Il cambiamento climatico sconvolge i popoli indigeni dell’Artico, dove le temperature aumentano più che altrove: la regione sarà irriconoscibile tra soli 30 anni
Il cambiamento climatico sconvolge i popoli indigeni dell’Artico, dove le temperature aumentano più che altrove: la regione sarà irriconoscibile tra soli 30 anni
L’inizio di questo decennio sarà ricordato per molte ragioni, prima fra tutte la pandemia che ha messo a dura prova i sistemi sanitari ed economici di interi Paesi. Ma una serie di record sono stati infranti anche nel contesto dell’altra grande emergenza globale: il cambiamento climatico.
Il luogo in cui le tragiche conseguenze del surriscaldamento del pianeta si stanno manifestando in modo più evidente è l’Artico. Qui le temperature stanno aumentando più rapidamente che altrove, il ghiaccio si scioglie velocemente mentre gli incendi nella tundra dilagano. I primi a pagare per questo dramma ambientale sono i popoli indigeni, che già vedono mutare in modo irrimediabile il proprio stile di vita.
Il record delle temperature
Ma veniamo prima di tutto ai record. Nel maggio del 2020 la quantità di diossido di carbonio (CO2) presente nell’aria, la principale causa dei cambiamenti climatici, ha raggiunto una media di poco superiore a 417 parti per milione (ppm). Si tratta del valore mensile più alto mai registrato, e il dato è in continua crescita nonostante gli sforzi per rimanere sotto la soglia di sicurezza di 350 parti per milione.
Secondo il Gruppo Intergovernativo sul Cambiamento Climatico (Intergovernmental Panel on Climate Change, IPCC), il foro scientifico che informa le Nazioni Unite, le attività umane hanno già causato un aumento delle temperature medie di 1 grado Celsius rispetto al periodo che ha preceduto l’industrializzazione.
Nell’Artico, tuttavia, le temperature stanno aumentando a una velocità almeno due volte superiore alla media globale. Il 2020 è stato il secondo anno più caldo registrato nella regione dal 1900, dice un rapporto della National Oceanic and Atmospheric Administration (NOAA) statunitense. Le temperature superficiali medie del mare in agosto erano da 1 a 3 gradi centigradi più alte della media registrata nello stesso mese tra il 1982 e il 2010. Lo scioglimento dei ghiacci in estate è iniziato prima del solito e ha toccato minimi storici, mentre la formazione dei ghiacci in autunno è cominciata più tardi del previsto.
Dal ghiaccio alla neve alle attività umane, quasi tutto nell’Artico sta cambiando a una tale velocità che la regione potrebbe essere irriconoscibile fra trent’anni, dicono gli autori dello studio.
Le comunità etniche
Spesso si pensa all’Artico come un ambiente di mari gelati e distese di ghiaccio in cui la vita umana è pressoché impossibile. Ma al circolo polare vivono 4 milioni di persone, di cui 400.000 appartenenti a popolazioni indigene di 40 diversi gruppi etnici. Per loro, il cambiamento climatico rappresenta una radicale trasformazione di cultura, economia e società, e una vera minaccia alla sopravvivenza.
A queste popolazioni e alla loro storia, il British Museum di Londra ha dedicato una mostra, aperta il 22 ottobre 2020 e prevista fino al 21 febbraio 2021, ma disponibile solo online quando questo articolo viene scritto, a causa delle misure di controllo del coronavirus. https://www.britishmuseum.org/exhibitions/arctic-culture-and-climate
L’esposizione rivela come queste comunità abbiano potuto vivere nella regione per 30.000 anni, nonostante le condizioni impervie, grazie a una profonda conoscenza dell’ambiente naturale che le circonda e a una forte capacità di adattamento.
Ora però il costo causato dalle disfunzioni del sistema economico globale a una comunità relativamente piccola rischia di essere troppo alto. Gli scienziati prevedono che tra 80 anni l’Artico sia senza ghiacci, una trasformazione che sconvolgerà le comunità della regione e l’intero pianeta.
