L’esercito birmano riprende il controllo totale del Myanmar dopo dieci anni di illusione democratica. Ecco le ripercussioni interne e geopolitiche
Nel 1990, la neonata Lega nazionale per la democrazia vinse le elezioni conquistando circa il 90% dei seggi parlamentari disponibili. L’esercito birmano si rifiutò però di riconoscere l’esito del voto e Aung San Suu Kyi trascorse circa 15 dei successivi 20 anni agli arresti domiciliari nella sua residenza di Yangon. Trentuno anni dopo succede di nuovo: un golpe “costituzionale” disattende il risultato delle elezioni dello scorso 8 novembre e mette fine, dopo un decennio di speranze disattese, alla libertà del premio Nobel per la Pace 1991. Trentuno anni dopo succede di nuovo: il Myanmar interrompe la sua transizione democratica e fa un salto nel vuoto. Ma nel frattempo è cambiato tutto, dentro e fuori il Paese. Suu Kyi, 75 anni, viene guardata a vista stavolta nella sua abitazione di Naypyidaw. E il mondo, soprattutto occidentale, che si era chiuso in una visione manichea del Paese del Sud-est asiatico, a metà strada tra fiaba e distopia, si trova a dover fare i conti con una realtà complessa.
Il golpe “costituzionale”
I militari hanno aspettato fino all’ultimo. Poi, alla vigilia della prima sessione parlamentare della nuova legislatura, hanno agito. La consigliera di Stato Suu Kyi, il Presidente Win Mynt e decine di arresti tra politici ai vertici della Lega nazionale per la democrazia, attivisti e artisti sono stati arrestati. Il vice Presidente Mynt Swe, appena nominato Presidente ad interim, ha ceduto tutti i poteri al Tatmadaw (l’esercito birmano). Il capo delle forze armate, il generale Min Aung Hlaing, ha proclamato lo stato di emergenza per un anno e ha annunciato che si terranno “elezioni libere e regolari” al termine delle quali il potere sarà nuovamente trasferito.
In realtà, i militari non se n’erano mai andati. Le riforme adottate dal Governo di Thein Sein a partire dal 2010 avevano consentito a Suu Kyi di conquistare un seggio alle elezioni suppletive del 2012 e al suo partito di correre (e vincere) alle elezioni del 2015, con una progressiva condivisione dei poteri con la sfera politica e civile. Ma l’esercito ha sempre mantenuto il controllo del Paese. La costituzione del 2008 gli attribuisce di diritto tre Ministeri (Difesa, Affari interni e Affari di frontiera) e il 25% dei deputati del Parlamento. Ora che il nuovo Governo è composto per la maggior parte da Ministri già presenti nell’era Thein Sein e che i mezzi armati pattugliano i centri nevralgici della capitale politica Naypyidaw e di quella economica Yangon, appare chiaro anche ai più disattenti che l’esercito non se n’era mai andato.
Myint Swe ha difeso la mossa dei militari sostenendo che il golpe è “costituzionale” in quanto era in atto un “tentativo di usurpare la sovranità dello stato con mezzi illegali”. Secondo la costituzione birmana, i militari possono prendere il potere qualora credano che ci sia una “minaccia alla sicurezza nazionale” che possa causare “la disintegrazione dell’unione”. Secondo l’articolo 417, qualora fossero ravvisati questi rischi, il Presidente deve proclamare lo stato d’emergenza che si traduce automaticamente (articolo 418) nel trasferimento di tutti poteri al capo delle forze armate.
I motivi dietro l’offensiva militare
Non si può dire che il golpe non fosse nell’aria. La scorsa settimana erano arrivati aperti avvertimenti sia dal portavoce dell’esercito, Zaw Min Tun, che dal generale Hlaing. Alla base dell’azione ci sono le accuse di brogli elettorali durante il voto dello scorso novembre. Secondo l’esercito, il partito di Suu Kyi avrebbe tratto vantaggio da 10 milioni di voti falsi. A dire la verità, c’erano state perplessità anche a livello internazionale per l’esclusione dal diritto alle urne di alcune minoranze e soprattutto dei rifugiati rohingya. In tutto 17 partiti su oltre 90 andati alle urne hanno denunciato irregolarità ma la commissione elettorale ha sempre detto che non si erano verificati errori su una scala tale da poter parlare di frode.
La Corte suprema aveva deciso di rinviare di due mesi il suo pronunciamento sul ricorso dei militari, ma il suo orientamento sembrava essere quello di confermare l’esito elettorale, che aveva consegnato alla Lnd oltre l’80% dei seggi disponibili, 396 su 476, contro i 33 del Partito dell’unione della solidarietà e dello sviluppo, emanazione politica dell’esercito dal 1990. Una sconfitta di proporzioni inattese per il Tatmadaw, che a questo punto ha temuto di perdere il controllo del Paese, con una condivisione dei poteri che rischiava (ai suoi occhi) di diventare troppo squilibrata a favore della sfera civile. L’esercito ha dichiarato che l’obiettivo è quello di creare una “vera democrazia multipartitica” ma alla base del golpe sembra esserci soprattutto la paura che Suu Kyi potesse tentare la strada della riforma costituzionale, cancellando la regola contra personam che la esclude dalla possibilità di diventare presidente perché ha figli di nazionalità straniera.
