I successi militari dell’operazione antiterrorismo a guida francese e l’azione delle altre truppe europee non sono riusciti a fermare l’espansione dei gruppi jihadisti nel Sahel
Lo scorso 10 giugno, il Presidente francese Emmanuel Macron ha indetto una conferenza stampa per annunciare la necessità di dare corso a un graduale ritiro dell’operazione antiterrorismo Barkhane, che dal primo agosto 2014 ha integrato l’operazione Serval in Mali e l’operazione Épervier (presente in Ciad dal 1986).
Un mese dopo l’annuncio, in occasione del vertice del G5 Sahel, il capo dell’Eliseo ha ufficializzato il ritiro della missione attiva nella parte occidentale del Sahel, sotto il mandato di fornire assistenza e supporto alle forze armate del Mali in stretto coordinamento con i Paesi del G5 Sahel (Ciad, Niger, Mali, Burkina Faso e Mauritania) e con la missione multidimensionale integrata delle Nazioni Unite in Mali (MINUSMA).
Nello specifico, Macron ha chiarito i contorni del disimpegno dei suoi soldati dalla regione saheliana, spiegando che tra la fine del 2021 e l’inizio del 2022 chiuderanno le basi di Kidal, Tessalit e Timbuctu, nel nord del Mali. Mentre il contingente francese, che ora conta 5.100 uomini dispiegati tra Mali, Niger e Ciad, dovrebbe essere ridotto del 40%, diminuendo l’impegno della Francia a circa 2.500 unità.
Questi effettivi verranno concentrati nella cosiddetta zona dei tre confini di Mali, Niger e Burkina Faso per cercare di fermare l’espansione dei gruppi jihadisti verso il golfo di Guinea. La Barkhane è l’operazione di contrasto al terrorismo che ha ottenuto i risultati più significativi rispetto alle altre missioni attive nel Sahel. Tra il 2015 e il 2019 ha eliminato quasi 700 jihadisti e significativamente ridotto le capacità offensive dello Stato islamico nel grande Sahara (ISGS), che costituisce l’obiettivo prioritario delle operazioni antiterrorismo nella regione.
Nel giugno 2020, la Barkhane ha tolto definitivamente di scena uno dei terroristi più ricercati del mondo: l’emiro di al-Qaeda nel Maghreb islamico (AQMI), Abdelmalek Droukdel, alias Abu Mussab Abdelwadud. E due mesi e mezzo dopo ha annunciato l’uccisione di Abdel Hakim al-Sahrawi, considerato il numero due dell’ISGS. I militari francesi hanno anche eliminato altri due jihadisti di spicco: Abu Hassan al-Ansari e Yahia Abu al-Hammam, due dei cinque leader della coalizione qaedista Jama’ah Nusrah al-Islam wal-Muslimin (JNIM, Gruppo per il sostegno all’Islam e ai musulmani).
Tuttavia, i successi militari ottenuti dall’operazione a guida francese e l’azione delle altre truppe europee finora non sono riusciti a fermare l’insorgenza dei gruppi estremisti, che stanno effettuando attacchi sempre più frequenti e sofisticati contro i villaggi e le basi dei locali eserciti in Mali, Niger e Burkina Faso. Come confermato sul sito di Radio France International dal Capo di stato maggiore dell’esercito francese, il generale François Lecointre, secondo cui “il terrorismo islamico continua a diffondersi, a stabilire basi locali, a raggiungere una popolazione sempre più ampia, mentre le perdite subite dall’esercito e le uccisioni di civili dovute agli attacchi jihadisti sono ancora troppo elevate”.
Nel frattempo, il Sahel rimane una regione povera costretta a confrontarsi da più di otto anni con l’insorgenza di vari gruppi jihadisti, che dalla metà del 2016 hanno prodotto l’escalation più drammatica della violenza in Africa, come provano i dati pubblicati alla fine di luglio dal Centro di studi strategici sull’Africa (ACSS) con sede a Washington. Dati che indicano come negli ultimi dodici mesi, l’attività militante islamista nel Sahel è aumentata del 33%, con la maggior parte degli attacchi operati dal JNIM, in particolare dal Fronte di Liberazione del Macina, uno dei quattro gruppi qaedisti confluiti nel cartello di al-Qaeda nel Sahel.
Tutto questo ha sicuramente influito sulla decisione di Macron di ritirare i militari della Barkhane, insieme al fatto che, dopo otto anni di impegno sul campo e 55 vittime francesi, Parigi si è stancata di interpretare in assolo il ruolo di gendarme nel Sahel. Sulla scelta del presidente francese hanno pesato anche i due recenti colpi di Stato in Mali, nonostante tutti gli sforzi fatti dalla Barkhane per stabilizzare il Paese africano.
