Le potenze occidentali sono sempre più a favore di una riforma delle principali istituzioni internazionali, dalle Nazioni Unite al G20. Obiettivo: ridare vigore e autorevolezza
L’11 e il 12 Luglio, a Vilnius, si incontreranno i leader dei paesi membri dell’Alleanza Atlantica; i temi sul tavolo sono tanti, dall’appoggio a Kiev all’ingresso della Svezia, con un occhio verso le sfide future. L’invasione russa dell’Ucraina ha compattato l’Occidente e dato nuova forza alla NATO.
Se un paio di anni fa era stata definita come “cerebralmente morta”, adesso l’organizzazione è viva, vegeta e in espansione. La coesione emersa nel blocco Occidentale, però, non deve far pensare che siamo davanti ad un mondo più unito. Il conflitto, infatti, ha avuto un impatto generale profondamente diviso: ha radicalizzato la diffidenza e la competizione tra Usa e Cina; dato forza alla postura neutrale di molti stati, primo fra tutti l’India; lasciato scettici e frustrati molti paesi del Sud Globale. Agli occhi di questi ultimi, la guerra in Ucraina è una delle tante che affligge il mondo, e neanche la più letale. I doppi standard messi in campo dall’Occidente nell’assistenza, nell’accoglienza e nell’attenzione riservata agli ucraini non ha fatto altro che aumentare il risentimento di alcuni paesi. Ad oggi, circa 40 stati – quasi tutti appartenenti al Sud Globale – si sono si sono ripetutamente astenuti dal condannare le azioni di Putin. Rappresentano circa il 50% della popolazione mondiale e sono lo specchio di un sistema internazionale più diviso che mai.
Il futuro del mondo è a Sud
Se si guarda alle proiezioni demografiche e ai trend economici risalta subito che chi darà forma al mondo del futuro saranno proprio gli attori del Sud Globale. I paesi economicamente sviluppati affrontano condizioni demografiche sempre più difficili e si prevede che nel 2100 otto persone su dieci vivranno in Asia e in Africa. Di conseguenza, anche gli equilibri economici cambieranno profondamente: nel 2075 cinque delle sei maggiori economie mondiali saranno paesi in via di sviluppo.
Una buona parte dei paesi che compongono il Sud Globale non sono democrazie e non condividono i valori occidentali. Sono stati vittima del colonialismo europeo, dell’interventismo americano e delle politiche economiche del Washington Consensus. Questi aspetti rendono il consenso occidentale fragile e hanno spinto molti attori del Sud Globale tra le braccia di un rivale sistemico dell’Occidente, la Cina. Pechino ha trovato degli alleati con cui condividere l’obiettivo di riformare un sistema internazionale che, ora come ora, non rappresenta più gli equilibri di potere globali, e ancora meno quelli economici. Lo ha fatto facendo leva sulla storia – che ha visto anche la Cina vittima delle ambizioni di potere occidentale – e offrendo una partnership economica senza condizioni. Questo le ha permesso di attirare nella sua sfera di influenza tutti quegli attori del Sud volenterosi di seguire un modello di sviluppo slegato dai valori portati avanti da Europa e Stati Uniti, o che non si sentivano esclusi e “bullizzati” dalle istituzioni internazionali a guida occidentale.
Da tutto ciò emerge un’immagine molto chiara: è il momento di riformare il sistema internazionale in chiave più inclusiva. Per l’Occidente non si tratta solo di un obbligo morale, ma anche di una necessaria mossa strategica. Il primo passo per fare ciò è “attualizzare” le istituzioni internazionali in modo che siano più rappresentative del mondo presente e che verrà.
La volontà (e la paura) occidentale di riformare le Nazioni Unite
Dalla creazione delle Nazioni Unite dopo la Seconda Guerra Mondiale, i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza sono rimasti invariati. Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, Cina e Russia (ex Unione Sovietica) hanno il potere di veto, ovvero il monopolio sulle decisioni dell’organo. Infatti, il potere del Consiglio di sicurezza risiede nella sua capacità di approvare risoluzioni vincolanti, a differenza di quelle approvate dall’Assemblea generale. Oltre ai cinque seggi permanenti, il Consiglio comprende 10 membri non permanenti eletti per due anni, senza potere di veto. Col passare del tempo, questa architettura è diventata sempre più anacronistica, danneggiando l’autorevolezza dell’istituzione.
Lo scorso settembre, davanti ai leader uniti, Biden disse: “È giunto il momento che questa istituzione diventi più inclusiva”. A questa affermazione si è accompagnata la richiesta ai membri permanenti del Consiglio di Sicurezza di limitare l’uso del loro potere di veto a “rare situazioni straordinarie”. Da quel giorno, l’amministrazione Biden ha iniziato a lavorare ad un piano per la revisione dell’organo, sperando che una sua riforma possa riabilitare la fiducia e la sua efficacia. L’obiettivo sarebbe raggiungere un accordo prima dell’incontro annuale dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite a New York in autunno.
