A confermarci le preoccupazioni dei militari durante la presidenza Trump è l’ultimo libro del giornalista Bob Woodward. Pare che il capo delle forze armate avesse anche avuto un paio di telefonate segrete con il suo omologo cinese
Lo Stato maggiore dell’esercito degli Stati Uniti lo ha fatto capire in più di un’occasione, ma adesso abbiamo la conferma: durante la presidenza Trump il timore di una guerra elettorale e per la tenuta democratica delle istituzioni era reale. A raccontarci il dietro le quinte delle preoccupazioni dei generali americani è “Peril”, l’ultimo libro di Bob Woodward, uno dei due giornalisti che rivelarono lo scandalo del Watergate, scritto in collaborazione con il collega del Washington Post Robert Costa.
La rivelazione più clamorosa contenuta nel libro è probabilmente quella relativa alla paura di una guerra con la Cina nell’imminenza delle elezioni o subito dopo, nelle settimane che separavano il giorno delle elezioni dall’uscita di scena di Trump. Per prevenire escalation pericolose, il capo di Stato Maggiore, il generale Mark Milley, fece “un paio di telefonate segrete” al suo omologo cinese, il generale Li Zuocheng, per rassicurarlo sul fatto che Washington non avrebbe colpito Pechino.
Le rivelazioni tratte dal libro
Secondo quanto riferito nel libro la prima telefonata risale al 30 ottobre 2020, quattro giorni prima delle elezioni, mentre la seconda è dell’8 gennaio, due giorni dopo l’assalto della folla trumpiana al Congresso al grido di “elezioni rubate”.
Nella prima chiamata, che avveniva nel contesto delle crescenti tensioni nel Mar Cinese meridionale e dalle origini della pandemia di coronavirus, Milley avrebbe detto: “Voglio assicurarvi che il Governo americano è stabile e che tutto andrà bene. Non attaccheremo o condurremo alcuna operazione cinetica contro di voi”. Secondo quanto riferito, Milley ha anche detto al generale cinese che lo avrebbe avvertito in caso di attacco. Nel secondo colloquio Milley avrebbe detto: “Siamo stabili al 100%. È tutto ok. Ma la democrazia a volte può essere confusionaria”.
Non c’è solo questo nel libro. Due giorni dopo l’attacco al Campidoglio e la mancata concessione della vittoria a Biden da parte di Trump, Milley convocò una riunione segreta nel suo ufficio del Pentagono per ripercorrere le tappe del processo istituzionale per l’azione militare, compreso il lancio di armi nucleari. Parlando con alti ufficiali militari incaricati del National Military Command Center, la sala di guerra del Pentagono, Milley intimò loro di non prendere ordini da nessuno a meno che non fosse coinvolto anche lui. “Non importa quello che vi viene detto, seguite la procedura. E io faccio parte di quella procedura”, avrebbe detto Milley prima di fare il giro della stanza guardando ogni alto ufficiale negli occhi e chiedendo loro di confermare verbalmente che avevano capito. “Chiaro?” Milley chiedeva, “Sissignore” rispondevano gli ufficiali e “Milley considerava la risposta un giuramento”, scrivono Woodward e Costa.
Le anticipazioni del libro – che uscirà martedì prossimo – sono diverse. Ribadiamolo, sono occhi e orecchie in luoghi chiusi, ma i militari avevano già segnalato pubblicamente la loro preoccupazione. Il 12 gennaio scorso tutti i componenti del Joint Chief of Staff, 8 generali, uno per corpo più il capo, Milley, avevano firmato una lettera pubblica ai militari nella quale indicavano che le elezioni si erano svolte correttamente e che compito dell’esercito è stare fuori dalle dispute politiche e garantire la transizione senza intoppi. Milley aveva già avuto un duro alterco con il Presidente quando questi gli chiedeva di usare l’esercito contro le proteste di Black Lives Matter; lo stesso generale, si era scusato con il pubblico americano per aver accompagnato il Presidente nella passeggiata con la Bibbia davanti alla chiesa di Washington DC sgomberata dalla polizia il primo giugno 2020.
Nel libro scopriamo anche di come diversi membri dell’amministrazione Trump cercarono di dissuadere l’ex Presidente dal denunciare le frodi di cui non si aveva prova ed espressero preoccupazioni (ma in privato). A sostenere Trump nel suo delirio furono invece figure di ritorno come Steve Bannon, mentre il vicepresidente Mike Pence cercava di spiegargli di non avere il potere di non certificare il risultato elettorale (cosa che avveniva appunto il 6 gennaio, durante l’assalto a Capitol Hill). Il libro riporta gli scambi tra Pence e Trump (“Ho sbagliato a sceglierti, hai il potere di farlo – non certificare i risultati”) e la richiesta di consulenza che Pence fece all’ex vicepresidente di Reagan Dan Quayle. Pence chiese ripetutamente se c’era qualcosa che poteva fare. “Mike, non hai flessibilità. Nessuna. Zero. Lascia perdere”, gli disse Quayle che di fronte alle pressioni del vice di Trump – “Non sai la posizione in cui mi trovo” – rispose: “La conosco e conosco anche la legge. Devi certificare quel che il Congresso dice. Il tuo compito è quello. Non hai altri poteri”.
Negli ultimi suoi libri – questo è il terzo solo su Trump – Woodward è sembrato talvolta andare sopra le righe, fornire versioni discutibili e forse non tutto quel che è scritto in “Resist” è oro colato. Due cose però sono certe e il libro le conferma: i generali statunitensi erano davvero preoccupati che la democrazia fosse in pericolo e il 6 gennaio c’è stato davvero qualcosa che somigliava a un colpo di Stato da parte di un Presidente pericoloso e instabile. L’altra cosa che sappiamo è che fino a quando il Grand Old Party vivrà all’ombra di Trump, quel pericolo non sarà del tutto passato.
A confermarci le preoccupazioni dei militari durante la presidenza Trump è l’ultimo libro del giornalista Bob Woodward. Pare che il capo delle forze armate avesse anche avuto un paio di telefonate segrete con il suo omologo cinese