L’Eurasia accelera: la competizione globale con la Cina è solo agli inizi
Gli ultimi sviluppi politici nella regione eurasiatica lanciano segnali che potrebbero mutare gli assetti geopolitici invariati da almeno 100 anni
Gli ultimi sviluppi politici nella regione eurasiatica lanciano segnali che potrebbero mutare gli assetti geopolitici invariati da almeno 100 anni
Le ultime settimane sono state piuttosto dense di sviluppi politici afferenti alla regione eurasiatica. Sono addirittura affiorati alcuni segnali che lascerebbero presagire un potenziale mutamento di assunti e assetti geopolitici immutati da almeno un secolo.
L’accordo Cina-Iran
Innanzitutto, Pechino e Teheran hanno annunciato un programma di cooperazione pluriennale del valore stimato di 400 miliardi di dollari che sarebbe una corposa boccata di ossigeno per l’economia iraniana gravata dalle sanzioni unilaterali statunitensi e dalla riluttanza di molti Paesi a sfidarle. All’annuncio, ha fatto poi seguito la visita a Teheran del Ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov, che ha confermato la perdurante concertazione triangolare tra Teheran, Mosca e Pechino.
L’accordo cino-iraniano si presta a molteplici interpretazioni. Da un lato rafforza l’impressione che la Cina, che nel primo trimestre di quest’anno ha registrato una crescita record del Pil del 18% ed è reduce da un esordio battagliero con l’amministrazione Biden nel bilaterale svoltosi recentemente ad Anchorage, voglia rilanciare – anche con questo accordo e dopo la pausa indotta dalla pandemia – il suo grande progetto infrastrutturale della Belt and Road Initiative (BRI). L’obiettivo di Pechino è un grande spazio economico-commerciale euro-asiatico contraddistinto da massicci progetti infrastrutturali sia nei trasporti che digitali del valore di 1000 miliardi di dollari, il più grande programma di questo genere di cui si abbia memoria, al cui confronto il Piano Marshall americano del 1948, a parità di potere d’acquisto, impallidisce: 148 miliardi di dollari rispetto al trilione cinese. L’Iran, con la sua posizione strategica, potrebbe quindi configurarsi come il segmento meridionale più importante di questo progetto propiziando il suo consolidamento verso Iraq, Siria, Turchia, Mediterraneo e Europa meridionale. La BRI si avvale anche dell’Asian Infrastructure and Investment Bank (AIIB), varata dalla Cina nel 2017, cui hanno aderito disinvoltamente quasi tutti gli alleati europei e asiatici di Washington; questo organismo, naturalmente, coltiva anche il fin troppo evidente intento di affrancare la BRI dalla Banca mondiale, tradizionalmente controllata dagli Stati Uniti.
Se tale processo di consolidamento e concertazione politica, economica e commerciale euroasiatica dovesse procedere, potrebbe profilarsi quell’incubo strategico sul quale i maggiori studiosi di geopolitica anglo-americani, da Sir Halford Mackinder a Nicholas Spykman, da Zbigniew Brzezinsky a George Friedman, hanno costantemente ammonito nell’ultimo secolo: un blocco euroasiatico, Heartland secondo la definizione di Mackinder, estraneo all’influenza degli Stati Uniti d’America e delle altre potenze occidentali. Infatti, sia pur nelle loro diverse argomentazioni, i quattro predetti studiosi hanno manifestato una convergenza di fondo sulla tesi che chiunque controlli l’Eurasia controlli anche il mondo. La Cina più pragmaticamente sembra interessata a tutelare la propria supply chain, oggi basata prevalentemente sul traffico navale, e, consapevole di non poter ancora competere con gli Stati Uniti nel controllo degli oceani, punta a sottrarsi il più possibile da pericolosi colli di bottiglia marittimi come Suez, Bab al Mendeb, Hormuz e Malacca sviluppando contestualmente una gigantesca supply chain terrestre attraverso l’Eurasia che resterebbe immune alle interferenze statunitensi. Per questo gli Usa hanno fin dall’inizio sistematicamente avversato, con magra fortuna finora, sia BRI che AIIB.
