L’economia mongola conta principalmente sul settore estrattivo e dipende in gran parte da Russia e Cina. Con la guerra in Ucraina la già lentissima ripresa si è paralizzata e ora Ulaanbaatar cerca alleati in Canada e Australia
Gli avvenimenti degli ultimi anni hanno messo in grave difficoltà le economie dei Paesi ex sovietici. La pandemia da Covid-19 e la guerra russo-ucraina sono andate prima a paralizzare e poi a colpire la ripresa in Eurasia, spegnendo le speranze di un brusco rimbalzo nel 2022 che tutti gli osservatori economici si aspettavano in virtù degli effetti della campagna vaccinale. In questo quadro a tinte fosche, però, spicca un Paese che sta soffrendo più di altri da questa commistione tra virus e guerra, collocato alla periferia del mondo ex sovietico e spesso dimenticato dai più: la Mongolia.
Una ripresa che stenta a decollare
L’economia mongola è fortemente dipendente dal commercio con l’estero. Contando principalmente sul settore estrattivo, il 2020 è stato devastante per le esportazioni del Paese, segnando una flessione del prodotto interno lordo pari al 4,6%, tirato in basso dal crollo della domanda di materie prime. A partire dall’aprile dello scorso anno Ulaanbaatar ha ricominciato a veder crescere la domanda dei propri prodotti sia all’interno sia all’estero, restando però ancorata a un asfittico 1,4% di crescita, un tasso ben più basso delle altre economie asiatiche.
La particolare posizione geografica della Mongolia, incassata tra due grandi Stati e senza sbocco sul mare, ha limitato la capacità del Paese di accedere al commercio internazionale evitando l’intermediazione cinese e russa. Questo elemento, che dalla caduta del comunismo ha spinto Ulaanbaatar a cercare una terza sponda nelle nazioni del blocco occidentale per sfuggire alla gabbia russo-cinese, è emerso in tutta la sua criticità nel corso della pandemia da Covid-19, soprattutto a causa delle restrizioni agli spostamenti che Mosca e Pechino hanno imposto in base alle varie fasi di diffusione della malattia.
La guerra in Ucraina e gli effetti su Ulaanbaatar
Con l’avvio delle ostilità tra Russia e Ucraina il 24 febbraio, la Mongolia si è ritrovata spiazzata e confusa. Considerata da sempre come la sedicesima repubblica sovietica, uno Stato che in passato ha chiesto più volte di entrare a far parte dell’Urss pur non venendo mai accettato, la classe dirigente mongola ha molto interesse nelle questioni interne alla Russia. Questo perché Mosca ha rappresentato per molto tempo l’unico garante dell’indipendenza di Ulaanbaatar di fronte alla pressione economica, politica e demografica della Cina.
Il Paese di Gengis Khan ha, tuttavia, importanti legami anche con Kiev. Il Presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha vissuto per anni nella città di Erdenet, la più grande miniera di rame a cielo aperto di tutta l’Asia, localizzata proprio in Mongolia. Il padre del comico-politico ucraino era impiegato nello stabilimento metallurgico sorto nei pressi della vena metallifera, a dimostrazione di quanto i lavoratori ucraini fossero integrati nel sistema non solo sovietico, ma anche dei Paesi satelliti, a cui Ulaanbaatar si è ascritta a pieno titolo per molto tempo.
Con la democratizzazione dello Stato dopo il crollo del Muro di Berlino, la società mongola si è progressivamente distaccata dall’adesione acritica al sistema russo-sovietico, ricercando nuovi modelli valoriali e di sviluppo a cui ispirarsi nell’Occidente, percepito come un egemone distante e quindi preferibile rispetto a Cina e Russia. Sebbene i legami economici e politici tra Mosca e Ulaanbaatar restino forti tutt’oggi, lo scoppio della guerra ha segnato una svolta nei sentimenti della popolazione mongola verso la Russia. Manifestazioni si sono tenute nella centralissima piazza Sukhbaatar, dove il sostegno alla causa ucraina è stato accompagnato da proteste nei confronti dell’ambasciatore russo in Mongolia, invocandone l’espulsione. Oltre a bandiere ucraine, sono presenti spesso anche bandiere buriate, calmucche e tuvane, a dimostrazione del fatto che resta vivo nella società mongola lo spirito di fratellanza con alcune delle minoranze etniche presenti in Russia, soprattutto alla luce delle accuse mosse verso Mosca di arruolare deliberatamente più soldati nelle repubbliche in cui sono maggiormente presenti etnie diverse da quella russa.
