Per l’accordo con l’Ue, Boris Johnson ha sacrificato l’Irlanda del Nord, deludendo gli Unionisti e alimentando il sogno di un’Irlanda unita
Si vive meglio nell’Irlanda del Nord o nella Repubblica? Fino a pochi mesi fa questa domanda era un tabù. Basti pensare che gli studi in materia sono pochissimi. Il più delle volte, infatti, l’Irlanda del Nord viene confrontata con il resto del Regno Unito. La Repubblica, invece, con gli altri Stati membri dell’Unione europea.
Che nelle scorse settimane il quesito abbia acceso il dibattito sul Queen’s Policy Engagement, portale della Queen’s University Belfast, racconta quanto le cose siano cambiate. La Brexit ha riacceso le questioni nazionali nel Regno Unito: la Scozia battaglia contro il Governo britannico per poter organizzare un nuovo referendum sull’indipendenza dopo quello del 2014 in cui vinsero i no e in Irlanda si inizia a parlare di un voto su una possibile unità politica dell’isola. E non è un caso che le due nazioni “ribelli” siano le stesse in cui, a differenza di Inghilterra e Galles, nel referendum del 2016 il Remain ebbe la meglio sul Leave.
Il confronto con l’Irlanda “del Sud”
Ad aprire il confronto su chi sta meglio tra i cittadini britannici che vivono in Irlanda del Nord e gli irlandesi “del Sud” è stato Graham Gudgin, professore all’Università di Cambridge e già consigliere dell’ex premier nordirlandese David Trimble. L’accademico ha dedicato al divario un’analisi sul Queen’s Policy Engagement e una lettera sul Financial Times. La sua tesi si può riassumere in un aspetto, quello legato al “vile denaro”: il benessere economico in Irlanda del Nord, maggiore rispetto a quello nella Repubblica (la sanità gioca un ruolo fondamentale), fa sì che la maggior parte delle persone desidera ancora rimanere nel Regno Unito. Le sue conclusioni si basano sui consumi, visto il prodotto interno lordo irlandese è “distorto” dalle multinazionali attratte dalla bassa tassazione.
Reddito, tasso di povertà, istruzione, mercato del lavoro, mobilità sociale, servizi sanitari e aspettativa di vita. Tanti indicatori della qualità della vita sono stati presentati per confutare il saggio del professor Gudgin. Il quotidiano The Irish Times, con sede a Dublino, si è spinto a collegare le affermazioni dell’accademico al suo sostegno alla Brexit.
Chi abbia ragione non è il fulcro della questione. Lo è il dato storico: oggi, a distanza di un secolo dalla nascita dell’Irlanda del Nord su richiesta della maggioranza protestante locale, si fanno comparazioni tra questa e la Repubblica (a prevalenza cattolica). Ma “Norn Iron”, come la chiamano da quelle parti, inizia a temere i fantasmi del suo passato.
Malcontento e criminalità
Sono già state ribattezzate “lenotti di Belfast”, quelle che a inizio aprile hanno visto i quartieri a maggioranza protestante della capitale nordirlandese diventare teatro di rivolte con autovetture incendiate, lanci di bottiglie molotov e sassaiole contro le forze dell’ordine. La miccia degli scontri pare essere stato un funerale, quello di Bobby Storey, l’ex membro dell’Ira. Si è svolto nel giugno dell’anno scorso, in violazione delle norme anti Covid-19, con una grande partecipazione popolare, oltre 2.000 persone. Presenti anche alcuni Ministri del Sinn Fein, il partito repubblicano cattolico un tempo contiguo alla milizia indipendentista irlandese. La decisione di non aprire un’inchiesta ha scatenato la rivolta popolare.
Il vicecapo della polizia, Jonathan Roberts, ha parlato di scene alle quali non si assisteva “da anni” e di tumulti organizzati: “Non arrivi con queste quantità di bombe molotov, razzi e petardi senza una pianificazione, quindi c’è stato un certo livello di preparazione e orchestrazione dietro”.
Chi? Forse le formazioni paramilitari unioniste che sono uscite deluse dalle trattative sulla Brexit e hanno annunciato a marzo il ritiro dai trattati di pace del Venerdì Santo del 1998, che posero fine ai Troubles. O forse gli eredi dell’Ira che dopo la Brexit hanno visto aumentare le reclute che sperano nel sogno di un’Irlanda unita. Impossibile non considerare anche la criminalità comune come parte del problema.
