La nuova politica regionale di Riad – mediata dalla Cina – ha spinto anche Emirati e Qatar a riallacciare i rapporti tra loro. Inoltre, Riad gestisce i due luoghi islamici più importanti, Mecca e Medina. Ogni cambiamento che avviene qui influenza il mondo islamico in generale
Un asse diplomatico nuovo sta cambiando le regole di ingaggio in Medio Oriente. Un asse che parte da Pechino e, passando per Riad, attraversa e lega i paesi dell’area, finendo a Mosca. E riparte da qui, visto che la Russia ha sempre tenuto un piede nell’area. Un’asse reso possibile soprattutto da una assenza pesante: quella degli Stati Uniti che, in considerazione dell’impegno nel Pacifico per arginare la Cina, e distratta dal conflitto in Ucraina, si è disinteressata di un’area nella quale ha fatto, volente o nolente, il bello e cattivo tempo per anni. In maniera diretta o tramite delega a Israele.
In quest’asse, sia per questioni geografiche, che di interesse nell’area, che di autorevolezza pure legata alla religione, l’Arabia Saudita mantiene una sicura centralità. Sinistra per molti aspetti, legata soprattutto ai sotterranei e palesi rapporti che Riad intrattiene con molti degli “stati canaglia” dell’area e gruppi legati al terrorismo. Da un lato l’Arabia, per questioni storiche ma soprattutto economiche mantiene rapporti stretti con Washington dettati più alla necessità che altro, dall’altra non ha disdegnato ristringere relazioni, facendoli risiedere ai tavoli che contano, con Paesi come Iran e soprattutto Siria. Sinistra centralità che l’Arabia mantiene anche grazie alla longa manus di Pechino.
La longa manus di Pechino
La politica estera cinese da anni è stata incentrata sull’occupazione di luoghi e posti lasciati liberi da altri. Con una visione strategica che, a differenza di quella delle altre superpotenze, americani in testa, guarda lontano nel tempo invece che vicino. Un investimento a lungo termine. Come ad esempio quello fatto in Africa, diventando il continente una vera e propria colonia cinese lì dove Francia, Inghilterra ed altri la facevano da padroni. E così è avvenuto in Medio Oriente. Un esempio su tutti: Israele e Palestina. Il paese ebraico, sicuramente anche su spinta americana, ha sempre tenuto chiuse le sue porte agli investimenti cinesi. Niente accordi sui porti israeliani, niente accordi sulle centrali energetiche, come avviene in altri paesi, Italia compresa. Per cui gli interessi cinesi sono ricaduti sui territori palestinesi. Non tanto per l’importanza locale, ma per quella strategica nell’area.
Il Presidente palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) a maggio è stato in visita a Pechino. Per le sue pessime condizioni di salute, l’ottuagenario Presidente è stato anche ricoverato nella capitale del celeste impero. Incontrando il Presidente cinese Xi Jinping, Abu Mazen ha anche detto che quanto la Cina fa nello Xinjiang, la regione autonoma a maggioranza musulmana dove Pechino tiene il pugno duro con una vera e propria repressione degli uiguri musulmani turcofoni, non rientra nella questione dei diritti ma in quella della sicurezza. Legittimando di fatto, mutatis mutandis, quello che il governo israeliano dice per giustificare le azioni contro i palestinesi.
Il progetto diplomatico di Pechino
L’interesse di Pechino per il Medio Oriente e il Golfo non è nuovo. Non dimentichiamoci che l’Arabia Saudita è ora il più grande fornitore di petrolio della Cina, e la Cina è il più grande cliente di petrolio dell’Arabia Saudita, per giunta. Pechino, su spinta del Presidente Xi, ha messo in atto un nuovo progetto diplomatico, la Global Security Initiative, con la creazione di connessioni che mettono insieme “comunità dal destino condiviso” per un ambiente economico e sociale migliore. L’accordo che Pechino ha favorito (anche se i colloqui tra le parti erano già in fase avanzata) e che nella città cinese è stato firmato a marzo tra Iran e Arabia Saudita per riprendere le relazioni, rientra proprio in questa filosofia. Pechino ha fatto anche sapere di essere pronta a mediare anche tra Israele e Palestina, ribadendo la cosa anche durante la visita di Abu Mazen nella Terra di Mezzo. Riad, poco dopo la riconciliazione con Teheran, ha riallacciato i rapporti anche con la Siria, facendola partecipare al vertice arabo che si è tenuto proprio nel Paese dei Saud. Accordi che non hanno lasciato indifferente Israele.