Cacciatori, pescatori e allevatori di renne: per le popolazioni indigene dell’Artico il rapporto con l’ambiente naturale è di interdipendenza e riguardo, la mostra rivela. Gli animali sono considerati esseri consapevoli che si concedono solo ai cacciatori che li rispettano. Allevatori e cacciatori pensano che se gli animali saranno trattati con dignità, le loro anime continueranno a rinascere e garantire sussistenza. Le loro pelli diventano abiti che proteggono e aiutano a sopravvivere nel freddo estremo.
Quanto al clima rigido, non è vissuto come un ostacolo ma come uno strumento di orientamento: il vento consente di prevedere quando viaggiare o cacciare, lo spessore del ghiaccio offre possibilità di trasporto. Ma con condizioni meteorologiche imprevedibili, viaggiare e cacciare diventano attività sempre più pericolose.
In un evento collegato alla mostra, Sheila Watt-Cloutier, pluripremiata attivista canadese rappresentante degli Inuit, uno dei popoli indigeni dell’Artico, ha sottolineato che il cambiamento climatico è una questione di diritti umani. “Non si tratta solo di una questione di orsi polari e ghiaccio”, Watt-Cloutier ha detto. “Si tratta dei nostri figli, di come cerchiamo di prepararli mantenendo il nostro modo speciale di insegnare le opportunità e le difficoltà della vita”.
Il diritto al freddo
Nel libro The right to be cold (Il diritto al freddo), Sheila Watt-Cloutier descrive l’impatto della trasformazione del clima sugli Inuit. L’erosione costiera e lo scioglimento del terreno perennemente ghiacciato – il permafrost – obbligano a spostare le abitazioni su suoli più stabili. L’arrivo di nuove specie, come gli insetti, viene recepita come un’invasione di entità estranee “di cui non si conoscono i nomi”. L’imprevedibilità delle condizioni climatiche diventa un ostacolo alla trasmissione delle conoscenze per “leggere le nuvole, il meteo e il ghiaccio” alle nuove generazioni.
C’è un valore culturale, emotivo e spirituale nello stile di vita delle popolazioni indigene dell’Artico, spiega Watt-Cloutier. La caccia serve alla formazione delle competenze e del carattere dei giovani, ad esempio. Quando si caccia si impara a valutare la situazione del momento, nell’attesa degli animali e del passaggio dei venti si impara la pazienza, nel far fronte alla pressione si impara ad essere coraggiosi e audaci, a misurare il rischio senza essere impulsivi, dice.
Eppure la mancanza di speranza per il futuro sta rendendo le comunità indigene dell’Artico particolarmente fragili. Tra queste popolazioni si registra il più alto tasso di suicidi del Nord America. Il dato, secondo Watt-Cloutier, è dovuto a “traumi storici” derivanti dall’“approccio coloniale con cui sono state avvicinate queste comunità”, ma anche ai rapidi cambiamenti causati dal riscaldamento globale e alla perdita di un “insegnamento olistico” per i bambini che passano alla scuola istituzionale.
La situazione è simile in Europa. Uno studio svolto in Svezia ha rivelato che circa la metà degli adulti Sami, comunità indigena di circa 80.000 persone nel nord della Scandinavia, soffre di depressione o problemi di salute mentale. Coloro che hanno pensato al suicidio sono il doppio in proporzione rispetto alla popolazione svedese.
Nell’area abitata dai Sami in Finlandia, la temperatura media è aumentata di 2,3 gradi centigradi dal periodo pre-industriale, ricorda il WWF.
L’impatto di questi cambiamenti è anche culturale. Nella lingua di questa popolazione almeno 360 parole indicano la neve. La parola ‘guohtun’, per esempio, descrive sia la neve che le condizioni nutrizionali per le renne, dice al WWF Klemetti Näkkäläjärvi, antropologo presso l’Università della Lapponia. Ma ora le condizioni di ‘guohtun’ non sono più prevedibili: la neve arriva più tardi, la quantità e la struttura variano e alcuni pastori hanno iniziato a dare cibo aggiuntivo alle renne perché possano sopravvivere. Più i mezzi di sussistenza cambiano, più la lingua Sami rischia di scomparire, spiega Näkkäläjärvi.
In una serie di testimonianze raccolte dal Consiglio Artico (Arctic Council), le comunità di pescatori Athabaskan dell’Alaska lamentano lo spostamento degli stock ittici e una crescente presenza in mare di plastica e rifiuti tossici provenienti da altre aree del pianeta.
