Dall’accordo, o mancato accordo, nell’opposizione dipende molto del possibile risultato alle urne del 13 gennaio. E del futuro dei rapporti intrastretto tra Taipei e Pechino, con importanti riflessi sulle relazioni tra Stati Uniti e Cina.
Il futuro di Taiwan è appeso all’interpretazione del margine d’errore statistico nei sondaggi d’opinione. Può sembrare strano, ma le prospettive sulle elezioni presidenziali taiwanesi del prossimo 13 gennaio, da cui dipendono anche i rapporti intrastretto fra Taipei e Pechino con importanti riflessi sulle relazioni tra Stati Uniti e Cina, sono legate a qualche punto decimale. Non sui risultati delle urne, ma sui sondaggi d’opinione commissionati dall’opposizione per individuare un candidato unitario.
Le candidature ufficiali vanno depositate entro le 17 di venerdì 24 novembre. Fino a pochi giorni fa, la vittoria del Partito progressista democratico (DPP) appariva quasi scontata. Non fosse altro che il campo “verde”, quello che chiede il riconoscimento di Taiwan come entità non interdipendente rispetto alla Repubblica Popolare Cinese, ha un solo candidato. Si tratta di Lai Ching-te, attuale vicepresidente e leader del DPP che mira a prendere il posto della collega di partito Tsai Ing-wen. Tra i due in passato c’è stata più di una frizione, ricomposta in tempo utile per vincere le elezioni del 2020. Ma ora sembra tutto dimenticato, con Lai che ha smussato le sue posizioni più radicali di un tempo e si propone in perfetta continuità con la postura di Tsai. Pechino non si fida e lo percepisce come il candidato a lei più ostile e lo descrive come una figura più imprevedibile rispetto alla già odiata presidente uscente.
Dopo mesi di indiscrezioni e trattative infruttuose, l’opposizione sembrava aver trovato l’accordo per una candidatura unitaria tra le sue due principali anime, il Kuomintang (KMT) e il Taiwan People’s Party (TPP). Durante un incontro presso la fondazione di Ma Ying-jeou, l’ex presidente più dialogante di sempre con Pechino, i rispettivi candidati Hou Yu-ih e Ko Wen-je avevano firmato un accordo per affidarsi al risultato di alcuni sondaggi d’opinione per individuare i candidati a presidenza e vicepresidenza. Sabato 18 novembre era previsto l’annuncio ufficiale e l’istituzione di un ufficio elettorale unitario.
Ma l’annuncio non è mai arrivato, a causa di una diversa interpretazione dei dati. Secondo il KMT, il risultato finale è di 5 a 1 per il suo candidato Hou. Secondo il TPP, si è trattato di un pareggio per 3 a 3. Ko ha contestato il funzionamento del “margine d’errore”, ma il KMT sottolinea che l’ipotetico alleato non ha rispettato i termini dell’accordo da lui stesso firmato. L’ipotesi più credibile è che Ko, non nuovo a improvvisi ripensamenti, si sia accorto di aver concesso una modalità vantaggiosa a Hou. E abbia dunque deciso di fare un passo indietro. In televisione ha raccontato di essersi sentito preso “alla sprovvista” durante i colloqui di mercoledì e sostanzialmente di aver ripetuto più volte “sì” al KMT perché si sentiva sotto pressione. “La prossima volta andrò a parlare non da solo”, ha aggiunto.
Una giustificazione che ha fatto sorgere profondi dubbi a diversi analisti sulle sue capacità strategiche, nonché sull’opportunità di avere Ko come leader. “Se si è fatto convincere a un accordo svantaggioso perché si sentiva sotto pressione col KMT immaginate che potrebbe fare a dialogare col Partito comunista cinese”, dicono in molti. Ko resta comunque apprezzato soprattutto da una parte dell’elettorato più giovane, in cerca di novità dopo 8 anni di governo del DPP e alcune delusioni sul fronte delle politiche economiche, sociali e legate al mondo del lavoro.