Il riavvicinamento tra Arabia Saudita e Iran e uno sforzo generale di Riad per ricucire i legami con i suoi rivali regionali, hanno aperto la porta a un nuovo capitolo anche con Hamas. La notizia della visita di Abu Mazen ma, soprattutto, l’eventuale incontro e ripresa dei rapporti con Hamas, gruppo foraggiato da Teheran, rappresentano certamente un duro colpo per il governo di Benjamin Netanyahu. Quest’ultimo, fautore degli accordi di Abramo del 2020, con i quali ha stretto rapporti con Emirati Arabi e Bahrein nell’area, ha sempre puntato sull’allargamento ad altri paesi arabi delle relazioni.
Un duro colpo per Israele
L’Arabia Saudita, convitato di pietra in questi consessi, è il vero oggetto del desiderio di Netanyahu e sembrava che le cose andassero verso questa strada, con una fitta rete di relazioni sottobanco, apertura di spazi aerei e paventato inizio di un collegamento aereo tra Israele e l’Arabia in occasione del pellegrinaggio rituale o del mese di Ramadan. Cosa che, invece, è stata messa in stand by. L’apertura di Riad nei confronti di Teheran prima e di Damasco poi, nemici giurati di Israele nell’area, ha raffreddato le cose. Un incontro con Hamas rende tutto ancora più difficile.
Dopotutto, Riad intende riprendere la centralità nell’area, che ha perso nei confronti sia di Emirati, dal punto di vista di sviluppo e da quello economico, sia del Qatar. Proprio contro Doha mise in atto un boicottaggio durato anni. Il Qatar, da sempre, ha rapporti con l’Iran, anche perché condividono il giacimento di gas più grande al mondo. E Doha è anche il maggior finanziatore di Gaza, dove sostiene settimanalmente le famiglie dell’enclave strette nella morsa di Israele, Egitto e della stessa Autorità Nazionale Palestinese. Nella capitale qatariota, inoltre, c’è una vera e propria ambasciata di Hamas e qui trovano rifugio i suoi leader.
Netanyahu, dal canto suo, continua ad ostentare sicurezza. Lo ha fatto in una intervista alla americana CNBC, nella quale ha affermato che le preoccupazioni saudite sul terrorismo avrebbero superato le remore per la linea dura del suo governo sui palestinesi, il ripristino dei legami dell’Arabia Saudita con l’Iran ha “molto poco” a che fare con Israele e riguarda principalmente l’allentamento delle tensioni nella regione, in particolare nello Yemen. Nell’intervista, il premier ribalta totalmente la questione, spiegando che quelle mosse di riavvicinamento di Riad con Teheran e Damasco hanno lo scopo di inviare loro un messaggio in vista di un possibile accordo di pace con Israele. “Forse per dire loro che dovranno prepararsi, forse per provare a dire loro di smettere di fare il tipo di terrore che fomentano”, ha detto. Netanyahu ha ribadito la sua convinzione che la pace con l’Arabia Saudita porrebbe fine al più ampio conflitto arabo-israeliano, anche se ha ammesso che non risolverebbe immediatamente il conflitto con i palestinesi. Netanyahu ha affermato che Riad era molto consapevole dei vantaggi della collaborazione con Israele. “Abbiamo fatto molto bene da soli, ma possiamo fare molto meglio insieme”, ha detto. E sulla mediazione cinese, il premier ha glissato, dicendo che non ha mai ricevuto alcuna proposta formale da Pechino, che il dialogo con la Cina è sempre aperto, ma che si aspetta una maggiore presenza e peso americani nell’area.
