Mentre le gang spadroneggiano a Port-au-Prince, la comunità internazionale cerca il modo di intervenire. Usa, Francia, Kenya, Repubblica Dominicana e Brasile tra i protagonisti del grattacapo haitiano nel sistema internazionale.
La crisi haitiana è ormai una questione internazionale. Dopo l’omicidio del presidente Jovenel Moïse nel luglio 2021 il paese è precipitato nel caos, e le gang criminali hanno preso il controllo di buona parte delle istituzioni: oggi gestiscono l’80% del territorio della capitale, e negli ultimi tre mesi hanno mantenuto chiuso con la forza l’aeroporto internazionale Toussaint Louverture e i principali punti di accesso della cooperazione internazionale, forzando anche le dimissioni del primo ministro Ariel Henry.
La situazione nel Paese, che era già il più povero del continente americano, è ora drammatica: tra gennaio e maggio sono state assassinate 2.500 persone; 4,5 milioni di haitiani soffrono di fame acuta e 1,4 milioni sono sull’orlo di fare la stessa fine a breve, secondo i dati dell’Onu; si calcola che nel 2024 circa 170.000 bambini hanno dovuto abbandonare le loro case, e che 2 minori su 3 hanno bisogno di assistenza umanitaria. In questo contesto, le istituzioni del paese sono letteralmente collassate: il parlamento virtualmente chiuso, non si possono celebrare elezioni dal 2016 e i servizi base sono ormai quasi inesistenti.
Sia durante la presidenza Moïse, sia durante il periodo di Henry, il sostegno internazionale è stato fondamentale per il mantenimento di governi che non solo erano duramente contestati dall’opinione pubblica haitiana, ma erano anche segnati da evidenti comportamenti antidemocratici, o legami con le gang criminali haitiane. L’istituzione incaricata di garantire una posizione comune delle principali potenze internazionali intorno alla situazione haitiana era il Core Group, istituito nel 2004 dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu e composto dagli ambasciatori a Port-au-Prince di Usa, Brasile, Canada, Francia, Germania, Spagna, Unione europea e l’Organizzazione degli Stati americani. Parigi, ex metropoli dell’epoca coloniale, ha sempre avuto un’influenza determinante sulle posizioni del Core Group, che fino al 2021 rappresentava la principale garanzia dell’autorità istituzionale haitiana. Ma, dopo aver sostenuto Henry decretando di fatto la rimozione di Claude Joseph come primo ministro dopo l’omicidio Moïse, il Core Group si è mantenuto in silenzio, lasciando che gli ambasciatori dei singoli paesi membri prendessero posizione sull’attualità haitiana. Fatto che ha portato molti analisti a pensare che esistano serie discrepanze intorno alla linea da seguire a riguardo, e che il punto a cui sono arrivati i fatti va molto al di là delle possibilità della diplomazia internazionale. L’ex ambasciatore Usa a Port-au-Prince, James Foley, ha addirittura definito l’attuale crisi umanitaria “il frutto delle scelte che abbiamo intrapreso”.
Gli Usa sono tra l’altro il paese più interessato a contenere gli effetti della crisi. Con oltre 350.000 sfollati interni, Haiti è una bomba pronta ad esplodere sulla già fragile – e fortemente contestata – politica per la contenzione dell’immigrazione in Centroamerica del presidente Biden. Che nel passato recente non ha mostrato molte reticenze nel continuare la politica di espulsione e rimpatrio dei migranti haitiani inaugurata dall’ex presidente Trump. Ma oltre a rappresentare un imbarazzante problema politico in vista delle elezioni di novembre, per Washington, Haiti è anche una minaccia dal punto di vista della sicurezza: il rafforzamento del potere delle gang ha alimentato il traffico di armi verso l’isola, la maggioranza di fabbricazione statunitense, nonostante l’embargo internazionale imposto nel 2022; le indagini hanno inoltre dimostrato che il commando che ha assassinato il presidente Moïse è stato assoldato in Florida da alcuni membri di spicco della diaspora haitiana.
Per Biden la “questione Haiti” richiede un’azione urgente, ma non è disposto ad utilizzare le proprie forze per farlo: il ricordo degli scandali legati alla Missione di stabilizzazione delle Nazioni Unite ad Haiti (Minustah, presente nel paese dal 2004 al 2017), la forza multinazionale dell’Onu accusata di favorire la prostituzione minorile e di introdurre un focolaio di colera che uccise 9.000 haitiani, è ancora molto vivido. Washington e Parigi condividono poi un tetro retroscena sulla questione haitiana: così come la Francia è ricordata come il paese colonizzatore, che ha messo in ginocchio l’economia haitiana imponendo con la forza costosissimi risarcimenti alla neonata Repubblica Nera e condizionandone lo sviluppo fino ai giorni nostri, Washington è responsabile della più lunga occupazione militare della storia dell’America Latina, avvenuta proprio ad Haiti tra il 1915 e il 1934, e di numerosi interventi armati finiti male.