Ma gli scontri “ci ricordano che Brexit non vuol dire solo successo britannico sui vaccini”, ha commentato Antonio Villafranca, ISPI Director of Studies. “Per tenersi stretto il proprio partito – e più libere le mani nelle negoziazioni con il resto del mondo – [Boris] Johnson ha sacrificato l’Irlanda del Nord. Una dogana la separa oggi dal resto del Regno Unito. Ma il premier rischia di pagare per questa decisione. E alle porte ci sono anche le elezioni in una Scozia sempre più indipendentista”, ricorda l’esperto.
Probabilmente non è troppo azzardato parlare di tradimento dell’Irlanda del Nord da parte di Londra. In particolare del Partito unionista democratico, di destra e protestante, che aveva creduto nella Brexit per rafforzare i legami con il resto del Regno Unito oltreché con il Governo britannico.
Le ripercussioni della Brexit
Il tradimento è contenuto nel protocollo sull’Irlanda del Nord previsto dagli accordi sulla Brexit che garantisce la permanenza nordirlandese nel mercato comune e nell’unione doganale europea. Per evitare il ritorno di una frontiera doganale tra l’Irlanda del Nord e la Repubblica, condizione che avrebbe rappresentato una violazione degli accordi di pace, sono stati imposti controlli al confine marittimo tra l’Irlanda e il resto del Regno Unito.
Ma le conseguenze pratiche di quell’intesa sono state evidenti sin da subito. Come ha notato l’Ispi, le merci in arrivo a Belfast dalla madrepatria sono ora soggette a controlli doganali, il che ha causato penurie nei supermercati e difficoltà burocratiche. Ma soprattutto, i lealisti protestanti vedono messa in discussione la loro identità britannica: e temono che l’Irlanda del Nord possa un giorno riunirsi con la Repubblica di Dublino. Non è un caso che “ci sentiamo cittadini di serie B” sia un mantra gridato nelle piazze delle proteste nordirlandesi e che a questa prospettiva guardi con crescente favore il Sinn Féin che, puntando anche sul ribaltamento demografico tra cittadini cattolici e protestanti, spera di chiedere e ottenere un referendum per la riunificazione politica dell’isola.
Vista da Londra, la questione (nord)irlandese non sembra preoccupare troppo a livello elettorale, visto che gli eventi nell’isola non sembrano avere avuto impatti sulle scelte dei cittadini nelle urne né sui sondaggi. Tuttavia, oltre a quelle umane e materiali, il disimpegno del Governo britannico potrebbe avere (almeno) altre due conseguenze: lo scarso interessamento alla questione potrebbe tradursi, agli occhi degli elettori, in mancanza di competenza generale dell’esecutivo; uno stop all’accelerazione delle dinamiche nell’Anglosfera visto il recente rafforzamento degli interessi irlandesi-americani – basti pensare che il Presidente statunitense Joe Biden va fiero delle sue origini irlandese e non ne fa mai mistero, ricordandole anche quando parla di Brexit.
Per questo, diversi commentatori hanno messo in guardia il Governo di Londra dal fare concessioni in risposta agli scontri. Sarebbe un premio ai violenti e rischierebbe di esacerbare le tensioni e gli estremismi mettendo a rischio l’unità del Regno Unito. Meglio dialogare con Belfast, Dublino e Bruxelles per semplificare il protocollo, per esempio su questioni che riguardano animali, piante e generi alimentari.
Ma ciò significherebbe riconoscere che la Brexit non è ancora finita.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di maggio/giugno di eastwest.
Si vive meglio nell’Irlanda del Nord o nella Repubblica? Fino a pochi mesi fa questa domanda era un tabù. Basti pensare che gli studi in materia sono pochissimi. Il più delle volte, infatti, l’Irlanda del Nord viene confrontata con il resto del Regno Unito. La Repubblica, invece, con gli altri Stati membri dell’Unione europea.
Che nelle scorse settimane il quesito abbia acceso il dibattito sul Queen’s Policy Engagement, portale della Queen’s University Belfast, racconta quanto le cose siano cambiate. La Brexit ha riacceso le questioni nazionali nel Regno Unito: la Scozia battaglia contro il Governo britannico per poter organizzare un nuovo referendum sull’indipendenza dopo quello del 2014 in cui vinsero i no e in Irlanda si inizia a parlare di un voto su una possibile unità politica dell’isola. E non è un caso che le due nazioni “ribelli” siano le stesse in cui, a differenza di Inghilterra e Galles, nel referendum del 2016 il Remain ebbe la meglio sul Leave.
Il confronto con l’Irlanda “del Sud”
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