Ko e Hou sono pressoché appaiati nei sondaggi e uniti avrebbero il vantaggio dei pronostici contro il DPP. Per questo il KMT sta continuando a provare ad accordarsi con Ko, il quale però potrebbe alla fine decidere di correre da solo se non fosse indicato lui come candidato unitario. Questo anche perché l’ex sindaco di Taipei si è sempre presentato come un’alternativa alla tradizionale polarizzazione tra DPP e KMT, entrambi aspramente criticati anche durante gli ultimi mesi. L’accordo col KMT potrebbe deludere parte della sua base, ma sarebbe giustificabile con la guida del ticket. Un accordo tenendosi in secondo piano assomiglierebbe di più a un assorbimento e a una normalizzazione della proposta “pragmatica” e “non ideologica” di Ko, che a quel punto vedrebbe tramontare anche l’ipotesi di diventare la vera opposizione al DPP nel 2028.
Da tenere in considerazione anche la variabile di “Terry” Gou Taiming, il patron del colosso dell’elettronica Foxconn, principale fornitore di iPhone per Apple. Un paio di settimane fa la Cina ha annunciato indagini a carico dell’azienda che hanno colpito (volutamente o no) la sua campagna elettorale basata sulla capacità di fare affari sia con la Repubblica Popolare Cinese sia con gli Usa. Gou è molto lontano da tutti gli altri candidati nei sondaggi ma Ko ha dichiarato l’intenzione di coinvolgerlo nei colloqui.
Il tempo a disposizione dell’opposizione per trovare la quadra è assai limitato. La possibilità di una candidatura unitaria non è ancora ufficialmente naufragata, ma Ko dice ora di voler correre per la presidenza “fino alla fine” e il KMT chiede invece al leader del TPP un ritorno su suoi passi e all’accordo sottoscritto il 15 novembre.
Scenario complicato. Come detto, le candidature vanno depositate entro venerdì. Al momento l’unica certezza è la candidatura di Lai per il DPP, con l’ex rappresentante di Taipei negli Usa Hsiao Bi-khim a correre per la vicepresidenza. Una scelta dall’alto tasso simbolico, visto che Hsiao è inserita, al contrario di Lai e Tsai, nella lista nera di quelli che Pechino chiama “secessionisti”. Dall’accordo, o mancato accordo, nell’opposizione dipende molto del possibile risultato alle urne. E del futuro dei rapporti tra le due sponde dello Stretto di Taiwan.
Il futuro di Taiwan è appeso all’interpretazione del margine d’errore statistico nei sondaggi d’opinione. Può sembrare strano, ma le prospettive sulle elezioni presidenziali taiwanesi del prossimo 13 gennaio, da cui dipendono anche i rapporti intrastretto fra Taipei e Pechino con importanti riflessi sulle relazioni tra Stati Uniti e Cina, sono legate a qualche punto decimale. Non sui risultati delle urne, ma sui sondaggi d’opinione commissionati dall’opposizione per individuare un candidato unitario.
Le candidature ufficiali vanno depositate entro le 17 di venerdì 24 novembre. Fino a pochi giorni fa, la vittoria del Partito progressista democratico (DPP) appariva quasi scontata. Non fosse altro che il campo “verde”, quello che chiede il riconoscimento di Taiwan come entità non interdipendente rispetto alla Repubblica Popolare Cinese, ha un solo candidato. Si tratta di Lai Ching-te, attuale vicepresidente e leader del DPP che mira a prendere il posto della collega di partito Tsai Ing-wen. Tra i due in passato c’è stata più di una frizione, ricomposta in tempo utile per vincere le elezioni del 2020. Ma ora sembra tutto dimenticato, con Lai che ha smussato le sue posizioni più radicali di un tempo e si propone in perfetta continuità con la postura di Tsai. Pechino non si fida e lo percepisce come il candidato a lei più ostile e lo descrive come una figura più imprevedibile rispetto alla già odiata presidente uscente.