Le gang di Port-au-Prince esigono la rinuncia del primo ministro Ariel Henry, bloccato a Puerto Rico. Pronta una nuova missione internazionale di sicurezza, ma Usa e alleati cominciano a considerare la possibilità di anticipare le elezioni.
Haiti è sprofondata in una nuova crisi durante l’ultima settimana. Lo scorso sabato le gang che ormai controllano l’80% del territorio della capitale, Port-au-Prince, hanno preso d’assalto le due principali prigioni della città, liberando 3.696 reclusi. L’attacco è stato preceduto da sparatorie e incendi in diversi punti della capitale, e ha portato il governo a decretare lo stato d’emergenza durante 72 ore. Eppure, a poche ore dal raid contro il servizio penitenziario, un nuovo attacco è stato registrato lunedì 4 marzo contro l’aeroporto internazionale Toussaint Louverture, che è stato chiuso al traffico aereo.
A guidare le operazioni del crimine organizzato è Jimmy Chérizier, alias “Barbecue”, un ex poliziotto oggi leader del sodalizio G9 an fanmi, (G9 e famiglia), la più grande federazione criminale del Paese, che già a settembre aveva dichiarato apertamente la guerra contro il primo ministro Ariel Henry chiedendone la rimozione. In un’improvvisata conferenza stampa questo martedì ha assicurato che se il governo non si dimette si scatenerà ad Haiti una guerra civile “e un genocidio”, i cui responsabili saranno Henry assieme ai propri alleati internazionali tra cui ha citato gli Usa, il Canada e la Francia.
La situazione del paese è dunque delicatissima sotto diversi aspetti. Oltre alla drammatica crisi di sicurezza in corso ormai da diversi anni, il Paese deve fare i conti con una lunga crisi politica, giunta all’apice con l’omicidio del presidente Jovenel Moïse accaduto nel luglio del 2021. Il primo ministro Henry era stato addirittura accusato di aver partecipato al complotto per portare avanti l’assassinio del presidente, realizzato da 21 mercenari colombiani assoldati presuntamente da importanti uomini d’affari haitiani radicati negli Usa – gli unici a non essere evasi durante l’attacco al carcere dove sono detenuti lo scorso sabato -. Da allora, sono state cancellate le elezioni generali indette per la fine di quell’anno, annullata la riforma costituzionale voluta da Moïse, e sono scaduti anche i mandati degli ultimi senatori eletti nel 2019, lasciando il paese in mano del capo di governo senza la presenza di un parlamento eletto.
Da mesi ormai l’autorità legale del governo è duramente contestata, e le gang criminali haitiane si sono unite alle proteste.
La sfida lanciata dalle bande criminali alle autorità ha raggiunto nelle ultime ore livelli inediti: il primo ministro Henry infatti è attualmente bloccato a Puerto Rico senza possibilità di tornare in patria. Il premier ha abbandonato il paese lo scorso 28 febbraio per partecipare al summit della Comunità Caraibica (Caricom) tenutosi in Guayana. In quel contesto i principali leader dei 15 paesi caraibici riuniti a Georgetown hanno annunciato un accordo per la realizzazione di nuove elezioni nazionali ad Haiti entro agosto del 2025.
Una notizia accolta negativamente nel Paese, dove opposizioni e gang esigono le dimissioni immediate del governo. Ariel Henry si è poi recato a sorpresa in Kenya, dove ha firmato con il presidente William Ruto un accordo per l’invio di una missione internazionale guidata da 1.000 agenti di sicurezza kenioti per dare manforte alle forze di polizia locali allo stremo.
Il governo può contare su un totale di 9.000 agenti per una popolazione di 11,6 milioni di abitanti, e i membri delle bande armate spesso triplicano in numero quelli delle forze di sicurezza chiamate a controllarli.
L’arrivo di forze internazionali ad Haiti era già stato accordato a margine dei lavori dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a novembre del 2023, ma la Corte Suprema del Kenya, Paese incaricato dal Consiglio di Sicurezza di guidare la missione ad Haiti, ha bloccato l’avvio della spedizione. L’annuncio della ripresa del progetto, per il quale sono già stati riuniti 120 milioni di dollari da parte di diversi stati in tutto il mondo, ha scatenato la reazione del crimine organizzato. Il primo ministro Henry si è quindi recato negli Usa, dove, secondo alcune ricostruzioni, avrebbe ricevuto pressioni da parte delle autorità locali affinché anticipasse la consegna del potere, indiscrezioni smentite questa settimana dall’Ambasciatrice Usa presso le Nazioni Unite Linda Thomas-Greenfield.
Partito da New York martedì, l’aereo che trasportava il primo ministro Henry e la comitiva di governo è stato fatto atterrare all’aeroporto di San José, a Puerto Rico, Stato Libero Associato degli Usa. Le autorità della Repubblica Dominicana, unico paese che condivide una frontiera terrestre con Haiti, e dove il premier era diretto, gli hanno negato l’atterraggio.
Il piano di Henry era quello di raggiungere Port-au-Prince via terra, vista la chiusura dell’aeroporto internazionale haitiano, ma il governo dominicano – che da anni mantiene un atteggiamento ostile nei confronti di Haiti a causa della permanente crisi umanitaria in corso a ridosso dei propri confini – si è rifiutato di collaborare in tal senso.
La storia di Haiti
La drammatica situazione di povertà e instabilità strutturale che vive il paese non è certo nuova. Si potrebbe dire infatti che si tratta di una costante della storia di Haiti, prima repubblica nera del mondo, fondata da ex schiavi ribelli nel 1804, e che è passata da essere la colonia francese più ricca d’America al paese più povero dell’emisfero occidentale.
