Uno Stato prossimo al fallimento, dove le tensioni interne possono riesplodere da un momento all’altro. Un’azione internazionale decisa, coerente e duratura può salvarlo, e l’Italia ha dimostrato di poter dare molto sul campo libanese
Pur non avendo con il Libano gli stretti rapporti che caratterizzano la relazione della Francia con la componente libanese di religione maronita, l’Italia è intervenuta almeno tre volte negli ultimi quaranta anni per aiutare il “Paese dei cedri”, periodicamente sconvolto da episodi di una guerra civile a sfondo confessionale che di tanto in tanto si calma solo per riprendere poi all’improvviso con rinnovato ardore.
La prima volta, agli inizi degli anni ’80 del secolo scorso, fu l’invio a Beirut dei nostri bersaglieri che permise di evitare combattimenti urbani di grande entità, e di instradare verso il nuovo esilio di Tunisi Arafat ed i combattenti dell’OLP (l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina), già pronti a battersi strada per strada onde impedire l’ingresso dei soldati israeliani nella città divenuta la loro assediata roccaforte. Quella fu l’Operazione Libano 1, cui seguì a breve distanza di tempo la Libano 2, affidata ad una forza multinazionale composta da americani, francesi ed italiani − e caratterizzata anche da una simbolica presenza inglese − che negli intenti avrebbe dovuto far durare una sofferta tregua per un lasso di tempo che consentisse alle parti in contrasto di elaborare un accordo più solido.
Tra assassinii, attentati, auto bomba ed esplosioni non andò poi così ma i nostri seppero muoversi nel ginepraio di ben sedici milizie armate contrapposte, con una abilità ed un equilibrio tali da consentire loro di non dover registrare le massicce perdite che funestarono invece l’intervento francese e quello americano. Libano 1 e Libano 2, tra l’altro, furono le prime operazioni in cui consistenti contingenti delle Forze Armate italiane vennero impegnati all’estero in missioni di pace, superando tutte le interpretazioni in senso restrittivo dei dettami a riguardo della nostra Costituzione. Si trattò anche di operazioni che permisero alle qualità di umanità e buonsenso dei nostri soldati di evidenziarsi progressivamente in quella maniera che avrebbe poi portato i militari italiani ad essere considerati come i migliori peacekeepers del mondo.
La terza volta in cui intervenimmo fu nel tardo 2006 e questa volta l’intervento non fu soltanto politico militare ma anche economico e, prima di tutto, umanitario. Vi era infatti l’intera metà meridionale del Paese da ricostruire dopo che gli accaniti combattimenti fra le forze israeliane e quelle del movimento estremista sciita Hezbollah avevano portato alla distruzione di quasi tutti i centri abitati dell’area. Peggio ancora: le campagne erano costellate da decine di migliaia di piccole mine inesplose distribuite a ventaglio, dalle bombe a frammentazione che erano state usate senza risparmio nelle ultime fasi del conflitto, prima che le forze israeliane si ritirassero a Sud, oltre confine.
Tutto questo era aggravato infine dalle grosse difficoltà che le Nazioni Unite incontravano nel ristrutturare una forza di pace di interposizione che esisteva già ma che si era dimostrata chiaramente inadeguata al bisogno. In tale occasione l’intervento italiano a favore del Libano risultò importante dal punto di vista economico, decisivo nel settore politico militare e straordinario in quello umanitario. Il nostro aiuto finanziario fu infatti fondamentale per la ricostruzione del paese mentre un nutrito contingente militare italiano, inviato con tempestività in Libano per una Operazione che prese il nome di Leonte, costituì il nucleo duro intorno a cui poté articolarsi una riordinata forza di pace dell’Onu. Sul piano umanitario, inoltre, effettuammo una rapida e precisa azione di sminamento, integrata da lezioni impartite alla popolazione locale, ed in special modo ai bambini, sulla pericolosità dei residuati bellici.
Ora, dopo 14 anni, noi e le forze delle Nazioni Unite siamo ancora lì, schierati nel sud del Paese ove siamo riusciti a evitare una ripresa dei combattimenti anche nei momenti più oscuri di questo periodo, allorché i combattenti di Hezbollah filtravano a migliaia dal Libano in Siria per alimentare la locale, spietata guerra civile, con un flusso che non poteva mancare di allarmare Israele.
Purtroppo, dopo un periodo di apparente ripresa in cui Beirut, sgombrata dalle rovine, era stata integralmente ricostruita, la situazione del Libano è andata poi progressivamente deteriorandosi nel corso di questi ultimi anni. Una tendenza negativa cui hanno contribuito vari fattori.
In primo luogo l’instabilità della Siria che, anche se più da matrigna che da madre, aveva per anni ricoperto il ruolo di grande tutore del Libano, impedendo costantemente l’esplosione delle sue tensioni interne. Ha contribuito poi all’aggravamento della situazione anche l’acuirsi dei contrasti fra la movenza sciita e quella sunnita della religione islamica, rivelatosi rovinoso per la convivenza fra le molteplici fedi del paese. L’uccisione in un attentato del Primo Ministro Hariri ha in seguito tolto di mezzo il personaggio più importante per l’Arabia Saudita divenuta, dopo gli accordi di Taif, il vero garante della ripresa finanziaria libanese.
Sull’onda di una sfiducia progressivamente crescente si sono quindi accelerati tanto il processo di emigrazione della parte più qualificata della popolazione quanto quello di esportazione dei capitali con ogni mezzo, lecito o illecito. Il Paese si è così progressivamente impoverito, mentre la sua residuale classe dirigente non riusciva a far altro che esprimere compagini governative caratterizzate da estrema debolezza ed incapaci di frenare la corruzione dilagante. A completare il quadro ed a renderlo più tragico è infine sopravvenuta qualche tempo fa la terribile esplosione del porto, che ha distrutto i migliori quartieri di Beirut.
Ora il Libano è uno stato prossimo al fallimento, in cui le tensioni interne, alimentate da frustrazione, fame e vecchi rancori, possono riesplodere da un momento all’altro. Per salvarlo vi sarebbe bisogno di un’azione internazionale decisa, coerente, e capace di durare nel tempo. Nessuno però si muove, almeno per il momento. Perché non farlo noi, aiutando il Libano per la quarta volta ed assicurandone la sopravvivenza? Magari muovendoci insieme alla Francia, considerato anche come il recente trattato di Roma ci apra prospettive nuove di cooperazione transalpina ancora da esplorare integralmente. Il Medio Oriente, di cui il Libano è il cuore, si trova in fondo alle nostre porte e come disse qualche anno fa un nostro Ministro della Difesa “Quando il campo del tuo vicino è in fiamme è bene che anche tu corra a spegnerlo, se non altro per evitare che il fuoco si propaghi al tuo terreno”.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di gennaio/febbraio di eastwest.
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La prima volta, agli inizi degli anni ’80 del secolo scorso, fu l’invio a Beirut dei nostri bersaglieri che permise di evitare combattimenti urbani di grande entità, e di instradare verso il nuovo esilio di Tunisi Arafat ed i combattenti dell’OLP (l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina), già pronti a battersi strada per strada onde impedire l’ingresso dei soldati israeliani nella città divenuta la loro assediata roccaforte. Quella fu l’Operazione Libano 1, cui seguì a breve distanza di tempo la Libano 2, affidata ad una forza multinazionale composta da americani, francesi ed italiani − e caratterizzata anche da una simbolica presenza inglese − che negli intenti avrebbe dovuto far durare una sofferta tregua per un lasso di tempo che consentisse alle parti in contrasto di elaborare un accordo più solido.