Si apre così un nuovo dilemma: un intervento senza gli Usa nell’Emisfero Occidentale non avrebbe sufficiente credibilità internazionale, ma la Casa Bianca non vuole assumere i costi dell’ennesimo intervento. Biden, che a ottobre del 2023 è riuscito a far approvare al Consiglio di Sicurezza dell’Onu lo sbarco di una nuova missione multinazionale a Port-au-Prince, ha trovato anche il modo di delegare l’intervento diretto ad altri. A guidare la missione sarà il Kenya, paese particolarmente legato alla tradizione pan-africana, prospettiva storicamente radicata nella politica estera keniota e che porta il Paese ad intervenire a sostegno dei discendenti della diaspora africana nel mondo, includendo le nazioni afro-caraibiche come Haiti. Che nell’immaginario sociale africano, tra l’altro, risveglia importanti ardori: la Rivoluzione Haitiana del 1804 infatti sancì la creazione della prima repubblica nera del mondo, retta da ex schiavi di origine africana, un punto di riferimento storico per tutti i movimenti di liberazione africani. La missione, composta da 1.000 agenti in maggioranza kenioti inviati a supporto dei 9.000 poliziotti haitiani – per una popolazione di 11,6 milioni di persone – è sostenuta anche da Bahamas, Barbados (membri della Comunità dei Caraibi – Caricom), Benin (la cui popolazione condivide con gli haitiani l’antichissima cultura Yoruba), Chad e Bangladesh, e con l’appoggio delle forze di sicurezza di Cile, Paraguay, Giamaica, Granada, Burundi e Nigeria.
Il grande assente nella nuova coalizione per Haiti è il Brasile di Lula, che nel 2004 guidò con entusiasmo il dispiegamento della Minustah. Oggi però il Brasile possiede altri strumenti per proiettare la propria influenza sul sistema internazionale: Lula ospiterà quest’anno il G20 e si prepara a celebrare una storica Conferenza delle Parti sul Clima in Amazzonia nel 2025. La disastrosa esperienza della Minustah poi, serve come precedente negativo per il gigante sudamericano, la cui diplomazia si è anche dimostrata piuttosto scettica sulle possibilità di successo della missione a guida keniota. In ultimo c’è da sottolineare la sfiducia manifestata da parte del governo Lula nei confronti della cupola militare brasiliana, che tra il 2019 e il 2023 ha sostenuto apertamente il governo di estrema destra di Jair Bolsonaro: Augusto Heleno, comandante della Minustah vent’anni fa, divenne poi uno dei principali ministri del governo Bolsonaro – attualmente è anche imputato per il tentativo di golpe del gennaio del 2023 – insieme ad altri due comandanti dispiegati ad Haiti, Luiz Eduardo Ramos e Carlos Alberto dos Santos. Un ulteriore partecipazione ad una missione internazionale darebbe dunque maggior proiezione ad un settore esplicitamente contrario al suo operato.
Altro attore fondamentale nella crisi haitiana è la Repubblica Dominicana, con cui il paese condivide la sua unica frontiera terrestre: i due Paesi condividono infatti l’Isola Española nel Mar Caraibi. I rapporti però sono tutt’altro che positivi: Santo Domingo ha chiuso le frontiere e sospeso tutti i voli dall’inizio della crisi umanitaria, ha deportato 175.000 haitiani, e il presidente Luis Abinader, riconfermato alle elezioni dello scorso 19 maggio, ha cominciato la costruzione di un muro al confine in stile Trump.
Il mondo punta ora tutto all’intervento multinazionale, che però poco potrà fare per ristabilire l’ordine ad Haiti. Finora sono stati raccolti solo 60 dei 600 milioni di dollari che costerà lo sbarco della missione Onu; si stima che la polizia haitiana avrebbe bisogno di almeno 38.000 agenti per affrontare le gang locali, che di recente hanno sfoggiato sui social e nei media nuove e potentissime armi. Molti poliziotti locali preferiscono disertare, emigrare o addirittura unirsi alle fila del crimine organizzato, piuttosto che continuare a combatterlo. Il leader della coalizione di bande armate haitiane, Jimmy Chérizier, alias Barbecue, ha già lanciato la sfida contro la missione Onu e ha detto che i suoi uomini sono “pronti a combattere una lunga battaglia”.
A fine maggio il Consiglio di Transizione Presidenziale scelto dai rappresentanti dei principali partiti politici e organizzazioni civili haitiane ha raggiunto un accordo per nominare un nuovo primo ministro, Garry Conille, che ha già occupato l’incarico nel 2011 per poi assumere quello come Direttore Regionale per l’America Latina dell’Unicef. Il suo mandato è chiaro: ripristinare la sicurezza nel Paese e portarlo verso nuove elezioni entro il 2026. Date le attuali condizioni però, l’impresa sembra titanica.
La crisi haitiana è ormai una questione internazionale. Dopo l’omicidio del presidente Jovenel Moïse nel luglio 2021 il paese è precipitato nel caos, e le gang criminali hanno preso il controllo di buona parte delle istituzioni: oggi gestiscono l’80% del territorio della capitale, e negli ultimi tre mesi hanno mantenuto chiuso con la forza l’aeroporto internazionale Toussaint Louverture e i principali punti di accesso della cooperazione internazionale, forzando anche le dimissioni del primo ministro Ariel Henry.
La situazione nel Paese, che era già il più povero del continente americano, è ora drammatica: tra gennaio e maggio sono state assassinate 2.500 persone; 4,5 milioni di haitiani soffrono di fame acuta e 1,4 milioni sono sull’orlo di fare la stessa fine a breve, secondo i dati dell’Onu; si calcola che nel 2024 circa 170.000 bambini hanno dovuto abbandonare le loro case, e che 2 minori su 3 hanno bisogno di assistenza umanitaria. In questo contesto, le istituzioni del paese sono letteralmente collassate: il parlamento virtualmente chiuso, non si possono celebrare elezioni dal 2016 e i servizi base sono ormai quasi inesistenti.