Il JCPoA e il sabotaggio di Natanz
Nel frattempo, dopo svariate gesticolazioni da ambo le parti, i negoziati per salvare l’accordo nucleare con l’Iran (JCPoA) sono ripresi a Vienna, con l’Ue impegnata a fare la spola tra le delegazioni americana e iraniana, poiché quest’ultima si rifiuta ancora di confrontarsi direttamente con la prima fino a quando non verranno rimosse le sanzioni addizionali varate dall’amministrazione Trump quando si è ritirata dal predetto accordo nel 2018.
Mentre le indiscrezioni sull’atmosfera dei colloqui lasciavano filtrare un certo ottimismo, è arrivato con una puntualità millimetrica un tentativo di siluramento israeliano dei colloqui con il sabotaggio dell’impianto nucleare iraniano di Natanz. L’iniziativa, secondo lo spinning mediatico israelo-americano, avrebbe fatto arretrare di diversi mesi la tabella di marcia dell’arricchimento dell’uranio da parte di Teheran; resta il fatto che quest’ultima, a poche ore dal sabotaggio ha annunciato un ulteriore salto di qualità del processo di arricchimento, che passa ora al 60%, pericolosamente prossimo alla critica soglia militare del 90%. Indiscrezioni filtrate sia da Gerusalemme che da Washington hanno lasciato intendere, compiaciute, che questo sabotaggio potrebbe aver indebolito la forza contrattuale iraniana; conoscendo tuttavia i precedenti e le attitudini iraniane in questo ambito, sarebbe prudente nutrire un certo scetticismo. Solo le prossime fasi del negoziato, nonché le rilevazioni periodiche dell’Aiea sull’uranio arricchito detenuto da Teheran, potranno fare chiarezza su chi abbia veramente perduto il proprio potere contrattuale.
Su questo sfondo, già preoccupante di per sé, si innesta l’inquietante prospettiva della guerra navale clandestina che da mesi, se non addirittura da anni come è recentemente emerso, che Israele è impegnata a condurre contro l’Iran per ostacolare i rifornimenti di quest’ultimo diretti verso la Siria; la circostanza che Teheran ultimamente abbia iniziato a reagire bersagliando navi israeliane nel Golfo Persico offre ulteriori motivi di preoccupazione con il rischio di un’escalation incontrollata. A completare un quadro già teso e complesso, ci ha pensato l’Ue la quale, dopo essersi brillantemente ritagliata un nuovo ruolo di mediazione tra americani e iraniani, ha pensato bene di varare sanzioni contro esponenti del regime iraniano responsabili della cruenta repressione delle manifestazioni svoltesi nel Paese nel 2019. Partendo dal presupposto che Bruxelles non possa essere così autolesionista da compromettere le sue credenziali di mediatore sanzionando Teheran all’indomani dell’ennesimo tentativo israeliano di silurare il negoziato, azione dalla quale la stessa Washington è sembrata voler prendere le distanze, è plausibile che quella europea sia stata l’applicazione di una decisione presa da tempo e della quale le autorità iraniane erano state preventivamente informate, come emerso da autorevoli fonti Ue. Certo è che se Bruxelles avesse aspettato qualche settimana non sarebbe cambiato alcunché. L’Iran, ovviamente, ha reagito negativamente, mentre la Russia non si è certamente lasciata sfuggire l’occasione per randellare l’apparente goffaggine europea.
Il ritiro Usa dall’Afghanistan
Le novità più importanti, tuttavia, emergerebbero dagli Stati Uniti. La nuova amministrazione sembrerebbe intenta a voler imprimere un’accelerazione, e forse anche un salto di qualità, nella propria strategia sul versante euro-asiatico. Il Presidente Biden ha annunciato il ritiro delle forze statunitensi dall’Afghanistan, che dovrebbe essere completato l’11 settembre prossimo, e ha proposto al Presidente Putin un summit in un Paese terzo per esaminare i vari dossier sul tappeto, a partire dalla delicata questione ucraina che ha registrato forti tensioni nelle ultime settimane. Biden ha fatto questa apertura facendola tuttavia seguire da ulteriori sanzioni verso Mosca nel possibile assunto, la cui validità resta tutta da dimostrare, che queste possano influire sul calcolo politico russo; anche in tale caso sarebbe lecito nutrire qualche dubbio, per il momento la Russia ha espulso una decina di diplomatici Usa e sanzionato alcune personalità politiche statunitensi. Anche a questo riguardo sarà il tempo ad offrire un responso più attendibile.