C’è poi un elemento più personale. Hlaing, alla guida del Tatmadaw dal 2011 e account Facebook cancellato nel 2018 per le accuse di genocidio ai danni della minoranza rohingya, avrebbe dovuto ritirarsi quest’anno dall’esercito e non ha nascosto le sue ambizioni politiche. Nelle trattative, poi naufragate, con la Lnd, i militari avrebbero tentato di imporlo come Presidente. Dopo una tornata elettorale divenuta soprattutto un referendum popolare, come dice Giulia Sciorati di Ispi, Hlaing e le forze armate hanno temuto che Suu Kyi acquisisse troppo potere, accelerando una transizione democratica che era più che altro un compromesso forzato.
Le reazioni internazionali
Il Governo Lnd ha deluso molti negli ultimi cinque anni, soprattutto a livello internazionale. Chi si aspettava che Suu Kyi potesse di colpo trasformare la difficile coesistenza con l’esercito in una democrazia occidentale è stato deluso. In particolare dalle sue timidezze sui rohingya, tema sul quale la consigliere di stato è intervenuta all’Aja negando il genocidio. Nonostante questo, la condanna dell’azione militare e del suo arresto è stata unanime nel mondo occidentale. Dagli Stati Uniti sono arrivate le parole più decise. Dopo che l’ex segretario di Stato Mike Pompeo (contemporaneamente alle accuse di brogli di Donald Trump) aveva avanzato dubbi sulla legittimità del voto birmano, Joe Biden ha parlato di “attacco diretto alla transizione democratica” e ha intimato ai militari di “rinunciare immediatamente al potere”, paventando sanzioni. Sulla stessa linea l’Unione europea, mentre l’Onu ha convocato una riunione d’emergenza del Consiglio di sicurezza.
Il ruolo della Cina
Il Myanmar è uno snodo cruciale per gli assetti geopolitici dell’Asia sud-orientale. Qui la Cina sta sviluppando numerosi progetti in ambito Belt and Road, all’interno di un corridoio economico che ha lo scopo di garantire a Pechino l’accesso al golfo del Bengala (attraverso il porto di Kyaukpyu e la zona economica speciale limitrofa) e un miglioramento delle condizioni delle aree di confine, allo stesso tempo promuovendo lo sviluppo infrastrutturale birmano. A inizio 2020 Xi Jinping è stato in visita a Naypyidaw e per l’occasione sono stati firmati 38 memorandum of understanding, 29 dei quali però sono ancora da approvare. La pandemia ha rallentato lo sviluppo della cooperazione sinobirmana, insieme alla competizione commerciale del Giappone e a quella politico-difensivo dell’India. Dopo aver donato un sottomarino, nelle scorse settimane Nuova Delhi ha elargito al Myanmar un milione e mezzo di dosi del suo vaccino. Il Governo birmano ha stoppato l’approvazione del siero cinese e ha acquistato altre 30 milioni di dosi di quello prodotto da Serum.
Anche per questo, c’è chi ritiene che Pechino possa aver segretamente appoggiato il golpe. Solo poche settimane fa il Ministro degli Esteri Wang Yi ha iniziato dal Myanmar il suo tour nel Sud-est asiatico, incontrando anche esponenti del Tatmadaw. In realtà, il Dragone ha coltivato rapporti positivi con entrambe le fazioni. Xi e Suu Kyi (entrambi figli di padri rivoluzionari) si sono incontrati più volte e hanno parlato di un “legame di sangue” tra i due popoli. Con l’esercito non sono mancate alcune frizioni, in particolare sulla questione delle milizie armate di etnia cinese. Le forze armate birmane sospettano che Pechino le abbia in qualche modo sostenute, sottolineando il ritrovamento di armi cinesi tra le mani dei gruppi indipendentisti del Kachin, mentre in più occasioni delle bombe sono cadute in territorio cinese, causando anche una vittima nel 2017. La sensazione è che, più che parteggiare per una fazione o l’altra, a Pechino faccia comodo soprattutto la stabilità.
L’esercito birmano riprende il controllo totale del Myanmar dopo dieci anni di illusione democratica. Ecco le ripercussioni interne e geopolitiche
Nel 1990, la neonata Lega nazionale per la democrazia vinse le elezioni conquistando circa il 90% dei seggi parlamentari disponibili. L’esercito birmano si rifiutò però di riconoscere l’esito del voto e Aung San Suu Kyi trascorse circa 15 dei successivi 20 anni agli arresti domiciliari nella sua residenza di Yangon. Trentuno anni dopo succede di nuovo: un golpe “costituzionale” disattende il risultato delle elezioni dello scorso 8 novembre e mette fine, dopo un decennio di speranze disattese, alla libertà del premio Nobel per la Pace 1991. Trentuno anni dopo succede di nuovo: il Myanmar interrompe la sua transizione democratica e fa un salto nel vuoto. Ma nel frattempo è cambiato tutto, dentro e fuori il Paese. Suu Kyi, 75 anni, viene guardata a vista stavolta nella sua abitazione di Naypyidaw. E il mondo, soprattutto occidentale, che si era chiuso in una visione manichea del Paese del Sud-est asiatico, a metà strada tra fiaba e distopia, si trova a dover fare i conti con una realtà complessa.
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