L’accordo giunge inatteso, viste le forti tensioni. Per la prima volta Pechino si impegna a ridurre i suoi livelli di metano. Da un punto di vista politico, la collaborazione soddisfa gli interessi di entrambi i Paesi
Mercoledì gli Stati Uniti e la Cina hanno annunciato un accordo di collaborazione contro il riscaldamento globale. La dichiarazione è stata presentata dall’inviato per il clima americano John Kerry e dal suo omologo cinese Xie Zhenhua durante la Cop26, la conferenza sul clima di Glasgow, e descritta dai media – dal New York Times al Washington Post alla BBC – come inattesa.
In effetti l’accordo è arrivato un po’ a sorpresa: le speranze erano peraltro basse, vista la profonda rivalità tra Washington e Pechino e le forti tensioni nei rapporti. Ma non è certo nato dal nulla. Al contrario, è il prodotto di un intenso e difficile lavoro diplomatico avviato mesi fa: Kerry è stato più volte in Cina per incontrare Xie e trovare insieme il modo di navigare tra gli opposti nazionalismi e l’ostilità generale per promuovere la cooperazione contro i gas serra.
Il clima come dossier a sé
Separare il singolo dossier da tutto il resto non è stato facile e continuerà a non esserlo, benché Kerry abbia detto più volte di considerarlo una cosa a sé stante: significa che la competizione geopolitica non deve impedire la collaborazione climatica, ma anche che l’assistenza sulle emissioni non comporterà concessioni su altri temi (dai diritti umani alla proiezione di potenza in Asia).
Durante la presentazione della dichiarazione alla Cop26 Kerry ha ribadito questa linea: “Siamo onesti sulle differenze. Sappiamo certamente quali sono e le abbiamo esposte”. Ma la sfida sul primato globale “non è il mio campo”, ha aggiunto, “il mio lavoro è quello di essere il tizio del clima e rimanere focalizzato sul tentativo di portare avanti l’agenda del clima”. Il clima, insomma, è a parte; il quadro generale non cambia e non ci saranno ammorbidimenti. E infatti, al vertice APEC, il Presidente cinese Xi Jinping ha detto che le tensioni in Asia-Pacifico possono sfociare in una mentalità da Guerra fredda.
Il contenuto
L’accordo di mercoledì è importante non solo per il contesto ma anche per il contenuto. Benché non contenga nuovi e radicali impegni, mette comunque insieme i due maggiori emettitori di gas serra al mondo: insieme valgono il 40% circa del totale e il loro contributo è dunque cruciale per il contenimento del riscaldamento globale. Pechino non ha modificato i tempi massimi di arrivo alla neutralità carbonica (il 2060) né quelli per il raggiungimento del picco delle emissioni (prima del 2030), ma per la prima volta si è impegnata a ridurre i suoi livelli di metano, un potente gas a effetto serra (non è chiaro di quanto, però).
Il valore politico, per gli Stati Uniti e per la Cina
Da un punto di vista politico, l’accordo soddisfa gli interessi sia degli Stati Uniti che della Cina. I primi, da quando Joe Biden ha assunto la presidenza, ambivano a recuperare la leadership internazionale nell’azione climatica: quello di mercoledì non è un nuovo accordo di Parigi e non è paragonabile nemmeno al patto bilaterale del 2014, ma è lo stesso un successo. La seconda doveva rispondere con un patto ambizioso – “ambizione” è stata la parola d’ordine della dichiarazione congiunta – all’assenza di Xi alla Cop26 e alle accuse di essere disinteressata alla crisi climatica, o addirittura di esserne la grande responsabile con le sue centrali a carbone.
Sì al clima, no all’energia
Nella dichiarazione di Glasgow si legge che Stati Uniti e Cina hanno intenzione di collaborare per la definizione di “politiche a sostegno dell’integrazione effettiva di alte quote di energia rinnovabile intermittente e a basso costo” nei mix energetici e per “l’integrazione di solare, stoccaggio e altre soluzioni energetiche pulite in prossimità dei consumatori di elettricità”.
Sono punti particolarmente difficili da realizzare. Finora Washington ha voluto sottolineare come la questione climatica sia separata da tutte le altre: vale anche per la questione energetica, che ha un grande valore strategico. La capacità di sviluppare e produrre tecnologie per le energie pulite (come pannelli solari, turbine eoliche, batterie) dall’alta efficienza e dal basso costo garantirà infatti sia un vantaggio economico-industriale in patria che guadagni commerciali all’estero, specialmente in un contesto internazionale di transizione ecologica.
Su tutti i dispositivi prima elencati, attualmente la Cina possiede un netto vantaggio manifatturiero; per recuperare terreno e sorpassare la rivale, gli Stati Uniti si sono dati obiettivi molto ambiziosi di riduzione del prezzo delle batterie e dell’energia solare. L’amministrazione Biden non ha rimosso le tariffe sui pannelli fotovoltaici di importazione e a giugno ha anche imposto delle restrizioni all’acquisto di componentistica solare da diverse aziende cinesi.
In effetti l’accordo è arrivato un po’ a sorpresa: le speranze erano peraltro basse, vista la profonda rivalità tra Washington e Pechino e le forti tensioni nei rapporti. Ma non è certo nato dal nulla. Al contrario, è il prodotto di un intenso e difficile lavoro diplomatico avviato mesi fa: Kerry è stato più volte in Cina per incontrare Xie e trovare insieme il modo di navigare tra gli opposti nazionalismi e l’ostilità generale per promuovere la cooperazione contro i gas serra.