In quattordici mesi, sia pure sostenuto dalle armi egiziane, dai droni cinesi provenienti dagli Emirati e da un buon numero di mercenari russi della Wagner, il generale di Bengasi Khalifa Haftar non è riuscito, come aveva sbandierato ai quattro venti, nel suo intento di entrare da trionfatore nel centro di Tripoli. Tuttavia sbaglierebbe chi pensasse che la sconfitta militare di Haftar, costretto a riparare nella base aerea di Jufra dove sono posizionati alcuni Mig russi, coincida ipso facto con la vittoria politica del Presidente del Governo di accordo nazionale, Fayez al-Serraj. Se c’è qualcuno che può cantare vittoria in questo momento è solo il Presidente turco, Recep Tayyip Erdogan che non intende abbandonare le sue mire egemoniche ed energetiche sulla Libia e il Mediterraneo orientale.
Giovedì scorso Serraj è volato a Tripoli per suggellare la liberazione di Tripoli con Erdogan che non ha mancato di mettere sul piatto quello che, secondo lui, dovrà essere il “dividendo della pace”. “Abbiamo concordato di allargare il nostro campo di cooperazione,” – ha spiegato Erdogan – “non abbandoneremo mai i nostri fratelli libici ai golpisti e ai mercenari; vogliamo aumentare la collaborazione anche nel Mediterraneo orientale con esplorazioni e trivellazioni”. Più chiaro di così… Nelle stesse ore, il vicepresidente del Governo di Tripoli, Ahmed Maitig, e il Ministro degli Esteri Siala erano a Mosca per manifestare la disponibilità a trattare con il Paese che negli ultimi mesi non ha mai fatto mancare il suo appoggio ad Haftar (sia pure solo con la Wagner) ma che non vuole drammatizzare troppo la situazione per poter rimanere ben saldo nel Paese anche in futuro.
La fine (per ora) delle operazioni militari ha riaperto la porta alla road map della conferenza di Berlino e al ritorno del formato 5+5 sul cessate-il-fuoco e l’embargo di armi. Venerdì 5 giugno una conversazione telefonica tra Angela Merkel e il Presidente libico Serraj, ha toccato questi temi. La Cancelliera tedesca ha mostrato il suo apprezzamento per la ripresa del dialogo tra le parti in conflitto in Libia su un possibile cessate-il-fuoco, condotto sotto l’egida Onu.
Dire che tutto è finito e che la pace è tornata in Libia sarebbe però un’eresia. La leadership politica e militare di Haftar esce gravemente compromessa dai 14 mesi di guerra civile. Già si parla a Bengasi di possibili “regime changes” con nomi di alti ufficiali che potrebbero raccogliere l’eredità di Haftar. Sulla carta l’uomo forte di Bengasi aveva un anno fa mezza Libia nelle sue mani e appariva come colui che poteva garantire unificazione del Paese e stabilità. Ma ha commesso una serie di errori imperdonabili: diserta la conferenza nazionale di pace del 16 aprile 2019, dà per scontato l’appoggio dei misuratini e dei salafiti che invece finiscono per sostenere Serraj. Quando l’offensiva langue chiedono aiuto alla Russia che manda i mercenari della Wagner, mossa che irrita gli americani fino a quel momento a favore di Haftar. In questa fase l’Italia inaugura una politica di equidistanza tra Tripoli e Bengasi che delude fortemente Serraj il quale si rivolge alla Turchia di Erdogan.
Ma il prezzo da pagare è salatissimo. Gli aiuti militari arrivano anche in maniera consistente ma solo dopo la firma il 27 novembre 2019 di un accordo sui confini marittimi che dà mano libera alla Turchia sulle trivellazioni di petrolio e gas nel Mediterraneo aprendo un contenzioso con le isole greche e Cipro. I due capisaldi per arrivare a Tripoli di Tarhuna e Waittia resistono. Ad Haftar non resta che ripiegare su Jufra. Le forze di Serraj a questo punto si attendono che anche Sirte passi a favore del Governo di alleanza nazionale per recuperare l’intera Tripolitania. Ma la situazione economica del Paese è drammatica: debiti alle stelle e una produzione di petrolio scesa da 1,2 milioni di barili al giorno a 90mila. Il clima perfetto per Russia e Turchia che possono giocare con calma e in silenzio il loro ruolo nel Paese. Il segretario di Stato americano Pompeo ha fatto finora il possibile per arginare Haftar ma ora è Trump che dovrà avere il coraggio di scegliere e dire qualche “no” all’Egitto e agli Emirati, i migliori alleati degli Stati Uniti sul fronte della lotta a Daesh.
In quattordici mesi, sia pure sostenuto dalle armi egiziane, dai droni cinesi provenienti dagli Emirati e da un buon numero di mercenari russi della Wagner, il generale di Bengasi Khalifa Haftar non è riuscito, come aveva sbandierato ai quattro venti, nel suo intento di entrare da trionfatore nel centro di Tripoli. Tuttavia sbaglierebbe chi pensasse che la sconfitta militare di Haftar, costretto a riparare nella base aerea di Jufra dove sono posizionati alcuni Mig russi, coincida ipso facto con la vittoria politica del Presidente del Governo di accordo nazionale, Fayez al-Serraj. Se c’è qualcuno che può cantare vittoria in questo momento è solo il Presidente turco, Recep Tayyip Erdogan che non intende abbandonare le sue mire egemoniche ed energetiche sulla Libia e il Mediterraneo orientale.
Giovedì scorso Serraj è volato a Tripoli per suggellare la liberazione di Tripoli con Erdogan che non ha mancato di mettere sul piatto quello che, secondo lui, dovrà essere il “dividendo della pace”. “Abbiamo concordato di allargare il nostro campo di cooperazione,” – ha spiegato Erdogan – “non abbandoneremo mai i nostri fratelli libici ai golpisti e ai mercenari; vogliamo aumentare la collaborazione anche nel Mediterraneo orientale con esplorazioni e trivellazioni”. Più chiaro di così… Nelle stesse ore, il vicepresidente del Governo di Tripoli, Ahmed Maitig, e il Ministro degli Esteri Siala erano a Mosca per manifestare la disponibilità a trattare con il Paese che negli ultimi mesi non ha mai fatto mancare il suo appoggio ad Haftar (sia pure solo con la Wagner) ma che non vuole drammatizzare troppo la situazione per poter rimanere ben saldo nel Paese anche in futuro.
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