I partner di Israele negli Accordi di Abramo, come il Bahrain, potrebbero seguire l’esempio dell’Arabia Saudita e ripristinare la normalità con l’Iran. Il Bahrein potrebbe agire per convincere le forze segrete iraniane a smettere di incitare il suo 80% di cittadini sciiti.
Washington e Riad
Ma non solo arabi. Riad è stata al centro di importanti visite internazionali, a cominciare da quella del Segretario di Stato americano Blinken, corso dai Saud agli inizi di giugno, secondo alcuni proprio per mitigare l’influenza cinese che, giocoforza, è a scapito di quella americana nell’area.
Ma perché Riad? Perché da qui parte il petrolio, che ancora muove il mondo. I sauditi hanno più volte dichiarato di voler ridurre la produzione di petrolio, cosa che potrebbe aggiungere tensione al rapporto con Washington. Gli obiettivi del viaggio di Blinken sono stati anche di riconquistare influenza con Riad sui prezzi del greggio, respingere l’influenza cinese e russa nella regione e promuovere la normalizzazione dei legami sauditi-israeliani. Le tensioni tra i due Paesi si erano innalzate nel 2019 quando il Presidente Biden, durante la sua campagna elettorale per la presidenza, aveva definito Riyadh “pariah“ e li avrebbe trattati di conseguenza se fosse stato eletto. Subito dopo essere entrato in carica nel 2021, Biden aveva poi rilasciato una dichiarazione sostenendo che in base ad alcune rivelazioni dell’intelligence statunitense sarebbe stato il principe ereditario saudita ad approvare l’operazione per catturare e uccidere il giornalista e editorialista del Washington Post, Jamal Khashoggi, nel 2018. La situazione è leggermente migliorata nel luglio 2022 con la visita di Biden nel Regno Saudita. Un’ulteriore visita ad alto livello si è avuta lo scorso 7 maggio, quando il consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca, Jake Sullivan, si è recato in Arabia Saudita. Ma a Riad ha fatto visita anche chi con gli Usa ha poco a vedere, come i cinesi. Il Presidente venezuelano, Nicolas Maduro, è stato pochi giorni prima di Blinken in Arabia Saudita per una visita ufficiale. Il Venezuela ha in precedenza cercato il sostegno dell’Arabia Saudita per le sanzioni statunitensi, imposte dall’ex presidente Donald Trump ma allentate dal suo successore, Joe Biden. Tuttavia, per revocare le sanzioni, Washington chiede al Venezuela di compiere passi concreti verso libere elezioni.
Venezuela e Arabia Saudita sono i Paesi con le maggiori riserve accertate di petrolio. Entrambi hanno un rapporto bilaterale di lunga data, rafforzato dalla loro partecipazione all’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio (OPEC), di cui entrambi sono membri fondatori. In termini di relazioni saudite-venezuelane, i due Paesi mantengono le rispettive ambasciate. Non hanno relazioni commerciali significative. Nel 2021, le esportazioni dell’Arabia Saudita in Venezuela ammontavano a soli 1,91 milioni di dollari, mentre il Venezuela ha esportato solo 508.000 dollari nel regno, secondo l’Osservatorio della complessità economica con sede negli Stati Uniti. Dopo la riunione OPEC+ di giugno, l’Arabia Saudita si è impegnata a tagliare 1 milione di barili al giorno di petrolio dalla sua produzione a partire da luglio.
La centralità di Riad nell’area ha spinto anche Emirati e Qatar a riallacciare i rapporti tra loro, dopo che lo hanno fatto i sauditi, che furono i fautori del boicottaggio qatariota. Una centralità che oramai è riconosciuta e verso la quale, giocoforza, guarda Israele, che sarebbe pronto a fare concessioni ai palestinesi pur di stringere rapporti con i sauditi. Ai quali gli armamenti israeliani fanno molta gola.
