I limiti dell’Alleanza atlantica e i suoi errori sono anche figli della debolezza delle Nazioni Unite e degli egoismi europei. In Afghanistan, questa mancanza di prospettive ha prodotto il disastro più fragoroso
Il 4 aprile 1949 dodici Paesi firmavano un Trattato che creava un’alleanza nella quale gli Stati Uniti si facevano garanti della difesa europea, segnalavano la loro intenzione di non “tornarsene a casa” dopo la sconfitta dell’Asse, cui avevano contribuito. Con la guerra di Corea e l’imporsi dell’idea che il conflitto armato per procura o diretto tra i blocchi (con il blocco socialista che fino al 1956 significava anche Cina) potesse divenire una costante, il Trattato prese progressivamente la forma di un’organizzazione. Con il tempo nascevano i comandi nei quali generali di diversi Paesi lavoravano assieme, le basi militari, la figura del Segretario generale, le esercitazioni congiunte − gli storici discutono se quel passaggio all’organizzazione fosse o meno già scritto, qui passateci questa ricostruzione. Fino al 1989 l’organizzazione nata per tenere assieme militarmente l’Europa occidentale e gli Stati Uniti svolge un ruolo importante ma non attivo e l’articolo 5, quello che chiama alla difesa comune in caso di attacco a un membro, funge da deterrente assieme agli arsenali missilistici piazzati da un lato e dall’altro della cortina di ferro.
L’idea del contenimento viene proposta per la prima volta da George Kennan, con quello che passa alla storia come il “lungo telegramma”, un dispaccio da Mosca poi divenuto un articolo su Foreign Affairs a firma “X” nel quale il diplomatico spiegava a Washington che l’Urss avrebbe mantenuto un atteggiamento aggressivo basato su un’idea di contrapposizione tra sistemi e dalla storica insicurezza. Kennan suggeriva un atteggiamento paziente: “È chiaro che l’elemento principale di qualsiasi politica degli Stati Uniti verso l’Unione sovietica deve essere quello di un contenimento a lungo termine, paziente ma fermo e vigile delle tendenze espansive russe”. L’idea di contenimento è stata uno degli assi portanti dell’attività della Nato fino alla vittoria senza guerra del 1989. Con una specifica: Kennan parlava di contenimento e non di corsa agli armamenti e deterrenza, e riteneva che una maggior conoscenza dei russi da parte degli americani avrebbe ridimensionato la paura che si era diffusa negli Stati Uniti in seguito a un discorso di Stalin − da cui lo stesso Kennan partiva nel suo dispaccio.
Paradossalmente, la Nato diviene un attore militare attivo dopo la dissoluzione del Patto di Varsavia e il crollo del nemico potenziale che aveva fronteggiato per 40 anni.
Dopo il 1989 l’Alleanza atlantica prende una strada nuova e tra il 1991, quando interviene in Kuwait per rispondere all’invasione irachena, e il 2011 in Libia, è protagonista delle guerre in Bosnia-Erzegovina, Kosovo, Afghanistan, di nuovo Iraq, Somalia. Parallelamente l’Alleanza allarga a est i suoi confini europei, accogliendo come membri ex Paesi del Patto di Varsavia e balcanici.
L’allargamento a est
Questo breve e approssimativo riassunto serve a portarci all’attualità e all’ultimo degli errori della Nato, quello dell’allargamento a est, figlio di una mancata comprensione delle dinamiche e della psicologia russe e di una sostituzione dell’idea che ha guidato gli Usa durante la Guerra fredda con qualcosa che gli somiglia. Chi segue da vicino la politica estera avrà anche già capito che il riferimento a Kennan è importante perché l’artefice di uno degli assi che hanno guidato la politica americana nei confronti dell’Urss fu un fiero oppositore dell’allargamento a est post 1989. “L’espansione della Nato sarebbe il più fatale errore della politica americana in tutta l’era post-bellica. Ci si può aspettare che una tale decisione accentui le tendenze nazionalistiche, anti-occidentali e militaristiche dell’opinione pubblica russa; che abbia un effetto negativo sullo sviluppo della democrazia russa; che ripristini l’atmosfera della guerra fredda nelle relazioni est-ovest, e che spinga la politica estera russa in direzioni decisamente non di nostro gradimento.
E, ultimo ma non meno importante, potrebbe rendere molto più difficile, se non impossibile, assicurare la ratifica dell’accordo Start II da parte della Duma russa e ottenere ulteriori riduzioni degli armamenti nucleari” scriveva Kennan sul New York Times nel febbraio del 1997. Un anno dopo, intervistato da Thomas Friedman ribadiva gli stessi concetti: “Penso che sia l’inizio di una nuova guerra fredda. Penso che i russi reagiranno gradualmente in modo abbastanza negativo e questo influenzerà le loro politiche (…) Non c’era alcun motivo per farlo (…) E la democrazia russa è tanto avanzata quanto quella dei paesi che abbiamo appena promesso di difendere dalla Russia”. Se avesse ragione Kennan o chi immaginava che la Russia avrebbe comunque avuto l’atteggiamento che ha tenuto è difficile da dire ex post, ma le previsioni del diplomatico si sono rivelate giuste.