Anche la doppia iniziativa del Presidente americano si presta tuttavia a una lettura composita, sempre nel contesto del concomitante negoziato con l’Iran che la Casa Bianca sembra voler portare avanti nonostante l’azione di disturbo israeliana, di alcuni Paesi arabi e dei loro sostenitori nel Congresso americano. Da una parte il tentativo di allentare la tensione con Mosca attraverso il summit potrebbe corrispondere ad una necessità della quale – si spera vivamente – Washington sia finalmente divenuta consapevole, ovvero di non poter ingaggiare contemporaneamente e assertivamente Russia, Cina e Iran. Il fatto che Biden abbia proposto un summit a Putin e non al leader cinese Xi Jinping sembrerebbe confermare inequivocabilmente quale sia la maggiore minaccia percepita a Washington in questo momento.
Il disimpegno dall’Afghanistan potrebbe invece segnare, da un lato il tramonto delle guerre senza fine statunitensi in Asia occidentale, ma anche, e soprattutto, una possibile presa d’atto che la BRI cinese è ormai una realtà incontrovertibile per la quale la protratta permanenza in Afghanistan come potenziale fattore di disturbo non è più necessaria né, tantomeno, sostenibile. Immaginare infatti che gli Usa siano rimasti in Afghanistan per 20 anni solo in funzione antiterroristica e per il benessere della popolazione afgana rasenta l’ingenuità. Il disimpegno dal Paese potrebbe essere anche un ulteriore segnale verso Teheran; anche se è lecito domandarsi quanto quest’ultima potrebbe esserne compiaciuta se questo dovesse lasciare nuovamente campo libero ai Talebani.
Prospettive future
Sarebbe forse azzardato concludere, sulla base di questi preliminari elementi, che la strategia Usa verso l’Eurasia si stia avviando verso una possibile revisione; tuttavia i tempi e lo spostamento di alcuni equilibri strategici militerebbero a favore di una seria revisione delle opzioni statunitensi. Washington potrebbe valutare e forse trovare più conveniente un nuovo approccio minimalista che potrebbero tradursi in: 1) serrare le file con l’Europa per provare a neutralizzare la BRI nella sua, assai proficua, appendice terminale occidentale, rinunciando ad ostacolarla nel suo percorso intermedio in Asia centrale, oggettivamente assai più arduo; 2) fare altrettanto in Asia orientale, nell’Indo-Pacifico se vogliamo adeguarci alla terminologia ormai in voga, rafforzando il Quad (Usa, Giappone, India e Australia) che al momento non appare un formato propriamente collaudato.
Appare inverosimile, invece, che Biden possa ottenere all’inverso da Putin quello che Nixon consegui da Mao mezzo secolo fa, il distacco della Russia dalla Cina, che sarebbe il vero game-changer degli assetti geopolitici euroasiatici. Al momento, con il clima che regna, appare alquanto improbabile che Putin possa essere interessato da tali potenziali lusinghe americane; tuttavia, ammettendo per ipotesi che l’attuale inquilino del Cremlino possa accarezzare tale idea, per Biden perseguirla sarebbe a dir poco temerario. Il Presidente Usa si ritroverebbe contro tutto l’establishment di politica estera e di sicurezza statunitense che ormai appare in preda a una forma di russofobia basata su una fuorviante rappresentazione delle più recenti dinamiche internazionali afferenti alla Russia che poco hanno a che fare con l’effettiva realtà. Una refrain mentale radicato anche per quanto concerne la variante sinofobica.