Il Medioriente ha bisogno dell’America
Il momento politico israeliano certo non aiuta. Le manifestazioni, che hanno superato le venti settimane, che ogni sabato vedono migliaia di israeliani scendere in piazza contro la riforma della giustizia voluta da Netanyahu; gli scontri nei territori dovuti ai continui raid dell’esercito nelle città palestinesi che stanno facendo diventare il 2023 uno degli anni con il peggior bilancio di vittime dall’inizio del conflitto tra i due, non favoriscono i riavvicinamenti. I nemici di Israele vicini ai suoi confini, che l’Iran sostiene – Hezbollah, Hamas e la Jihad islamica palestinese –, spinti anche da una continua propaganda in tal senso di Teheran, potrebbero credere che Israele sia ora più vulnerabile, specialmente con la discordia interna israeliana che raggiunge il culmine e sfida la sua coesione nazionale. Inoltre, sapere che l’alleato più importante di Israele, gli Stati Uniti, è sminuito agli occhi del Medio Oriente a causa dell’influenza della Cina, aumenta i rischi che correranno i gruppi filo Teheran, con possibilità di errori di calcolo e violenza. La percezione di Israele come indebolito non è mai positiva per l’America o per l’Occidente.
La Cina farebbe anche pressioni su Israele affinché non destabilizzi la regione con azioni preventive sul territorio iraniano, ora che le vendite di petrolio dall’Arabia Saudita e dall’Iran, la linfa vitale dell’economia cinese, sono più sicure. Per diversi analisti, questo sarebbe un eccellente colpo da parte di Cina e Iran per minare la normalizzazione saudita-americana e saudita-israeliana. Aiuta a salvare Teheran dal freddo e mina gli sforzi americani e israeliani per costruire una coalizione regionale per affrontare l’Iran mentre è sempre più avanzato il suo sviluppo di armi nucleari.
L’assenza di Washington si fa sentire, anche perché, come detto, l’interesse di Pechino è strategico e legato al petrolio, mentre i sauditi rivendicano un posto predominante. Ma in caso di scontro vero tra Israele e Iran, difficile che saltino gli accordi di Abramo o che si intromettano gli altri. Pechino e Riad potrebbero giocare da pacieri, ma significherebbe esporsi, riconoscere, in qualche modo Israele. Gli Stati Uniti devono riprendere il loro ruolo centrale nell’area, riprendendo un ruolo attivo sia con Israele che con l’Arabia Saudita. Anche perchè le relazioni con i sauditi, oltre che favori economici, portano a un importante soft power. Non dimentichiamoci che Riad gestisce i primi due luoghi islamici più importanti, Mecca e Medina. Ogni cambiamento che avviene qui (pensiamo ad esempio alle modernizzazioni che il principe saudita ha messo in campo) influenza il mondo islamico in generale. Il Medio Oriente ha bisogno dell’America tanto quanto dei Sauditi.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di Luglio/Settembre di eastwest
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Un asse diplomatico nuovo sta cambiando le regole di ingaggio in Medio Oriente. Un asse che parte da Pechino e, passando per Riad, attraversa e lega i paesi dell’area, finendo a Mosca. E riparte da qui, visto che la Russia ha sempre tenuto un piede nell’area. Un’asse reso possibile soprattutto da una assenza pesante: quella degli Stati Uniti che, in considerazione dell’impegno nel Pacifico per arginare la Cina, e distratta dal conflitto in Ucraina, si è disinteressata di un’area nella quale ha fatto, volente o nolente, il bello e cattivo tempo per anni. In maniera diretta o tramite delega a Israele.
In quest’asse, sia per questioni geografiche, che di interesse nell’area, che di autorevolezza pure legata alla religione, l’Arabia Saudita mantiene una sicura centralità. Sinistra per molti aspetti, legata soprattutto ai sotterranei e palesi rapporti che Riad intrattiene con molti degli “stati canaglia” dell’area e gruppi legati al terrorismo. Da un lato l’Arabia, per questioni storiche ma soprattutto economiche mantiene rapporti stretti con Washington dettati più alla necessità che altro, dall’altra non ha disdegnato ristringere relazioni, facendoli risiedere ai tavoli che contano, con Paesi come Iran e soprattutto Siria. Sinistra centralità che l’Arabia mantiene anche grazie alla longa manus di Pechino.