Ogni volta che India e Cina sono arrivate alle armi lungo il confine condiviso hanno provocato riverberi nel vicinato himalayano: Nepal e Bhutan
La statua del Buddha Dordenma domina la città di Thimphu, Bhutan, 16 aprile 2016. REUTERS Cathal McNaughton
Nuove mappe, confini mobili e alchimie diplomatiche ad alta quota. C’è questo e molto altro dietro alle schermaglie che scuotono il confine sino-indiano da sette anni a questa parte. Ogni qualvolta India e Cina sono arrivate alle armi (o alle mani) le turbolenze lungo la frontiera condivisa hanno provocato riverberi nel vicinato himalayano. Stiamo parlando di Nepal e Bhutan, gli Stati cuscinetto che delimitano a nord-est il subcontinente indiano, tenendo a distanza la Repubblica popolare cinese.
Animati da personali amori e dissapori nei confronti dei giganti regionali, i due staterelli da secoli influenzano la geometria variabile delle alleanze sul Tetto del Mondo. Con il ritorno delle ostilità lungo la linea di controllo effettivo − la zona contesa che delimita il territorio della Cina da quello dell’India – per Pechino e Nuova Delhi conquistare la fedeltà dei due piccoli Paesi è diventato un fattore di importanza cruciale per mantenere un vantaggio competitivo e difendere la propria sovranità dalle rivendicazioni della potenza rivale. Un’impresa resa più difficile dalle mosse di alcuni player esterni sullo scacchiere himalayano. Se un tempo erano gli invasori britannici a cambiare le carte in tavola − legittimando le pretese territoriali dell’uno o dell’altro a proprio piacimento − oggi sono gli Stati Uniti a ricoprire il ruolo di terzo incomodo.
Cosa è successo in passato
Per capirci qualcosa dobbiamo riavvolgere il nastro al giugno 2017, quando la costruzione di una strada cinese sull’altopiano di Doklam, incastonato tra Bhutan, Sikkim (India) e Tibet (Cina), innescò il primo confronto tra le truppe cinesi e indiane dalla guerra del 1962. Da secolo oggetto del contendere tra Pechino e Thimphu, l’area in questione non rientra tra i territori rivendicati da New Delhi. Ma possiede un valore geostrategico fondamentale. Chi controlla la vicina strettoia di Siliguri controlla l’unico passaggio stradale che collega l’India settentrionale all’appendice degli Stati del nordest: 27 km che per Nuova Delhi rappresentano l’unica via per spostare le truppe nell’eventualità di un conflitto con la Cina. Questo spiega perché davanti al pressing cinese il Governo indiano abbia optato per un intervento armato, come previsto dal trattato di amicizia che dal 1949 attribuisce a New Delhi responsabilità difensive (fino al 2007 anche diplomatiche) nei confronti del Regno himalayano. Di più. L’accordo stabilisce che “nessuno dei due Governi consentirà l’uso del proprio territorio per attività dannose per la sicurezza nazionale e gli interessi dell’altro”.
Si tratta di un’affermazione tutt’altro che scontata. Il Bhutan persegue ufficialmente una politica della “neutralità”, riconosce i cinque principi di coesistenza pacifica e intrattiene relazioni diplomatiche con appena 54 stati. Cina e Stati Uniti esclusi. Ma con Nuova Delhi è diverso. Per questa sua naturale introversione, Thimphu costituisce la pietra angolare della “Neighbourhood First Policy“, la strategia estera lanciata dal premier indiano Narendra Modi per contenere l’avanzata cinese nel cortile di casa. Per ora pare abbia funzionato alla grande. Tutt’oggi il Bhutan è tra i pochi paesi asiatici − insieme all’India − ad aver snobbato la famigerata Belt and Road (BRI), il mega progetto infrastrutturale con cui Pechino punta a estendere la propria influenza economica e politica a livello internazionale. Ma il posizionamento del Regno himalayano nell’orbita indiana ha un suo costo. Soprattutto alla luce delle tensioni che dalla scorsa estate interessano nuovamente la linea di controllo effettivo tra i due giganti asiatici.
Gli Stati cuscinetto
Nel mese di luglio, tra accuse incrociate e botte da orbi, Pechino non ha perso l’occasione di sfruttare la distrazione generale per reclamare come propria la zona protetta di Sakteng, un’area del Bhutan orientale mai rivendicata prima. Alcuni segnali lasciano intendere che al bastone seguirà la carota. Da anni, a margine dei colloqui sulla delimitazione dei confini, il governo cinese cerca di stabilire contatti ufficiali con Thimphu. Acrobati, giocatori di calcio e migliaia di turisti sono stati spediti nel paese per coltivare il soft power cinese. Pechino da parte sua apprezza la discrezione con cui il Bhutan − uno dei pochi Paesi buddhisti a non aver ancora ricevuto il Dalai Lama − gestisce la questione tibetana, limitando l’espansione della comunità in esilio nei propri territori. Al momento la bilancia pende ancora a favore di Nuova Delhi che, contando per il 75% dell’import e l’85% dell’export bhutanese, controlla tanto l’agenda estera di Thimphu quanto il portafoglio. Ma Pechino non demorde. D’altronde, c’è già un precedente.