Questo processo si potrebbe spiegare, in modo piuttosto semplificato, a partire dalla successione di una serie di fenomeni nella storia haitiana che ne hanno segnato il destino. Innanzitutto il debito, contratto dai successivi governi indipendenti sorti dopo le guerre civili che hanno caratterizzato i primi anni della neonata repubblica.
Ridotto il peso dei settori rivoluzionari, il governo haitiano accettò, sotto minaccia, il pagamento di un risarcimento a favore della Francia, che aveva messo sotto assedio navale Port-au-Prince. Il debito, accordato nel 1825, è stato saldato nel 1947. L’80% delle risorse haitiane durante quel periodo sono state dedicate al pagamento del debito con Parigi.
Il secondo fattore storico che spiega la debolezza istituzionale haitiana è la permanente presenza straniera, specialmente degli Usa. Tra il 1914 e il 1935 Washington ha direttamente occupato la parte dell’isola Española corrispondente ad Haiti, presuntamente per pacificare il paese, impedendone però la consolidazione istituzionale.
Poi venne la trentennale dittatura di François Duvalier, detto Papa Doc, e suo figlio Jean Claude, alias Baby Doc, che hanno governato con pugno di ferro – e l’appoggio di Washington – dal 1956 fino al 1986. A partire dagli anni ’90 gli interventi stranieri diretti furono di natura multilaterale: la missione Uphold Democracy tra il 1994 e il 1995 per rimuovere i militari golpisti al potere dal 1991, e tra il 2004 e il 2017 la Missione di stabilizzazione delle Nazioni Unite ad Haiti (MINUSTAH), accusata di aver introdotto malattie infettive (tra cui il colera che ha provocato una strage nella popolazione locale) e di aver perpetrato serie violazioni ai diritti umani.
I disastri naturali
E poi i disastri naturali: nel 2010 Haiti fu l’epicentro di uno dei terremoti più devastanti della storia recente dell’umanità, che ha provocato la morte di circa 300.000 persone in pochi minuti. La tragedia portò moltissime organizzazioni umanitarie e cooperanti a installarsi a Port-au-Prince generando un fenomeno inedito: i programmi internazionali di aiuto superarono di gran lunga l’azione governativa, e il paese divenne noto come “la Repubblica delle ONG“, dove le organizzazioni internazionali avevano molto più peso nella gestione territoriale ed economica rispetto alle autorità locali.
Nel 2021, un altro terremoto ha devastato la periferia della capitale. Non è possibile dunque comprendere la crisi haitiana senza cercarne le radici nella storia del paese.
Le gang
La violenza delle gang si è moltiplicata a partire dalla crisi politica iniziata nel 2019, al calore delle manifestazioni scatenate dallo scandalo di corruzione esploso intorno ai fondi di Petrocaribe, il programma venezuelano mirato a far giungere carburante a basso costo nel mediterraneo caraibico. A partire dalla dura repressione ordinata dal governo dell’allora presidente Moïse contro i manifestanti, l’instabilità si è impadronita del paese.
Tra il 2019 e il 2022 gli omicidi perpetrati dalle gang sono aumentati del 90%, e i sequestri estorsivi del 1642%. Quello dei sequestri è altresì uno strumento di pressione nei confronti di politici e cooperanti internazionali, obbligati spesso a cedere o condividere fette importanti di potere con le organizzazioni criminali.
Dopo l’omicidio di Moïse il numero di rifugiati interni si è quintuplicato, e i flussi migratori verso la Repubblica Dominicana e gli Usa sono stati sistematicamente respinti, spesso con l’uso della forza. Secondo l’Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, Volker Türk, dall’inizio di quest’anno sono già state assassinate 1.200 persone.
L’economia
L’economia haitiana inoltre è profondamente dipendente dall’estero. Le rimesse degli emigrati rappresentano il 30% del Pil, e i prestiti e gli aiuti umanitari coprono un altro terzo del prodotto interno. Il 50% degli alimenti che consuma la popolazione è importato. Nel caso del riso, base della dieta degli haitiani, le importazioni rappresentano più dell’80% del consumo.
In questo contesto, la preoccupazione per la situazione haitiana è alta. Il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha già organizzato una riunione per affrontare la questione, mentre a Washington la possibilità di anticipare le elezioni sembra prendere sempre più piede. Ad Haiti intanto sono già stati avviati i primi contatti tra leader dell’opposizione per accordare un piano per il post-Henry.
Haiti è sprofondata in una nuova crisi durante l’ultima settimana. Lo scorso sabato le gang che ormai controllano l’80% del territorio della capitale, Port-au-Prince, hanno preso d’assalto le due principali prigioni della città, liberando 3.696 reclusi. L’attacco è stato preceduto da sparatorie e incendi in diversi punti della capitale, e ha portato il governo a decretare lo stato d’emergenza durante 72 ore. Eppure, a poche ore dal raid contro il servizio penitenziario, un nuovo attacco è stato registrato lunedì 4 marzo contro l’aeroporto internazionale Toussaint Louverture, che è stato chiuso al traffico aereo.
A guidare le operazioni del crimine organizzato è Jimmy Chérizier, alias “Barbecue”, un ex poliziotto oggi leader del sodalizio G9 an fanmi, (G9 e famiglia), la più grande federazione criminale del Paese, che già a settembre aveva dichiarato apertamente la guerra contro il primo ministro Ariel Henry chiedendone la rimozione. In un’improvvisata conferenza stampa questo martedì ha assicurato che se il governo non si dimette si scatenerà ad Haiti una guerra civile “e un genocidio”, i cui responsabili saranno Henry assieme ai propri alleati internazionali tra cui ha citato gli Usa, il Canada e la Francia.