Taipei e Seul sembrano meno convinte del Giappone a seguire le restrizioni anticinesi volute da Washington. “Taiwan è Taiwan, non fa parte degli Stati Uniti”, ha detto il fondatore e capo della Powerchip in un’intervista. “Vogliamo mantenere la nostra democrazia, ma non siamo nemici della Cina e vogliamo continuare a farci affari”
“Alcune restrizioni sui semiconduttori imposte dagli Stati Uniti sono inaccettabili”. Oppure: “I divieti americani sono un favore per i produttori di chip cinesi e uno svantaggio per noi”. E ancora: “Sappiamo dall’inizio che le manovre degli Stati Uniti sui semiconduttori non sono giuste o buone per noi. Ma è difficile riuscire a dirlo esplicitamente”. Negli ultimi giorni è diventato esplicito qualcosa che era rimasto implicito per lungo tempo, anche se ben noto a chi ha contatti col settore: ai colossi taiwanesi dei microchip non piacciono per niente le iniziative della Casa Bianca sui semiconduttori.
Le tre dichiarazioni riportate all’inizio sono state rese tutte nel corso dell’ultima settimana, nell’ordine da: Mark Liu, amministratore delegato della Taiwan Semiconductor Manufacturing Company (TSMC), Tsai Ming-kai (presidente di Mediatek) e infine Frank Huang, fondatore e capo di Powerchip (PSMC). Tutti e tre hanno parlato proprio mentre la presidente taiwanese Tsai Ing-wen si trova in viaggio in America centrale, con un doppio scalo negli Stati Uniti tra New York e la California.
La presa di posizione potenzialmente più rilevante è quella di Liu, visto che TSMC pesa da sola oltre il 50% dello share globale del comparto di fabbricazione e assemblaggio. Non solo, il colosso di Hsinchu sta anche costruendo due stabilimenti in Arizona. Secondo quanto detto dal braccio destro del fondatore Morris Chang durante l’assemblea dei membri della Taiwan Semiconductor Industry Association, alcune restrizioni e regolamenti supplementari previsti dal CHIPS and Science Act degli Stati Uniti sono “inaccettabili” e potrebbero dissuadere potenziali partner dal richiedere la sovvenzione. Per ricevere i fondi del CHIPS Act, le aziende produttrici di chip devono accettare di non espandere la capacità produttiva in “paesi stranieri di interesse”: in primis la Repubblica Popolare Cinese. Ciò significa che per un decennio le aziende coinvolte nel programma non possono impegnarsi in attività di ricerca congiunte o di licenza che coinvolgano tecnologie sensibili. Non un grande favore ad aziende taiwanesi e sudcoreane, da tempo attive in Cina continentale. Proprio per questo, Taipei e Seul sembrano meno convinte del Giappone a seguire le restrizioni anticinesi volute da Washington. Liu ha spiegato che dovranno essere condotti ulteriori negoziati con gli Stati Uniti affinché le attività delle aziende taiwanesi come TSMC non subiscano ripercussioni negative.
Ancora più negativo Tsai di Mediatek, altro colosso taiwanese del comparto. “I controlli sulle esportazioni degli Stati Uniti contro il settore dei chip avanzati della Cina nell’ottobre dello scorso anno hanno spinto i fondi del governo cinese a confluire nel settore della tecnologia dei chip maturi, e crediamo che le piccole e medie aziende di progettazione di chip di Taiwan saranno probabilmente le prime ad essere colpite”, ha dichiarato Tsai allo stesso evento in cui ha parlato Liu. “In questo momento, l’industria taiwanese della progettazione di circuiti integrati si trova ad affrontare preoccupazioni nascoste, come la rapida ascesa degli operatori cinesi, la grave carenza di talenti nazionali e i pochi operatori che investono in tecnologie/prodotti avanzati, ed è urgente intraprendere azioni attive per consolidare l’attuale vantaggio competitivo e la posizione di mercato”, ha aggiunto Tsai.
Del mancato gradimento per le politiche statunitensi ha parlato anche Huang di Powerchip. “Il rapporto con gli Usa è vitale, ma la Cina è il nostro mercato principale. Spediamo più chip lì che in qualsiasi altro posto. Gli Usa vogliono disperatamente controllare l’industria e la nostra tecnologia. Ma Taiwan è Taiwan, non fa parte degli Stati Uniti”, ha detto Huang in un’intervista a La Stampa. Vogliamo mantenere la nostra democrazia, ma non siamo nemici della Cina e vogliamo continuare a farci affari”.
Gli scricchiolii nell’alleanza sui chip a guida americana sono molto significativi, anche perché arrivano dallo snodo cruciale per la fabbricazione e assemblaggio. Le aziende taiwanesi controllano oltre il 65% dello share globale del comparto di fabbricazione e assemblaggio dei semiconduttori. Il dominio è ancora più esteso dal punto di vista qualitativo: i produttori taiwanesi detengono il 92% della manifattura di chip sotto i dieci nanometri. Praticamente la totalità di questi se si aggiungono quelli sudcoreani. Anche gli operatori di Seul, tra cui Samsung e SK, non sono per niente entusiasti delle restrizioni statunitensi, anche perché non si accompagnano a un sostegno concreto nei loro confronti. Anzi, la sensazione diffusa anche se per ora rimane più sottotraccia, è che dalle parti di Washington si punti a entrare in possesso di informazioni sensibili su linee produttive e clienti, perseguendo un’autosufficienza tecnologica che nel settore dei chip rischia di essere, Morris Chang docet, un “esercizio futile”. Ma compiendolo, si rischia intanto di far traballare la globalizzazione e scalfire il cosiddetto “scudo di silicio” di Taiwan.