Nel 2018, commentando la visita dell’allora vice Ministro degli Esteri Kong Xuanyou, il tabloid nazionalista cinese Global Times affermava che anche se “finora il Bhutan non è riuscito a sbarazzarsi completamente dell’influenza dell’India su politica, economia, diplomazia e sicurezza”, “la Cina spera possa almeno mantenersi indipendente come il Nepal “. Il vicino himalayano è il chiaro esempio di come con un mix di diplomazia, aiuti economici e minacce militari Pechino sia riuscito a conquistare un vecchio alleato di Nuova Delhi. Nel 2015, Kathmandu è entrato a far parte della BRI con la firma per la costruzione di una rete di trasporto trans-himalayana che gli ha dato l’accesso ai porti cinesi, rendendo superflui gli scali marittimi indiani. Ma la speranza di replicare la stessa strategia con Thimphu non tiene conto di un fattore fondamentale.
Secondo Christian Wagner del German Institute for International and Security Affairs, in Nepal il fascino dei capitali cinesi ha estremizzato un sentimento anti-indiano latente, che l’esperto attribuisce alla massiccia ingerenza di Delhi nella politica interna dagli anni ‘50 e durante tutta la guerra civile. Dalla fine della monarchia, la “carta cinese” è stata giocata a fasi alterne per diluire la dipendenza dall’India o per screditare la fazione politica rivale. Mentre durante gli ultimi scontri sino-indiani Kathmandu ridisegnava i confini nazionali con una nuova mappa, rosicchiando parte del territorio indiano (in risposta alla revoca dell’autonomia del Kashmir), l’opposizione politica nepalese accusava la Cina di aver cominciato a costruire oltre la propria frontiera.
L’attivismo americano sull’Himalaya
A complicare il quadro si aggiunge il rinnovato attivismo americano sul Tetto del Mondo. Nonostante “l’America First”, l’amministrazione Trump ha dato un’importanza senza precedenti al quadrante, inaugurando una nuova strategia dell’Indo-Pacifico che, come dice il nome, individua nel subcontinente il centro nevralgico del nuovo “pivot to Asia” in chiave anticinese. Per stessa ammissione dell’ex ambasciatore statunitense a New Delhi, negli ultimi mesi, Usa e India hanno agito “in stretta coordinazione” per rispondere “all’aggressione cinese lungo il confine”.
Washington non è nuovo agli intrighi himalayani. Pechino guarda con sospetto all’attivismo americano fin da quando negli anni ‘50 i servizi segreti a stelle e strisce supportarono la lotta armata del popolo tibetano contro l’occupazione cinese. Proprio di recente l’introduzione al Congresso di due nuove bozze di legge preannuncia un’ingerenza statunitense ancora maggiore nella gestione della questione tibetana, tanto in riferimento alla successione del Dalai Lama (esiliato in India) quanto alla diaspora tibetana in Nepal. Se la rivalità tra le due superpotenze dovesse trasformarsi in un’altra guerra fredda, “il Nepal potrebbe diventare il nuovo Afghanistan”, commenta ai microfoni del South China Morning Post Ashok Swain, ricercatore della Uppsala University.
E il Bhutan? La conclamata neutralità lo rende meno permeabile ai calcoli strategici di Washington. Come dicevamo, i due paesi non hanno relazioni ufficiali. Ma il ritorno di John Kerry – che nel 2015 è diventato il primo segretario di Stato a visitare Thimphu – potrebbe aprire la strada a nuove sinergie. Oltre alla gestione dei disastri e dei rifugiati di origini nepalesi, i settori in cui la collaborazione con Washington è più avanzata comprendono le politiche energetiche e la riforestazione. Con la nomina di Kerry a “Mr. Clima” non è escluso che l’amministrazione Biden riesca ad avviare una frequentazione più assidua con l’introverso Regno himalayano, da tempo in prima linea nella lotta alle emissioni. Un punto questo dove si intersecano i destini di Cina e India, tra i principali emettitori del mondo. Il “grande gioco himalayano” è soltanto all’inizio.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di marzo/aprile di eastwest.
Ogni volta che India e Cina sono arrivate alle armi lungo il confine condiviso hanno provocato riverberi nel vicinato himalayano: Nepal e Bhutan
Nuove mappe, confini mobili e alchimie diplomatiche ad alta quota. C’è questo e molto altro dietro alle schermaglie che scuotono il confine sino-indiano da sette anni a questa parte. Ogni qualvolta India e Cina sono arrivate alle armi (o alle mani) le turbolenze lungo la frontiera condivisa hanno provocato riverberi nel vicinato himalayano. Stiamo parlando di Nepal e Bhutan, gli Stati cuscinetto che delimitano a nord-est il subcontinente indiano, tenendo a distanza la Repubblica popolare cinese.
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