Linda Thomas-Greenfield, inviata del Presidente Biden alle Nazioni Unite, si sta confrontando a questo scopo con i diplomatici dei 193 Stati membri dell’organizzazione per sollecitare un feedback su una potenziale espansione del Consiglio. Nella proposta statunitense – non ufficiale – si parla di aggiungere circa 6 nuovi seggi permanenti al Consiglio; per loro, però, non sarà previsto nessun potere di veto. I candidati principali – sostenuti anche da Francia e UK – sono la Germania, il Giappone, l’India, il Brasile e almeno una nazione africana.
Sebbene l’idea che sia arrivato il momento di una riforma del Consiglio di Sicurezza sia condivisa, lo stesso non si può dire per le modalità e il risultato della riforma. Dalla sua nascita, il Consiglio è stato modificato solo una volta, quando negli anni ’60 sono stati aggiunti quattro seggi non permanenti. Tutti i tentativi più recenti di modificare l’organismo sono naufragati. Qualsiasi modifica richiede il consenso di almeno 128 dei 193 Stati membri e, poiché comporterebbe modifiche alla Carta delle Nazioni Unite, la ratifica di tutti i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza. Ciò significherebbe, ad esempio, inviare le modifiche al Senato degli Stati Uniti per l’approvazione. Probabilmente una battaglia persa in partenza.
Tra chi si opporrebbe fermamente all’allargamento dei membri permanenti del Consiglio di Sicurezza ci sarebbe anche la Cina. Infatti, per quanto Pechino supporti una riforma delle istituzioni internazionali per riequilibrare il potere decisionale, non avrebbe motivo di perdere il suo potere nel Consiglio di Sicurezza a discapito di India e Giappone, due dei candidati principali nonché rivali di Pechino.
Includere l’Africa nel G20
Le grandi fratture del sistema internazionale rendono il G20 – che riunisce 19 tra le maggiori economie del mondo insieme all’Unione Europea – più importante che mai. Il forum offre uno spazio per discutere i problemi di rilevanza globale condivisi, dalla sicurezza alimentare alla stabilità finanziaria, fino al cambiamento climatico.
Tuttavia, per quanto ambizioso, il G20 non è ancora un forum veramente globale: dalla sua nascita nel 1999, non è riuscito ad includere a dovere il continente africano, incredibilmente sottorappresentato. L’unico membro africano per ora è il Sudafrica. Di conseguenza, circa il 96% della popolazione africana – produttrice dell’85% del Pil del continente – non ha voce nel forum. Questa mancanza di rappresentanza è paradossale, essendo l’Africa uno degli attori chiave in molte delle principali sfide globali – come la transizione energetica, quella digitale e la lotta alle diseguaglianze. Vi sarebbe però un modo molto efficiente per colmare questa lacuna di rappresentanza: integrare l’Unione Africana (UA) nel G20. L’UA comprende quasi tutti i paesi africani e alzerebbe la rappresentatività del forum dal 65% della popolazione all’80%.
Il prossimo vertice del G-20 si terrà a settembre a Nuova Delhi e potrebbe essere un’occasione d’oro per sollevare la questione. L’India, attuale presidente del G-20, ha posto grande enfasi sull’inclusione del Sud Globale. Affinché l’UA possa accedere serve il sostegno da parte dei principali paesi del G-20. Non c’è un requisito formale di ammissibilità e nemmeno un processo per l’aggiunta di nuovi membri. Attualmente l’inclusione dell’UA gode di grande supporto, almeno sulla carta. Al vertice G20 di Bali nel 2022, Cina, Francia, Indonesia e Sudafrica hanno espresso pubblicamente il loro sostegno all’adesione all’UA; gli Stati Uniti si sono detti favorevoli durante il vertice Usa-Africa di dicembre 2022; ugualmente si son detti favorevoli anche Russia e Giappone; recentemente, si è espresso a favore anche il ministro degli Esteri tedesco, Annalena Baerbock.
Alla luce di tutte queste dichiarazioni il ritrovo del G20 a settembre potrebbe essere il momento opportuno per concretizzare. Un ulteriore impulso è dato dal fatto che la presidenza del G20 nei prossimi tre anni sarà detenuta da paesi del Sud globale: India quest’anno, Brasile nel 2024 e Sudafrica nel 2025. Se l’adesione all’UA venisse approvata durante il mandato dell’India, ciò costituirebbe un catalizzatore immediato per ulteriori iniziative del G20 rivolte ai paesi e alle regioni a basso-medio reddito nei due anni successivi.