Pur facendo parte dell’asse sunnita, l’Egitto cerca di mantenere una certa autonomia dall’Arabia Saudita e punta a Occidente
Negli ultimi dieci anni l’area del Mena (Medio Oriente e Nord Africa) è stata attraversata da forti turbolenze. Dalle Primavere arabe di inizio anni Dieci, alla faida tra sunniti (capeggiati dall’Arabia Saudita) e sciiti (capeggiati dall’Iran), che si è scaricata in una serie di guerre di prossimità, ad esempio in Siria, in Iraq e in Yemen; dall’allontamento degli Stati Uniti all’accresciuto ruolo della Russia; dalle crisi nel Nord Africa (in Libia, Sudan e nel Corno d’Africa) alla frattura interna alla galassia sunnita, tra regimi autoritari e monarchie da un lato, e Paesi vicini alla Fratellanza Musulmana – in particolare Turchia e Qatar – dall’altro.
In questo contesto, l’Egitto è stato spesso più un attore spostato sulla scena geopolitica dalle turbolenze scatenate da altri che non un attore in grado di creare, o placare, autonomamente simili fenomeni. Questo è dipeso sia dalla forza delle turbolenze, sia dalla perdita di peso – in termini di forza economica e politica – del Cairo. Ma la situazione ora appare in evoluzione: lo scenario geopolitico del Nord Africa e del Medio Oriente è meno burrascoso di quanto non sia stato nel recente passato e l’Egitto sembra nella condizione di poter giocare un ruolo maggiore e più autonomo.
Gli ultimi anni in Egitto
Gli ultimi dieci anni sono stati un periodo di declino per l’Egitto. La Primavera araba nel 2011 ha abbattuto il regime autoritario di Mubarak, uno dei più longevi in Medio Oriente, aprendo la strada al Governo della Fratellanza Musulmana guidato da Mohamed Morsi. Il cambio, radicale, alla guida del Paese ha però avuto vita breve: nel 2013 il golpe del generale Abdel Fattah al-Sisi ha estromesso gli islamisti dalla guida dell’Egitto e ha riportato al potere i militari. Questi repentini mutamenti e la brutale repressione attuata del regime al potere, in particolare nei primi anni, hanno lasciato il Paese fratturato al proprio interno, indebolito agli occhi della comunità internazionale – con gravi ripercussioni sull’economia – e facile preda delle faide che negli ultimi anni hanno diviso gli Stati del Mena.
Lo scontro tra militari e Fratellanza Musulmana interno al Paese, in particolare, ha collocato l’Egitto sulla faglia di frattura interna al mondo sunnita, tra Stati che considerano i Fratelli Musulmani terroristi (Riad e Dubai in primis, e anche il Cairo dal 2014) e Stati che li sponsorizzano (Doha e Ankara, alleati del precedente Governo egiziano di Morsi). Considerato anche il disperato bisogno di sostegno economico, l’Egitto di al-Sisi si è presto schiacciato sulle posizioni dei Saud, partecipando ad esempio all’embargo imposto al Qatar e al confronto continuo con la Turchia. In cambio ha ottenuto, oltre al supporto economico, il coinvolgimento militare in particolare degli Emirati Arabi Uniti in Libia, a sostegno del generale Khalifa Haftar – appoggiato anche da Mosca e in parte da Parigi – contro il Governo di Tripoli, islamista e sostenuto in teoria dalla comunità internazionale ma in pratica soprattutto da Turchia e Qatar (e in parte dall’Italia). Non ha invece ottenuto lo sperato aiuto, sempre degli Emirati Arabi Uniti, nel Corno d’Africa, dove Il Cairo teme che la diga sul Nilo che intende costruire l’Etiopia possa danneggiare il suo approvvigionamento idrico e sperava nella sponda di Dubai, che è un attore influente nell’area.
I rapporti con l’asse sciita e l’asse sunnita
Nel confronto con l’asse sciita, l’Egitto ha mantenuto invece una maggiore autonomia rispetto alla linea dettata dalle monarchie del Golfo, mantenendo buoni rapporti col regime siriano di Assad, partecipando sì alla guerra in Yemen, ma senza l’invio di truppe di terra, evitando lo scontro frontale con l’Iran sul dossier del nucleare e non solo. Se il Cairo non ha sposato appieno le posizioni dei Saud su questi dossier, non si può nemmeno dire che abbia saputo o potuto giocare un ruolo autonomo rilevante, almeno fino a poco tempo fa.
