Dopo le ultime esercitazioni militari cinesi, il presidente taiwanese Lai Ching-te propone un nuovo “consenso” con Pechino ma contemporaneamente Taipei rafforza le proprie difese e acquista mille droni killer dagli Stati Uniti.
Si chiama Roccaforte 26 ed è uno dei tanti “fortini” che compongono il panorama di Nangan, l’isola principale dell’arcipelago delle Matsu. Siamo a meno di 20 chilometri dalle coste del Fujian cinese, ma queste isole sono amministrate dal governo di Taiwan. È qui, insieme all’altro mini arcipelago di Kinmen, che si è combattuto durante le prime due crisi dello Stretto, negli anni Cinquanta. A lungo avamposti militari del regime nazionalista del Kuomintang di Chiang Kai-shek, oggi restano la manifestazione plastica della Repubblica di Cina, nome ufficiale con cui Taiwan è de facto autonoma. È proprio alla Roccaforte 26 di Nangan che ora Taipei invita Pechino a tenere dei nuovi colloqui. L’annuncio è arrivato a sorpresa, meno di 48 ore dopo la conclusione del nuovo round di esercitazioni militari cinesi intorno a Taiwan, che si sono svolte lunedì 14 ottobre. La proposta arriva dalla Straits Exchange Foundation (SEF), l’entità semi governativa di Taipei che si occupa degli scambi concreti con la Cina continentale. Quello con l’omologa di Pechino, Association for Relations Across the Taiwan Straits, è sostanzialmente l’unico canale di comunicazione aperto tra le due sponde, in assenza di dialogo politico tra i due governi. Sono proprio queste due entità che, più di 30 anni fa, siglarono il controverso “consenso del 1992” su mandato del Partito comunista cinese e Kuomintang, il partito che fu di Chiang Kai-shek oggi all’opposizione a Taipei. Non è mai stato chiarito del tutto il contenuto di quell’accordo, da molti interpretato come un artificio politico utile a mantenere lo status quo. Secondo la versione di Pechino, il “consenso del 1992” riconosce l’esistenza di una “unica Cina”, con l’inclusione di Taiwan. Secondo la versione del Kuomintang, riconosce sì l’esistenza di una “unica Cina”, ma con “diverse interpretazioni”, consentendo dunque la temporanea coabitazione tra Repubblica Popolare e Repubblica di Cina.
Il direttore della SEF, Luo Wen-jia, ha ora proposto un nuovo round di negoziati a oltre 30 anni di distanza. L’obiettivo di Luo sarebbe quello di raggiungere un “Two Six Consensus, dal nome della roccaforte. Su quali basi, rimane da capire. Luo ha suggerito che il nuovo consenso “sarebbe più lungimirante” di quello del 1992. La sensazione è che la proposta di Taipei segua la linea del presidente Lai Ching-te, secondo cui Repubblica Popolare e Repubblica di Cina sono “due entità
separate e non subordinate l’una all’altra”. Si tratterebbe sostanzialmente di una cristallizzazione della separazione attuale, fornendo però presumibilmente qualche garanzia sulla mancata dichiarazione di indipendenza formale come Repubblica di Taiwan, che opererebbe una cesura definitiva non solo politica ma anche culturale e persino storica.
Assai difficile immaginare che Pechino possa mai accettare, per ragioni contenutistiche e di opportunità politica. L’Ufficio cinese per gli Affari di Taiwan, attiguo al governo di Pechino, ha respinto l’idea. Il portavoce Chen Binhua ha ribadito che Taipei dovrebbe accettare il “consenso del 1992” e che dunque non c’è bisogno di negoziare un nuovo accordo. Inoltre, il Partito comunista sa che accettando le trattative darebbe al rivale Partito progressista democratico (DPP) un grande vantaggio sulla scena politica interna taiwanese. Sull’isola, l’unica forza politica fin qui in grado di mantenere il dialogo con la Cina continentale è sempre stato il Kuomintang. Dare spazio al DPP potrebbe dare un’arma retorica fondamentale a Lai, spesso criticato per la sua linea troppo chiusa al dialogo.
