Guerra in Yemen: nessuno può vincere e il gioco delle alleanze si rimescola continuamente: Houthi/Iran al nord-ovest, secessionisti/EAU al sud. E Riad cerca spazio a est
Guerra in Yemen: nessuno può vincere e il gioco delle alleanze si rimescola continuamente: Houthi/Iran al nord-ovest, secessionisti/EAU al sud. E Riad cerca spazio a est
E se oltre la guerra ci fosse ancora la guerra? Il conflitto in Yemen è la quintessenza delle guerre contemporanee. Ovvero il frutto delle transizioni incompiute verso l’approdo democratico promesso prima dal mondo post-bipolare (dal 1989) e poi dalle rivolte arabe (dal 2011). Conflitti caratterizzati da un’altissima frammentazione politico-militare, nonché dall’ibridazione fra il campo dello “Stato” (per esempio, eserciti ed economie) e l’apparente “contro-Stato” (per esempio, milizie e reti di economia informale), “contro-Stato” che spesso si lega, però, ai tentativi di sopravvivenza di ciò che resta dello Stato (vedi gli eserciti collassati che integrano le milizie nate sul campo). Guerre lunghissime capaci di modificare consolidati equilibri sociali, dato l’intreccio fra dimensioni interne e regionali (come in Siria, Libia e prima Iraq), avviando una ricomposizione di poteri a livello locale, dunque “sotto lo Stato”.
Ecco perché, nonostante i principali attori yemeniti e mediorientali abbiano ormai interesse, dopo oltre cinque anni di ostilità, a trovare una soluzione politica, le armi non riescono a fermarsi: lo Stato yemenita, già contestato e debole prima del 2015, non c’è più. Troppe le micro-partite locali, troppo diversi gli obiettivi politici di chi continua a combattere, mentre Covid-19 dilaga indisturbato. Così, se anche l’Arabia Saudita e gli insorti houthi, sostenuti dall’Iran, giungessero all’auspicato cessate il fuoco, ciò non equivarrebbe a una pacificazione dell’intero territorio yemenita. In questa guerra, c’è qualcuno davvero in grado di pronunciare la parola fine?
Il gioco delle alleanze
Se fosse solo uno scontro tra houthi e filo-governativi, il quadro sarebbe decisamente più semplice, così come il compito della diplomazia. Invece, a fronteggiarsi in Yemen è una moltitudine di attori politico-militari, che danno vita a “feudi” rivali su base locale. È stato proprio l’intervento militare della coalizione araba guidata dall’Arabia Saudita, nel marzo 2015, ad aprire il “vaso di Pandora” yemenita: i sauditi intervennero per ripristinare il Governo ad interim del Presidente Abdu Rabbu Mansour Hadi, dopo il colpo di stato degli houthi, gli insorti sciiti zaiditi del nord. Cinque anni dopo, l’obiettivo non è stato raggiunto: anzi, il fronte dei governativi è più che mai diviso. Gli houthi autogovernano la capitale Sanaa e gran parte dei territori nord-occidentali del Paese, compresa la città di Hodeida sul Mar Rosso; qui, porto d’ingresso per l’80% degli aiuti umanitari, l’Accordo di Stoccolma negoziato dalle Nazioni Unite nel 2018 ha impedito un’offensiva di terra della coalizione, ma ha di fatto bloccato gli equilibri sul campo. Prova ne è la vicenda della nave Safer, che si trova abbandonata al largo di Hodeida, con a bordo più di un milione di barili di greggio.
Da due anni, gli houthi impediscono all’Onu di ispezionarla: lo sversamento di greggio, o l’esplosione della Safer, provocherebbe una catastrofe ambientale e umana nel Mar Rosso, con ripercussioni sulle economie locali dipendenti dalla pesca. Il Governo riconosciuto, rilocato ad Aden nel 2015, fa perno su Islah (partito che raggruppa i Fratelli Musulmani yemeniti, la famiglia tribale degli Al Ahmar e parte dei salafiti), è sostenuto da Riyadh e deve guardarsi, oltreché dagli houthi, da tanti gruppi locali che si oppongono agli insorti sciiti, ma che non intendono essere governati da Hadi o da un Governo centrale.
I secessionisti
Nel 2017, parte del movimento per l’autonomia meridionale ha fondato il Consiglio di Transizione del Sud, organo dalle aspirazioni secessioniste guidato dall’ex governatore di Aden, Aydarous Al Zubaidi, e informalmente sostenuto dagli Emirati Arabi Uniti. Dopo molte schermaglie, gli scontri tra filo-governativi e secessionisti del sud sono divampati nell’agosto 2019, quando le milizie legate al Consiglio di Transizione hanno simbolicamente espugnato il Palazzo presidenziale (vuoto) di Aden, con Hadi che si era già da tempo rifugiato a Riad. Quel secondo “colpo di stato” si è poi trasformato in un accordo di condivisione del potere tra governo e secessionisti (l’Accordo di Riyadh del 2019), negoziato dall’Arabia Saudita per compattare il rissoso fronte anti-houthi.
I secessionisti di Aden non rappresentano, però, l’intera galassia dell’autonomismo del sud: le identità regionali sono numerose e conflittuali (nel 1986 fu guerra civile tra i sudisti dell’allora Repubblica democratica popolare). Infatti, gran parte dei governatorati meridionali (tra cui l’Hadhramawt ricco di petrolio e Mahra, al confine con l’Oman) hanno rigettato lo scorso aprile la dichiarazione di autogoverno del Consiglio di Transizione (ritirata poi a luglio). Insomma, ognuno vuole il proprio micro-stato: tra la città di Al Mokha e lo stretto del Bab el-Mandeb, Tareq Saleh, il nipote dell’ex Presidente, è alla guida di un eterogeneo comando militare (le “West Coast Forces”) che raggruppa uomini della disciolta Guardia Repubblicana, più milizie locali di orientamento salafita che lottano per l’autonomia della Tihama, la costa pianeggiante che lambisce il Mar Rosso.
