Il conflitto nel Tigray non è una semplice operazione di polizia in una regione ribelle, ma una vera e propria guerra dalle conseguenze devastanti per tutto il continente
Il conflitto nel Tigray non è una semplice operazione di polizia in una regione ribelle, ma una vera e propria guerra dalle conseguenze devastanti per tutto il continente
Il conflitto nel Tigray, la più ricca e storicamente influente regione dell’Etiopia, è iniziato lo scorso 4 novembre, quando il primo ministro etiope Abiy Ahmed ha ordinato un’offensiva militare contro le forze locali motivandola come risposta a due raid lanciati dai militari tigrini contro la base di Dansha e della capitale Macallè, che ospitavano truppe governative.
Fin dall’inizio delle operazioni belliche contro la regione più settentrionale dell’Etiopia, Abiy ha più volte affermato che si trattava solo di un’operazione di polizia contro un territorio ribelle, ma lo scontro tra le forze di difesa nazionale dell’Etiopia (ENDF) e le forze tigrine è a tutti gli effetti una guerra con spiegamento di mezzi blindati, aerei e decine di migliaia di soldati.
Un conflitto che ha provocato migliaia di vittime e la fuga di oltre 50mila tigrini verso il vicino Sudan, oltre a destabilizzare la seconda nazione più popolosa del continente, perno della stabilità del Corno d’Africa.
L’escalation è arrivata dopo mesi di faide tra il governo di Abiy e i leader del Fronte Popolare di Liberazione del Tigray (TPLF), il partito politico dominante nella regione dissidente, che per quasi tre decenni è stato al centro del potere. Tutto è cambiato dopo il 2 aprile 2018, quando Ahmed, di etnia oromo, è diventato primo ministro e ha avviato uno storico processo di riforme per la democratizzazione del suo Paese.
La volontà di Abiy di imporre un più ampio programma nazionalista sulle ristrette priorità etniche è stata osteggiata dal TPLF, che ha interpretato il piano del primo ministro come una riduzione del diritto all’autogoverno, inclusa l’autonomia, che è concessa dalla Costituzione etiope alle regioni organizzate etnicamente.
Questo approccio ha progressivamente emarginato i leader tigrini e il TPLF si è staccato dalla coalizione di governo, il Fronte democratico rivoluzionario popolare etiope (EPRDF), che ha guidato il paese dal 1991 fino al marzo 2018. Poi, i leader del TPLF hanno rifiutato di fondersi con gli altri tre partiti della vecchia coalizione nel Partito della prosperità (PP), controllato dal primo ministro e non strutturato su linee etniche come l’EPRDF.
Lo strappo di Macallè si è allargato all’inizio dello scorso settembre, quando il presidente del TPLF, Debretsion Gebremichael, in aperta sfida alla Costituzione e al governo federale, ha deciso di tenere lo stesso le elezioni. Come era facile prevedere, le urne hanno sancito l’affermazione del suo partito, che con il 98% dei voti si è aggiudicato tutti i seggi disponibili nel Parlamento regionale e si è rifiutato di riconoscere il governo federale definendolo illegittimo.
Gli effetti della schiacciante affermazione elettorale si sono riverberati sul già teso rapporto del TPLF con Addis Abeba, che ha immediatamente disconosciuto la validità delle elezioni amministrative e annunciato la sospensione di ogni relazione con lo stato regionale.
La crisi nel Tigray ha avvalorato l’opinione di alcuni analisti, che da tempo evocano lo scenario jugoslavo per l’Etiopia e hanno adattato al contesto etiope il termine “balcanizzazione”. Mentre l’uso della forza da parte del governo federale contro un partito di governo regionale, che intende tutelare i diritti di autogoverno garantiti dall’articolo 39 della Costituzione dell’Etiopia, potrebbe provocare frizioni politiche in altre regioni e destabilizzare ulteriormente il Paese.
Tuttavia, era evidente che dopo aver controllato per 28 anni il potere statale, il TPLF non fosse disposto ad accettare le riforme democratiche e lo slancio di liberalizzazione di Abiy che ha concentrato il suo operato intorno all’ideologia del medemer, secondo la quale l’Etiopia avrebbe dovuto preferire un modello amministrativo più unitario. Un modello in grado di superare le differenze interetniche e allontanarsi gradualmente dal nazionalismo etnico, su cui si fonda attualmente la gestione del potere in Etiopia.
Una dottrina che mina l’ordine che storicamente ha permesso alla minoritaria comunità tigrina di esercitare un potere sproporzionato rispetto alla sua popolazione. La conseguente erosione della leadership tigrina ha causato aspre tensioni politiche e le elezioni, che Ahmed ha definito illegali, avrebbero potuto rappresentare il primo passo verso la secessione.