Mentre si prova a immaginare una qualche forma di dialogo, Taipei rafforza le proprie difese. Il giorno dopo le esercitazioni “Spada Congiunta 2024 B”, il ministero della Difesa taiwanese ha annunciato di aver firmato contratti per l’acquisto di quasi mille droni killer dagli Stati Uniti, con l’obiettivo di rafforzare le capacità di guerra asimmetrica. I contratti, del valore complessivo di 163,9 milioni di dollari, prevedono l’acquisto di due tipi di droni killer: 685 Switchblade 300 e 291 Altius 600M-V. La consegna dei droni Switchblade è prevista per la fine di novembre 2029, mentre quella dei droni Altius per la fine del 2027. I droni saranno dispiegati in luoghi strategici chiave, tra cui Taoyuan nel nord dell’isola, Taichung nel centro di Taiwan, Kaohsiung nel sud e Hualien nell’est. Il leggero Switchblade 300 ha una gittata di 30 chilometri e secondo il suo produttore statunitense si è dimostrato efficace nella guerra in Ucraina. Il più grande Altius 600M, con un raggio d’azione di 440 chilometri e un tempo di attesa di quattro ore, può essere lanciato da piattaforme terrestri, aeree e marine.
Nel frattempo, però, l’esercito cinese continua a erodere lo spazio di manovra di Pechino. L’ultimo round di manovre militari ha visto l’impiego di un numero record di jet nella regione intorno a Taiwan, 153 nel giro di 24 ore, e una nutrita flotta di navi della guardia costiera che ha circumnavigato l’isola. La portaerei Liaoning è stata schierata al largo della fronte orientale, l’unica da cui potrebbero arrivare aiuti dall’esterno in caso di conflitto. In tal modo, lo Stretto di Taiwan, che si affaccia sulla costa nord occidentale dell’isola, è stato trasformato in una sorta di “mare interno” cinese. Non è certo l’ultima puntata, già nel prossimo futuro sono ipotizzabili nuovi scossoni.
Si chiama Roccaforte 26 ed è uno dei tanti “fortini” che compongono il panorama di Nangan, l’isola principale dell’arcipelago delle Matsu. Siamo a meno di 20 chilometri dalle coste del Fujian cinese, ma queste isole sono amministrate dal governo di Taiwan. È qui, insieme all’altro mini arcipelago di Kinmen, che si è combattuto durante le prime due crisi dello Stretto, negli anni Cinquanta. A lungo avamposti militari del regime nazionalista del Kuomintang di Chiang Kai-shek, oggi restano la manifestazione plastica della Repubblica di Cina, nome ufficiale con cui Taiwan è de facto autonoma. È proprio alla Roccaforte 26 di Nangan che ora Taipei invita Pechino a tenere dei nuovi colloqui. L’annuncio è arrivato a sorpresa, meno di 48 ore dopo la conclusione del nuovo round di esercitazioni militari cinesi intorno a Taiwan, che si sono svolte lunedì 14 ottobre. La proposta arriva dalla Straits Exchange Foundation (SEF), l’entità semi governativa di Taipei che si occupa degli scambi concreti con la Cina continentale. Quello con l’omologa di Pechino, Association for Relations Across the Taiwan Straits, è sostanzialmente l’unico canale di comunicazione aperto tra le due sponde, in assenza di dialogo politico tra i due governi. Sono proprio queste due entità che, più di 30 anni fa, siglarono il controverso “consenso del 1992” su mandato del Partito comunista cinese e Kuomintang, il partito che fu di Chiang Kai-shek oggi all’opposizione a Taipei. Non è mai stato chiarito del tutto il contenuto di quell’accordo, da molti interpretato come un artificio politico utile a mantenere lo status quo. Secondo la versione di Pechino, il “consenso del 1992” riconosce l’esistenza di una “unica Cina”, con l’inclusione di Taiwan. Secondo la versione del Kuomintang, riconosce sì l’esistenza di una “unica Cina”, ma con “diverse interpretazioni”, consentendo dunque la temporanea coabitazione tra Repubblica Popolare e Repubblica di Cina.
Il direttore della SEF, Luo Wen-jia, ha ora proposto un nuovo round di negoziati a oltre 30 anni di distanza. L’obiettivo di Luo sarebbe quello di raggiungere un “Two Six Consensus, dal nome della roccaforte. Su quali basi, rimane da capire. Luo ha suggerito che il nuovo consenso “sarebbe più lungimirante” di quello del 1992. La sensazione è che la proposta di Taipei segua la linea del presidente Lai Ching-te, secondo cui Repubblica Popolare e Repubblica di Cina sono “due entità