di Paesi, per 2600 progetti (benché un 20 per cento di questi sia stato danneggiato seriamente dalla pandemia) e investimenti complessivi per 3700 miliardi di dollari.
È troppo presto per dire se il B3W avrà successo, non essendo ancora chiarissimo nemmeno che cosa sarà davvero. “Infrastrutture” è un termine molto ampio che può riferirsi a tante cose diverse per forma e valore strategico, dalle autostrade ai porti ai sistemi cloud ai cavi sottomarini di Internet. Sappiamo soltanto che quelle realizzate nel quadro della partnership bideniana saranno “sostenibili” dal punto di vista ambientale, finanziario e di governance: un evidente riferimento alle accuse di “trappola del debito” rivolte ai progetti della BRI.
Cosa pensano gli alleati americani
Il B3W risponde all’obiettivo di Washington di contenere l’espansione di Pechino attraverso la collaborazione degli alleati. Non c’è però, in questi ultimi, troppa voglia di contrapporsi esplicitamente alla Cina. Per il Regno Unito allinearsi all’America non è un problema, e il Canada ha accolto bene la nascita di un concerto delle democrazie per rispondere alle azioni cinesi. Ma i Paesi dell’Asia e del Pacifico, complice la geografia e l’interesse economico, resistono generalmente a schierarsi, anche se riconoscono il problema dell’ascesa cinese. Mentre l’Europa – come ha scritto Giampiero Massolo su Repubblica – tende a non considerare la Cina una minaccia esistenziale, come fanno gli Stati Uniti.
Secondo un funzionario americano sentito da Bloomberg, l’Italia di Mario Draghi e la Germania di Angela Merkel preferiscono mettere l’accento sulla cooperazione del G7 con la Cina – sul clima e sul commercio, ad esempio –, piuttosto che sulla contrapposizione. La Francia di Emmanuel Macron sarebbe invece dalla parte di Londra e Ottawa, cioè favorevole alla definizione di iniziative di contenimento esplicito: è strano, visto l’impegno di Parigi per la ricerca di una “autonomia strategica” europea. Il funzionario ha comunque minimizzato queste differenze, dicendo che nel gruppo tutti condividono gli stessi princìpi e valori.
A proposito di valori, sul Financial Times Gideon Rachman ha scritto che il G7 è prodigo di retorica e di ideali, e meno disposto però a spendere. La Cina ha destinato grosse somme alla BRI, mentre sulle cifre il B3W rimane sul vago. Un funzionario europeo aveva rivelato, sempre a Bloomberg, l’esitazione di Berlino a mettere i soldi nel piatto.
L’alternativa democratica, e più ambiziosa, alla Belt and Road Initiative coinvolgerebbe Stati Uniti, i restanti membri del G7 e altri partner affini
Joe Biden ha il pallino per le infrastrutture: ha dedicato loro un piano da 2000 miliardi di dollari e pensa che renderanno gli Stati Unitipiù competitivi, permettendogli di vincere la corsa con la Cina. La sfida a Pechino ha però una portata internazionale. E dunque, per poter raggiungere il loro scopo, le infrastrutture americane dovranno per forza farsi globali.
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