Sul tavolo delle trattative
Nessuno può vincere militarmente questa guerra, ma alcuni attori hanno fin qui guadagnato di più dal conflitto. Ed è un capitale politico, e geopolitico, da far pesare al tavolo delle trattative o, come spesso avvenuto, da reinvestire sul territorio per sbarrare la strada agli avversari di turno. Tra chi ha guadagnato, vi sono di certo gli houthi, che hanno assorbito il pluritrentennale sistema di potere di Ali Abdullah Saleh. Quando i miliziani del nord uccisero l’ex Presidente (dicembre 2017) e, fino al quel momento, alleato, essi erano già riusciti a monopolizzare il potere nelle “istituzioni” di Sanaa nonché a livello locale, soggiogando la polizia e marginalizzando i capi tribali. E ora hanno pure istituito il “quinto” di tradizione sciita (khums), ovvero la tassa del 20% su ogni profitto e risorsa naturale a beneficio del lignaggio hashemita (i discendenti del profeta Maometto di cui la famiglia Al Houthi fa parte). Da guerriglieri della periferia, gli houthi sono divenuti attori asimmetrici dal peso nazionale, capaci di tenere sotto scacco l’Arabia Saudita con lanci di missili e droni, offensive frontaliere di terra e massiccio uso di mine (anche marittime).
Il ruolo dell’Iran
In questo senso, il ruolo dell’Iran è stato decisivo, non soltanto per la fornitura di armi. I pasdaran iraniani e gli Hezbollah libanesi hanno addestrato gli houthi trasformandoli nella “spina nel fianco” del confine saudita: la vittoria di Teheran in Yemen è proprio questa. Anche gli Emirati hanno guadagnato molto dal conflitto, coniugando visione strategica, addestramento militare e gestione della sicurezza locale: il risultato è una rete di alleanze locali che rende gli Emirati Arabi i più influenti nel sud del Paese. Infatti, gli alleati yemeniti degli EAU, dentro e fuori il secessionista Consiglio di Transizione del Sud, controllano gran parte delle città costiere e dei porti, incluso il capoluogo dell’isola di Socotra, naturale avamposto nell’Oceano Indiano. Proprio il massiccio reclutamento, anche di salafiti, nelle milizie filo-emiratine, ha fin qui drenato il potenziale bacino di al Qaeda nella Penisola Arabica (AQAP): pur presente, AQAP non controlla più significativi centri urbani dal 2016.
L’iperattivismo degli EAU nel sud dello Yemen ha spesso provocato la rincorsa dell’Arabia Saudita: con un nord-ovest a “trazione houthi”, quindi vicino all’Iran, e un sud ormai “nicchia d’influenza” degli Emirati Arabi, i sauditi hanno paradossalmente rischiato di diventare marginali. Riad è rientrata nella partita geopolitica per lo Yemen con due mosse: l’apertura nei confronti dei secessionisti (appiattendosi quindi sulle posizioni degli EAU), e la presenza militare nel governatorato sud-orientale di Mahra, al confine con l’Oman, dove non si combatteva né vi erano formazioni houthi. Irritando il Sultanato dell’Oman che non gradisce interferenze lungo il confine occidentale. Perché nulla, nemmeno le alleanze, sono davvero ciò che sembrano nello Yemen in guerra permanente.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di settembre/ottobre di eastwest.
E se oltre la guerra ci fosse ancora la guerra? Il conflitto in Yemen è la quintessenza delle guerre contemporanee. Ovvero il frutto delle transizioni incompiute verso l’approdo democratico promesso prima dal mondo post-bipolare (dal 1989) e poi dalle rivolte arabe (dal 2011). Conflitti caratterizzati da un’altissima frammentazione politico-militare, nonché dall’ibridazione fra il campo dello “Stato” (per esempio, eserciti ed economie) e l’apparente “contro-Stato” (per esempio, milizie e reti di economia informale), “contro-Stato” che spesso si lega, però, ai tentativi di sopravvivenza di ciò che resta dello Stato (vedi gli eserciti collassati che integrano le milizie nate sul campo). Guerre lunghissime capaci di modificare consolidati equilibri sociali, dato l’intreccio fra dimensioni interne e regionali (come in Siria, Libia e prima Iraq), avviando una ricomposizione di poteri a livello locale, dunque “sotto lo Stato”.
Ecco perché, nonostante i principali attori yemeniti e mediorientali abbiano ormai interesse, dopo oltre cinque anni di ostilità, a trovare una soluzione politica, le armi non riescono a fermarsi: lo Stato yemenita, già contestato e debole prima del 2015, non c’è più. Troppe le micro-partite locali, troppo diversi gli obiettivi politici di chi continua a combattere, mentre Covid-19 dilaga indisturbato. Così, se anche l’Arabia Saudita e gli insorti houthi, sostenuti dall’Iran, giungessero all’auspicato cessate il fuoco, ciò non equivarrebbe a una pacificazione dell’intero territorio yemenita. In questa guerra, c’è qualcuno davvero in grado di pronunciare la parola fine?
Il gioco delle alleanze
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