A partire dallo scorso 9 novembre, più volte Abiy ha cercato di rassicurare la comunità internazionale con tweet e discorsi nei quali ha affermato che la nazione non sarebbe precipitata nel caos perché l’operazione militare era mirata a garantire la pace e la stabilità.
Un’operazione militare che in poco più di tre settimane sembrerebbe aver avuto ragione della resistenza delle milizie tigrine, dopo che lo scorso 28 novembre Abiy ha annunciato l’ingresso dell’esercito a Macallè.
Il primo ministro, in un intervento riportato sul sito dell’agenzia di stampa etiope (ENA), ha anche ringraziato la popolazione del Tigray per non aver supportato il TPLF, sottolineando che la gente ha fatto del suo meglio per sostenere i militari etiopi fino a quando non sono entrati a Macallé. Tuttavia è difficile stabilire se effettivamente la popolazione civile abbia voltato le spalle alla ribellione.
Di fatto, quella del Tigray è una guerra invisibile, con poche testimonianze indipendenti e immagini giornalistiche. Nessun cronista o diplomatico straniero ha potuto visitare la regione, mentre i collegamenti telefonici sono stati interrotti e internet è stato oscurato all’inizio delle ostilità, lasciando campo aperto alla propaganda di entrambi gli schieramenti.
Nel momento in cui scriviamo, ancora non si conosce il bilancio delle vittime dei combattimenti, ma è certo che la conquista da parte dell’esercito etiope della capitale del Tigray, abitata da mezzo milione di abitanti, è stata preceduta da intensi bombardamenti, confermati da operatori umanitari. Mentre le truppe etiopi sono state dispiegate lungo il confine della regione del Tigray con il Sudan per impedire alle persone in fuga dalle violenze di lasciare il Paese. Senza dubbio, l’annuncio della presa di Macallè da parte dell’esercito etiope costituisce un duro colpo per Gebremichael, che aveva sfidato Addis Abeba e fino all’escalation militare godeva del massiccio consenso della popolazione tigrina.
Ciononostante, il leader del TPLF non sembra manifestare alcuna volontà di resa, come dimostra l’intervista telefonica che ha rilasciato all’Associated Press, due giorni dopo che Abiy ha annunciato la conclusione delle operazioni militari nella regione del Tigray. Nell’intervista Gebremichael ha affermato che “i combattimenti continuano, le sue forze non hanno ripiegato e continueranno a lottare fino a quando gli invasori non saranno cacciati e la comunità tigrina avrà ottenuto l’autodeterminazione”.
Il conflitto nel nord dell’Etiopia sembra essere tutt’altro che finito e ci sono rapporti credibili di scontri in corso tra l’esercito etiope e le forze del Tigray in tutta la regione, emersi dopo che il rigido black-out delle comunicazioni, imposto dal governo federale, nei primi giorni di dicembre è stato parzialmente rimosso nella parte occidentale del Tigray e il 13 dicembre a Macallè.
Il totale oscuramento dell’informazione nelle prime tre settimane del conflitto ha lasciato poco margine a una corretta disamina degli avvenimenti, ma resta inoppugnabile che dopo l’annuncio della vittoria da parte del primo ministro etiope non sono circolate immagini di prigionieri, di armi confiscate ai nemici, tantomeno di folle acclamanti l’entrata delle truppe a Macallè.
Troppe domande restano senza risposta ed è prematuro pensare che la crisi sia conclusa perché appare improbabile che l’esercito federale sia capace di detronizzare rapidamente una leadership in grado di organizzare una strenua resistenza armata, come quella del TPLF.
La conquista di Macallè potrebbe determinare l’avvio di una nuova fase di scontri, che obbligherebbe l’ENDF ad affrontare non più una guerra aperta, ma la minaccia insidiosa della guerriglia sulle alte e tortuose montagne del Tigray.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di gennaio/febbraio di eastwest.
Il conflitto nel Tigray non è una semplice operazione di polizia in una regione ribelle, ma una vera e propria guerra dalle conseguenze devastanti per tutto il continente
Il conflitto nel Tigray, la più ricca e storicamente influente regione dell’Etiopia, è iniziato lo scorso 4 novembre, quando il primo ministro etiope Abiy Ahmed ha ordinato un’offensiva militare contro le forze locali motivandola come risposta a due raid lanciati dai militari tigrini contro la base di Dansha e della capitale Macallè, che ospitavano truppe governative.
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