L’impressione generale è che l’Egitto sia stato aiutato dalle monarchie del Golfo dove i suoi interessi confliggevano con quelli di Turchia e Qatar – in Libia ma anche nella questione delle risorse energetiche nel Mediterrano orientale, dove il Cairo ha anche la sponda di Israele e di alcuni importanti Stati europei, come vedremo meglio tra poco – e abbandonato a se stesso dove invece gli interessi di Riad e alleati erano altri.
La posizione forzatamente defilata assunta dall’Egitto per buona parte dell’ultimo decennio ha comunque avuto come conseguenza positiva che il Cairo si è indebolito meno di quanto non sia successo ad altri – Riad e ad Abu Dhabi da un lato, Ankara e Doha dall’altro –, che hanno occupato le prime file nelle faide e negli scontri nel Mena.
Ora che – complice il cambio di amministrazione negli Usa, la fine della guerra in Siria e della presenza para-statale dello Stato islamico – la situazione geopolitica è meno incendiaria da un lato, e dall’altro l’economia dell’Egitto sembra uscita dalla fase di maggiore debolezza e instabilità, Il Cairo sembra nella condizione di poter tornare a giocare un ruolo più importante sullo scacchiere del Mena.
Il rapporto con l’Occidente
I rapporti con l’Occidente sono generalmente buoni: gli Stati Uniti – forse anche preoccupati dall’accresciuto ruolo di Mosca nella regione – hanno ristabilito gli aiuti militari ed economici all’Egitto e Israele continua ad avere nel Cairo uno dei principali interlocutori nel mondo arabo e musulmano.
Gli Stati europei hanno un rapporto più complicato. Il Cairo è utile per contrastare la Turchia: Egitto e Israele, insieme a Grecia e Cipro, hanno creato nel 2020 lo East Mediterranean Gas Forum, il che ha attirato in particolare l’interesse di Francia e Italia e suscitato le ire di Ankara. È anche un interlocutore indispensabile per pensare di poter stabilizzare la situazione in Libia. È poi un importante acquirente di materiale bellico prodotto dalle industrie europee. Ma il dossier dei diritti umani, calpestati dal regime di al-Sisi, è una nota dolente che rischia sempre di compromettere i rapporti con l’Europa. La speranza, secondo alcuni osservatori, è che il regime sentendosi più saldo al potere e avendo maggiore interesse a un dialogo a tutto campo con l’Occidente, sia ora più disponibile ad allentare la morsa della repressione interna.
L’Egitto può poi sfruttare la sua posizione non troppo schiacciata su quella saudita nei dossier siriano e iracheno per presentarsi come mediatore, aumentare la propria influenza (anche economica) nei due Stati arabi e tenere aperti i canali del dialogo con l’Iran. Può in questo anche smarcarsi in parte dai Saud e soprattutto dagli Emirati Arabi Uniti, che non sono riusciti a vincere la partita in Libia, che non tutelano gli interessi egiziani nel Corno d’Africa e che – essendosi troppo avvicinati pubblicamente a Israele negli ultimi anni di presidenza Trump – non sono ben visti da vasti settori delle opinioni pubbliche arabe.
Questa possibile emersione dell’Egitto come ritrovato attore influente sulla scena regionale sconta diverse incognite, su cui Il Cairo non ha che un controllo minimale. Se i venti dello scontro tra sunniti e sciiti, o anche solo interni al mondo sunnita, dovessero tornare a soffiare con forza, le possibilità che il regime di al-Sisi continui a muoversi con un certo grado di autonomia diminuirebbero.
Allo stesso modo una nuova esplosione della conflittualità interna all’Egitto – le repressioni brutali funzionano di solito nel breve periodo, ma nel medio e lungo rischiano di essere controproducenti – taglierebbe le gambe al neonato slancio del Cairo sulla scena internazionale.
In generale le variabili interne ai vari Paesi – dalle superpotenze globali alle potenze regionali – e quelle relative ai rapporti tra vari attori sono talmente tante e incerte, che è quasi impossibile fare previsioni di medio o lungo periodo. Un motivo in più per l’Egitto per sfruttare la fase di relativa calma per consolidare i propri rapporti con gli Stati più stabili nel Mediterraneo e tentare la via della pacificazione interna.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di novembre/dicembre di eastwest.
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