Un arretramento strategico statunitense che lasciasse il cosiddetto Heartland alle potenze continentali euroasiatiche, incluso il loro problematico ventre molle mediorientale, consentirebbe a Washington di tutelare meglio il cosiddetto Rimland, enfatizzato da Nicholas Spykman, mantenendo la supremazia statunitense laddove è ancora indiscutibile, ovvero sui mari e sulle grandi rotte commerciali navali e nelle periferie estreme dell’Heartland: Europa, Asia Orientale (Giappone, Corea del Sud, Taiwan) e Oceania. Contestualmente, si libererebbero enormi risorse per affrontare quella che è la vera e più impellente minaccia alla sicurezza degli Stati Uniti, il fronte interno. Una necessità ormai coraggiosamente riconosciuta anche dai documenti concettuali sulla strategia di sicurezza Usa come confermato dalla Interim National Security Strategy Guidance pubblicata nel marzo scorso; quest’ultima lascia chiaramente intendere che per stabilizzare il proprio fronte interno gli Stati Uniti abbiano una sorta di atavica necessità di un costante nemico esterno. La storia, anche quella più recente, purtroppo, insegna che quando il nemico necessario stenta a profilarsi si finisce con l’inventarlo.
Gli Stati Uniti, quindi, dovrebbero coraggiosamente trarre le debite lezioni impartite in particolare dalle tumultuose prime due decadi del XXI secolo con le guerre senza fine in Asia occidentale. L’annunciato ritiro dall’Afghanistan, qualora non venga nuovamente sabotato dal cosiddetto MICIMATT (Military Industrial Complex, Intelligence, Media, Academia and Think Tanks), potrebbe essere il primo importante segnale in tal senso che, se poi venisse seguito da un’analoga decisione per quanto riguarda Iraq e Siria, offrirebbe una rassicurazione più solida sull’evoluzione strategica Usa.
Sfide epocali
L’assunto da cui sarebbe opportuno partire è che nel XXI secolo la tesi già illustrata, e sostenuta per decenni dalla geopolitica anglo-americana, ovvero che “chi controlla l’Eurasia controlla il mondo”, possa essere ora rimessa in discussione. Il primo ventennio di questo nuovo secolo offre corpose indicazioni di come il vero potere stia transitando da una dimensione reale e territoriale a una virtuale. Esso sarà appannaggio di coloro che controlleranno i big data, la fintech, i sistemi di comunicazione 5G e 6G, l’Intelligenza Artificiale, l’Internet of Things, i softwares e i servers delle Smart Cities, la computazione, la comunicazione e la criptazione quantistiche e la cybersecurity; in altri termini da chi si metterà più rapidamente al passo con il Grande Reset vaticinato dal World Economic Forum attraverso la Quarta Rivoluzione Industriale e il suo corollario ambientalistico semplificato come Green New Deal. Su questo terreno la competizione globale con la Cina è solo agli inizi e saranno necessarie enormi risorse visto quello che Pechino è stata finora in grado di mobilitare e di conseguire in appena tre decenni: circa 800 milioni di persone sottratte alla povertà, un’economia che si avvia a diventare la prima al mondo con una supremazia tecnologica già consolidata in diversi settori.
Per affrontare efficacemente questa sfida epocale negli ambiti sopra descritti non occorrono centinaia di migliaia di soldati Usa distribuiti in 800 basi militari sparse in tutto il mondo, ma un massiccio piano di rilancio industriale e di investimenti e ricerca all’interno del Paese che lo mettano in grado di competere efficacemente. Una scelta che, fortunatamente, il Presidente Biden sembra voler percorrere. Questa dovrà necessariamente comportare, se condotta scientemente e con atteggiamento refrattario verso le fin troppo numerose lobby esterne e interne che da sempre vincolano e danneggiano l’America, la razionalizzazione degli interventi e degli impegni su teatri dove probabilmente la partita è stata già persa da tempo e che nulla aggiungono alla sicurezza del Paese nonché l’abbandono di cliché strategici ormai superati e comunque impraticabili come quello di impedire il consolidamento dell’Heartland con la presenza di boots on the ground statunitensi in Eurasia.
La vera scelta strategica sarà fare meno per fare meglio, molto meglio, ovvero, build back differently invece dell’ormai virale build back better. La vera sfida intellettuale-strategica dei prossimi anni sarà quindi quella di far maturare questa consapevolezza/necessità nei fin troppo numerosi “pensatoi” all’interno della Beltway della capitale statunitense.
Gli ultimi sviluppi politici nella regione eurasiatica lanciano segnali che potrebbero mutare gli assetti geopolitici invariati da almeno 100 anni
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