Sebbene la polizia mongola abbia mantenuto un atteggiamento generalmente ostile nei confronti di queste manifestazioni, la minor pressione dello Stato sulla società rispetto ai regimi autoritari dell’Asia centrale e della stessa Russia ha reso complicato evitare cortei e proteste. La maggior parte della popolazione resta a favore del vicino settentrionale, ma una quota non irrisoria dei cittadini mongoli sta iniziando a esprimere il proprio dissenso nei confronti delle scelte aggressive dell’Orso.
Pandemia in Cina: cosa cambia per la Mongolia
Proteste si sono avute non solo dopo lo scoppio della guerra, ma anche come conseguenza delle restrizioni dovute alla pandemia e della crisi economica che ne è conseguita in Mongolia. Il 7 aprile sono iniziate delle manifestazioni di piazza a Ulaanbaatar dove a esprimere malcontento sono stati i giovani. Stagnazione economica, un’imposizione fiscale eccessiva, poche opportunità di lavoro, sperequazione e richiesta di maggiore autonomia della magistratura hanno portato in questi giorni piazza Sukhbaatar a ospitare una tra le innumerevoli proteste che hanno segnato la storia della Mongolia democratica.
Il principale motivo che impedisce all’economia mongola di ripartire è legato al corso della pandemia in Cina, porta d’ingresso e uscita delle merci mongole verso l’oceano. A causa delle restrizioni applicate da Pechino negli ultimi mesi, in cui si è assistito a una recrudescenza nella diffusione del virus in molte regioni cinesi, Ulaanbaatar si è vista tagliare le richieste di forniture di materie prime dal Dragone, momentaneamente in panne, e contestualmente ha fatto difficoltà a esportare in altri Paesi dopo il blocco di molti porti cinesi. La dipendenza dal mercato del vicino meridionale è una problematica non solo mongola, ma interessa sempre più Paesi asiatici, diventati subfornitori della grande “fabbrica del mondo”.
Per tale motivo Ulaanbaatar ha intensificato le relazioni economiche con Mosca e con l’Occidente, soprattutto con grandi potenze minerarie come il Canada e l’Australia. I passi in avanti avutisi tra dicembre e gennaio con il colosso estrattivo Rio Tinto per lo sfruttamento congiunto della miniera di oro e rame Oyu Tolgoi, ad esempio, rappresenterà uno dei maggiori investimenti stranieri nel Paese asiatico per gli anni a venire. La geografia, tuttavia, limita fortemente la capacità mongola di svincolarsi dalla dipendenza sino-russa, condizionandone le scelte di sviluppo. Crisi e isolamento restano un pericolo concreto per Ulaanbaatar.
Gli avvenimenti degli ultimi anni hanno messo in grave difficoltà le economie dei Paesi ex sovietici. La pandemia da Covid-19 e la guerra russo-ucraina sono andate prima a paralizzare e poi a colpire la ripresa in Eurasia, spegnendo le speranze di un brusco rimbalzo nel 2022 che tutti gli osservatori economici si aspettavano in virtù degli effetti della campagna vaccinale. In questo quadro a tinte fosche, però, spicca un Paese che sta soffrendo più di altri da questa commistione tra virus e guerra, collocato alla periferia del mondo ex sovietico e spesso dimenticato dai più: la Mongolia.
L’economia mongola è fortemente dipendente dal commercio con l’estero. Contando principalmente sul settore estrattivo, il 2020 è stato devastante per le esportazioni del Paese, segnando una flessione del prodotto interno lordo pari al 4,6%, tirato in basso dal crollo della domanda di materie prime. A partire dall’aprile dello scorso anno Ulaanbaatar ha ricominciato a veder crescere la domanda dei propri prodotti sia all’interno sia all’estero, restando però ancorata a un asfittico 1,4% di crescita, un tasso ben più basso delle altre economie asiatiche.