Gli Aleuti, anch’essi dipendenti da caccia e pesca, hanno i loro insediamenti sulla rotta delle navi che potranno fare la mitica traversata tra l’Atlantico e il Pacifico tramite il passaggio a nord-ovest, per secoli inaccessibile a causa dei ghiacci ma presto navigabile grazie al loro scioglimento. Qui il villaggio di Adak, che conta appena 330 abitanti, potrebbe diventare un hub internazionale del trasporto marittimo. Il cambiamento climatico è “un altro assalto a una situazione molto vulnerabile”, dice Sheila Watt-Cloutier.
Le comunità indigene della regione, ricorda, sono in passato state coinvolte nel commercio delle pellicce, per poi essere abbandonate a se stesse quando il mercato è crollato. Gli Inuit hanno subito la rilocalizzazione forzata nelle aree dell’estremo nord decisa negli anni Cinquanta dal Governo canadese. Negli anni Ottanta sono state trovate nel fragile ecosistema dell’Artico sostanze tossiche usate in pesticidi e insetticidi prodotti e usati in altre parti del mondo, un’emergenza che nel 2001 ha portato all’adozione della Convenzione di Stoccolma sull’eliminazione degli inquinanti organici persistenti. Ora i cambiamenti climatici rappresentano un’altra enorme, forse fatale, minaccia. “Questi sono problemi enormi da affrontare per un piccolo numero di persone e in un breve lasso di tempo,” ha detto l’attivista.
Il ruolo del Circolo Artico
Dal 1996 il Consiglio Artico promuove la cooperazione dei Paesi affacciati sul Circolo polare (Russia, Stati Uniti, Canada, Danimarca, Norvegia, Svezia, Finlandia e Islanda) coinvolgendo le comunità indigene e altri abitanti della regione. Il Consiglio Artico tratta in particolare di questioni ambientali e sviluppo sostenibile. Ma gli interessi geopolitici nella regione vanno ben al di là di quelli delle popolazioni indigene.
Anche l’Europa cerca un ruolo in quest’area del pianeta e la Commissione europea aggiornerà nel 2021 la propria strategia per l’Artico. La proposta si concentrerà sulla lotta al cambiamento climatico, la protezione dell’ambiente e lo sviluppo sostenibile seguendo la traccia di una comunicazione del 2016. Ma in quell’occasione, nelle nove pagine dedicate allo sviluppo sostenibile, sono state delineate azioni su innovazione, investimenti, attività marittime e cooperazione internazionale, con appena due paragrafi riservati alle popolazioni indigene.
Eppure da questi popoli bisognerebbe imparare, dice Sheila Watt-Cloutier. Cosi come il pianeta, le comunità dell’Artico hanno subito traumi profondi che hanno portato a “comportamenti erratici”, come autolesionismo, violenza o dipendenza da sostanze.
Allo stesso modo la Terra è stata “traumatizzata” da uno sviluppo insostenibile che causa inquinamento e alterazioni climatiche all’origine di altri “comportamenti erratici”, come uragani, siccità e incendi. “Si tratta di reazioni perfettamente normali a situazioni anomale”, ha detto Watt-Cloutier. “Noi siamo la Terra e la Terra siamo noi. Se riusciremo a trattarla con rispetto e cortesia, potremo cambiare il corso degli eventi che si stanno verificando con il cambiamento climatico”, è il suo appello.
Le popolazioni dell’Artico hanno sotto tale aspetto “molto da offrire”, dice l’attivista. “La saggezza indigena è la medicina che il mondo sta cercando”, ha concluso.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di gennaio/febbraio di eastwest.
Il cambiamento climatico sconvolge i popoli indigeni dell’Artico, dove le temperature aumentano più che altrove: la regione sarà irriconoscibile tra soli 30 anni
L’inizio di questo decennio sarà ricordato per molte ragioni, prima fra tutte la pandemia che ha messo a dura prova i sistemi sanitari ed economici di interi Paesi. Ma una serie di record sono stati infranti anche nel contesto dell’altra grande emergenza globale: il cambiamento climatico.
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