Ciononostante, Macron è perfettamente conscio che non potrà ritirarsi completamente dalla regione, la cui pronunciata instabilità potrebbe contaminare altri Stati africani. Per questo, se da un lato le truppe dell’operazione Barkhane entro il 2023 verranno ridotte della metà, i 500 commando delle forze speciali francesi della Task Force Sabre operativi nella regione, continueranno a dare la caccia ai terroristi.
La Francia inoltre continuerà a guidare il nuovo contingente interforze europeo Takuba (nella locale lingua tuareg “spada”), che lo scorso 2 aprile è diventato operativo in coordinamento con altre missioni internazionali, in particolare la MINUSMA, la missione delle Nazioni Unite di stabilizzazione del Mali, e l’U.S. Africom, il comando delle forze armate statunitensi per il continente africano.
La nuova Task Force sembra dunque lo strumento ideato da Macron per coinvolgere l’Europa nel Sahel, dove nonostante l’importante impiego di mezzi e il sacrificio in termini di vite umane, le forze francesi non sono riuscite a mantenere la stabilità del territorio. Tuttavia, nonostante si fossero inizialmente dichiarati favorevoli all’iniziativa d’oltralpe, non tutti gli undici Stati europei firmatari della dichiarazione di adesione hanno inviato unità operative sul terreno, mentre uno di essi, la Germania, ha rifiutato ben due volte la richiesta francese.
Il primo Paese a fornire un contributo concreto alla Task Force europea è stata l’Estonia, già da tempo impegnata in Mali al fianco della Francia nell’ambito dell’operazione Barkhane. Il contributo di Tallin allo sforzo francese consta di 95 unità, la metà delle quali appartengono a reparti di forze speciali. Altro Stato che non ha esitato a prendere parte alle operazioni della Takuba è la Repubblica Ceca, che ha schierato 60 effettivi, seguita dalla Svezia, che lo scorso febbraio ha inviato 150 operatori delle forze speciali, in aggiunta a tre elicotteri UH-60 e a un aereo da trasporto C-130J.
Agli assetti messi a disposizione da questi tre Paesi occorre aggiungere alcune unità di staff inviate da Portogallo, Belgio e Olanda. Nei prossimi mesi, secondo quanto riferito dal ministro della Difesa francese Florence Parly, Parigi attende l’arrivo di forze speciali da parte di Grecia, Ungheria, Ucraina e Danimarca. Finora, però, solo quest’ultima ha confermato la sua partecipazione, specificando che un contingente danese composto da circa 100 uomini, dovrebbe giungere in Mali a inizio 2022.
Alla missione europea interforze ha aderito anche l’Italia, che inizialmente non figurava tra gli 11 paesi firmatari della dichiarazione di sostegno. La partecipazione dei nostri soldati alla Takuba (200 unità, 20 mezzi terrestri e 8 mezzi aerei) è stata decisa in occasione del vertice bilaterale con la Francia, tenutosi a Napoli il 27 febbraio 2020, durante il quale, a seguito di una richiesta esplicita da parte di Macron, l’Italia ha annunciato la sua adesione.
La Takuba rappresenta un impegno piuttosto gravoso per i Paesi coinvolti, dato che riguarda le forze speciali dei rispettivi eserciti e prevede anche il loro coinvolgimento nelle operazioni militari sul campo. Mentre sta smobilitando l’operazione Barkhane, Macron quindi si troverà nella scomoda posizione di dover convincere gli alleati europei a proseguire e magari rafforzare la Takuba. E dovrà persuadere della bontà delle sue decisioni anche i Paesi del G5 Sahel, compresi i nuovi leader in Mali e Ciad, ai quali sta chiedendo di riformare il proprio Stato e cedere il potere a un governo civile e democratico.
Richieste difficili da veicolare mentre la Francia sta preparando il suo ritiro da un’area dove, secondo l’autorevole centro di analisi geopolitica Critical Threats, con base a Washington, potrebbe sorgere un nuovo proto-stato sul modello di quello che il defunto califfo Abu Bakr al-Baghdadi istituì in Siria e in Iraq.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di settembre/ottobre di eastwest.
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Un mese dopo l’annuncio, in occasione del vertice del G5 Sahel, il capo dell’Eliseo ha ufficializzato il ritiro della missione attiva nella parte occidentale del Sahel, sotto il mandato di fornire assistenza e supporto alle forze armate del Mali in stretto coordinamento con i Paesi del G5 Sahel (Ciad, Niger, Mali, Burkina Faso e Mauritania) e con la missione multidimensionale integrata delle Nazioni Unite in Mali (MINUSMA).