L’Asean, riunita a Giacarta, cerca di svolgere il ruolo di mediazione e di soccorso alla popolazione civile in Myanmar, vista l’incapacità dell’Onu di intervenire
Si è svolto sabato a Giakarta, in Indonesia, l’atteso meeting tra i leader dell’Associazione delle nazioni del Sud-Est asiatico (Asean), per dibattere della situazione in Myanmar. Oltre ai rappresentanti di Brunei, Cambogia, Laos, Malesia, Filippine, Singapore, Thailandia e Vietnam, come membro effettivo dell’Associazione è stato invitato anche il generale Min Aung Hlaing, colui che nei fatti ha organizzato il golpe birmano.
Prima dell’incontro, in Myanmar e nella stessa Giacarta, hanno avuto luogo diverse manifestazioni, mentre oltre 4000 agenti hanno presidiato le strade di accesso al luogo del meeting. A dispetto di quanto ci si poteva aspettare dall’Asean, che ha fatto della “non ingerenza” negli affari interni dei Paesi membri uno dei capisaldi della propria azione, l’incontro di sabato non è stato privo di note positive.
Anche se in molti hanno criticato la presenza del generale birmano, in qualche modo legittimato nella sua autorità dall’invito a partecipare, i membri dell’Asean non si sono rivolti a Min Aung Hlaing come capo di Stato. Inoltre, la dichiarazione finale del summit, per quanto cauta, contiene alcuni punti importanti. L’Asean chiede la cessazione immediata della violenza fra le parti coinvolte, propone aiuti umanitari alla popolazione e ha dichiarato che invierà in Myanmar una missione di osservatori, con l’obiettivo di favorire il dialogo tra la giunta militare e il Nug, il Governo di unità nazionale che rappresenta il Parlamento eletto a novembre scorso, poi esautorato dal golpe del 1° febbraio.
Il Nug, che afferma di essere l’autorità legittima in Myanmar e non è stato invitato al summit, comprende figure pro-democrazia, membri dell’amministrazione di Aung San Suu Kyi e rappresentanti di gruppi etnici armati. I leader del Governo di unità nazionale hanno esortato i militari a “smettere di uccidere i civili” e a rilasciare gli oltre 3.000 prigionieri politici attualmente in carcere.
I regimi autoritari (Cambogia, Laos e Vietnam) si sono espressi contro le sanzioni al Myanmar, mentre più fermezza è emersa dalle parole di altri leader. “La violenza deve essere fermata e devono essere ripristinate la democrazia, la stabilità e la pace in Myanmar”, ha dichiarato il Presidente indonesiano Joko Widodo, mentre il Primo Ministro di Singapore Lee Hsien Loong ha invitato i militari a rilasciare il Presidente Win Myint e la leader politica Aung San Suu Kyi. Dal golpe militare di febbraio, oltre 700 persone sono rimaste uccise negli scontri e in numero degli sfollati è arrivato a 250.000.
Molti sono i regimi non democratici nel mondo e moltissimi in Asia, ma ciò che ha colpito l’opinione pubblica interna nelle ultime settimane è la brutalità della repressione, che non ha risparmiato civili e, tra questi, bambini e passanti palesemente non coinvolti nei combattimenti. Le immagini sono rimbalzate nelle nostre televisioni e sui social di tutto il mondo, costringendo la comunità internazionale a non disinteressarsi della situazione in Myanmar, pur scontando la paralisi dell’Onu, a causa del veto di Cina e Russia. Meno scontati i voti contrari alle sanzioni provenienti da Vietnam, Thailandia e dalla democrazia indiana. Possibile che si faccia ancora tanta fatica a far emergere la tutela dei diritti e dei valori fondamentali, nel diritto internazionale, accanto alle tradizionali logiche di potenza?
L’Asean, riunita a Giacarta, cerca di svolgere il ruolo di mediazione e di soccorso alla popolazione civile in Myanmar, vista l’incapacità dell’Onu di intervenire