L’errore è dunque clamoroso ma ha una giustificazione: molti Paesi dell’ex Patto di Varsavia si sono precipitati a chiedere l’ingresso nella Nato e alleanze con gli Stati Uniti perché memori della loro storia recente e più antica. Certo, gli Stati Uniti avrebbero potuto ragionare più e meglio su quali passi compiere per costruire una cornice di sicurezza europea che non somigliasse a quella pre-‘89, con la sola Russia e alleati fedeli sul fronte opposto. Sbagliata è stata pure l’idea di collocare sistemi anti-missile in Polonia e Romania emersa al vertice Nato di Praga del 2002 che pure ha fatto discutere per anni gli alleati – in origine giustificata con l’improbabile possibilità di un attacco iraniano.
Le missioni internazionali
Veniamo agli interventi attivi della Nato, tra il 1990 e il 2011 le missioni internazionali sono otto: Iraq (1990 e 1991), Bosnia, Kosovo/Serbia e Montenegro, Afghanistan, Iraq (dal 2004), Somalia, Libia. Se le guardiamo retrospettivamente verifichiamo che solo due hanno avuto un esito che potremmo definire pienamente soddisfacente: la prima missione irachena, fermatasi prima di imporre un regime change, e quella nelle acque della Somalia per limitare la pirateria. In ciascuna missione sono stati compiuti errori e nefandezze che avrebbero meritato indagini e tribunali internazionali − le bombe sull’ambasciata cinese a Belgrado, le torture in Iraq, solo per fare due esempi clamorosi e dalle conseguenze di lungo periodo in termini di ostilità nei confronti degli Stati Uniti. Naturalmente, l’insuccesso non è militare: ogni guerra è stata vinta. Ma in nessun caso si è vinta la pace in maniera compiuta e definitiva. La Kfor è ancora in Kosovo, la Kfor è stata sostituita da Eufor, una forza europea, ma sappiamo che in Bosnia cresce la tensione, l’Iraq è stato terreno di guerra per anni, è divenuto porto sicuro e di crescita dell’Isis − e oggi milizie islamiste sparano missili su Erbil, nel Kurdistan ricco di petrolio − la Libia è tutt’altro che pacificata e l’Afghanistan è in mano ai talebani dopo 20 anni di guerra.
Il problema di ciascuna missione è il suo status ambiguo. La Nato o le coalizioni occidentali hanno spesso agito per conto dell’Onu o sostituendosi ad essa e in ciascun caso senza immaginare prima un processo per il “dopo”. In Afghanistan questa mancanza di prospettive ha prodotto il disastro più fragoroso. In quanto alleanza militare la Nato non deve occuparsi del dopo, il che segnala tutta l’ambiguità del suo ruolo come agente militare attivo. In Libia la missione Nato nasce come protezione dei libici dal cielo, giustificata dalla brutalità del regime di Gheddafi contro la rivolta. Quell’obiettivo si raggiunge rapidamente ma con il passare del tempo la missione diviene di regime change de facto. Ma quando si decide di far cadere un dittatore, si hanno delle responsabilità. Quali meccanismi si individuano per creare un contesto stabile e democratico? Senza quelli, la Nato diviene un fattore di instabilità invece che il suo contrario, come per certi aspetti è stato durante la Guerra fredda. I limiti Nato e i suoi errori sono anche figli della debolezza dell’Onu e degli egoismi europei. Due esempi clamorosi sono la strage di Srebrenica compiuta sotto gli occhi dei caschi blu olandesi e le ambiguità francesi in Libia.
Nonostante l’eccesso di retorica che ha accompagnato la risposta occidentale alla guerra di aggressione russa all’Ucraina, non siamo di fronte a una nuova Guerra fredda. In quegli anni c’erano due sistemi, due idee di mondo e società a confronto che si “combattevano” anche con le armi della politica nei singoli Paesi, c’erano sfere di influenza davvero separate. Oggi, nonostante Putin ammanti di ideologia conservatrice il suo discorso, non c’è un mondo che aspira a “fare come in Russia”. Non solo, le filiere globali sono molto più integrate e il peso economico dei Paesi Nato è ben ridimensionato rispetto agli anni ’90. Questo discorso ci porterebbe da un’altra parte, ma il vertice Nato dello scorso 7 aprile, che vedeva anche la presenza degli alleati asiatici degli Stati Uniti prefigura un ruolo dell’Alleanza discutibile. O di cui, almeno, occorrerebbe discutere e riflettere in maniera approfondita e fuori dall’urgenza di una crisi pericolosa come quella ucraina.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di maggio/giugno di eastwest.
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Il 4 aprile 1949 dodici Paesi firmavano un Trattato che creava un’alleanza nella quale gli Stati Uniti si facevano garanti della difesa europea, segnalavano la loro intenzione di non “tornarsene a casa” dopo la sconfitta dell’Asse, cui avevano contribuito. Con la guerra di Corea e l’imporsi dell’idea che il conflitto armato per procura o diretto tra i blocchi (con il blocco socialista che fino al 1956 significava anche Cina) potesse divenire una costante, il Trattato prese progressivamente la forma di un’organizzazione. Con il tempo nascevano i comandi nei quali generali di diversi Paesi lavoravano assieme, le basi militari, la figura del Segretario generale, le esercitazioni congiunte − gli storici discutono se quel passaggio all’organizzazione fosse o meno già scritto, qui passateci questa ricostruzione. Fino al 1989 l’organizzazione nata per tenere assieme militarmente l’Europa occidentale e gli Stati Uniti svolge un ruolo importante ma non attivo e l’articolo 5, quello che chiama alla difesa comune in caso di attacco a un membro, funge da deterrente assieme agli arsenali missilistici piazzati da un lato e dall’altro della cortina di ferro.