Match Usa-Cina: arbitro Bruxelles
Nel loro scontro, Stati Uniti e Cina tirano l'Europa dalla propria parte. L'Unione si schiera o media?
Nel loro scontro, Stati Uniti e Cina tirano l’Europa dalla propria parte. L’Unione si schiera o media?
Sembra proprio che al Vecchio Continente siano rivolti i versi che Rudyard Kipling scriveva al figlio nel 1895 nella celeberrima poesia If: “Se saprai mantenere la testa quando tutti intorno a te / la perdono, e te ne fanno colpa. / Se saprai avere fiducia in te stesso quando tutti ne dubitano”.
Tutto sul tavolo negoziale è affollato dalle proposizioni condizionali: se la Brexit, l’Euro, Juncker… La grammatica dei dubbi impone a Bruxelles proprio di non perdere la testa, quando gli attacchi che subisce sono serrati, continui, provenienti da più parti.
Un esame anche sintetico dei tre attori in campo non lascia dubbi sulla possibilità che le mediazioni abbiano luogo. Cina, Stati Uniti ed Europa si contendono – senza altra concorrenza – il podio dei primati economici: Pil, import-export, origine e destinazione degli investimenti, supremazia finanziaria. In un’economia globalizzata è difficile immaginare che una flessione di un Paese non abbia ripercussioni negli altri. Tra le voci più eminenti, l’ultimo intervento di Mario Draghi al Parlamento Europeo non ha lasciato dubbi: la Cina può aiutare la ripresa dell’Europa e i suoi stimoli alla crescita vanno nella direzione giusta per sostenere la domanda interna. Ovviamente gli esportatori della Germania si sono sentiti rassicurati. Come previsto, la Cina ha ridotto il suo tasso di crescita, attestato l’anno scorso al 6,6%, il più basso dal 1990, cioè immediatamente dopo la repressione di Tian An Men e il breve isolamento internazionale. Protetta da cospicue riserve, Pechino dalla scorsa estate ha lanciato una serie di misure fiscali e monetarie espansive. L’ultima, all’inizio del 2019, ha ridotto l’ammontare delle riserve obbligatorie delle banche commerciali, liberando 117 miliardi di dollari che sono stati iniettati nel sistema economico.
Seppure di difficile misurazione, i dazi imposti alla Cina dall’amministrazione Trump hanno depresso la crescita e costretto Pechino a un ispido tavolo negoziale dove le contromisure si alterneranno alle concessioni. In realtà, secondo la tradizionale analisi dell’internazionalizzazione, il disequilibrio appare insostenibile: gli Stati Uniti importano dalla Cina beni per 506 miliardi di dollari (2017), mentre il flusso speculare si è fermato a 130 miliardi. Probabilmente l’imposizione di dazi sulle merci cinesi è una misura di breve respiro e intrisa di propaganda; non per questo non è dannosa per chi la subisce. Certamente non riattiverà le fabbriche negli Stati Uniti perché ci sarà sempre, per le multinazionali, qualche Paese alternativo alla Cina dove delocalizzare. Eppure il problema dello squilibrio commerciale permane. Le misure tariffarie sembrano una risposta sbagliata a un problema vero. In questa cornice, una mediazione europea sembrerebbe non solo possibile ma anche auspicabile. Ne guadagnerebbe la distensione, si rafforzerebbero gli scambi, aumenterebbe la ricchezza collettiva. Bruxelles ha le prerogative per cimentarsi: vanta una secolare amicizia con Washington e non registra frizioni eccessive con Pechino. Dovrebbe gestire una situazione complessa: “Senza tuttavia sembrare troppo buono, né parlare troppo saggio”, come scriveva Kipling.
Tuttavia, il percorso negoziale si presenta molto difficile e la strada della mediazione forse impraticabile. Sono due gli ostacoli principali: lo stato dell’Unione Europea e la volontà di Cina e Usa di assegnarle un ruolo.
Le basi ideologiche per la trattativa vanno rintracciate nei valori condivisi del libero mercato e nell’assenza di misure restrittive. Paradossalmente Xi Jinping ne è alfiere più di Trump, ma l’impianto sociale degli Stati Uniti non potrà essere rinnegato. La Cina inoltre si conferma come la principale destinazione degli investimenti produttivi, dunque un magnete imbattibile per le multinazionali americane. Oggi, nella catena del valore, tutte le economie sono maggiormente connesse e non sarebbe difficile far prevalere una win-win situation. L’alternativa sarebbe una tensione costante e la sconfitta di un contendente − un classico zero-sum-game − se non addirittura una perdita di entrambi. I requisiti per agire appartengono teoricamente al patrimonio di Bruxelles: autorevolezza, unità, gestione della complessità, forza e dimensioni.
Sono però rintracciabili nelle stanze della Commissione, nei vertici intergovernativi, nei banchi del parlamento? La risposta è deludente. Mai il prestigio dell’Europa ha conosciuto una flessione così marcata. La costruzione europea – che aveva acceso la speranza di una società vasta, libera, democratica – è ora divisa, senza prospettive, avvitata su se stessa. Molte critiche che la colpiscono – “Distorte dai furfanti per abbindolare gli sciocchi” – provengono da nazionalismi mai spenti, nemici dell’Europa e dell’integrazione. Altre sono pervase da un ragionato e amaro scetticismo. Quale autorevolezza si può vantare se la disoccupazione è alta, la disuguaglianza cresce, l’immigrazione è un problema irrisolvibile, i diritti umani vengono mantenuti ma non considerati un valore universale? Che unità si può mettere in campo quando su tutte le questioni internazionali prevalgono le divisioni?
L’immagine della Cina offre un ventaglio di posizioni tra Governi e opinioni pubbliche: Regno Unito e Scandinavia la criticano politicamente ma ne attraggono i capitali, la Germania si affida alle relazioni economiche, la Francia sventola la bandiera del Tibet e vende gli armamenti, l’Europa dell’est si astiene dalle critiche e ricerca i terminali della nuova Via della Seta. In Italia, i cittadini continuano a guardare con antipatia il made in China, mentre il Governo cerca una sponda economica. Risulta platealmente esiziale questa divisione per qualsiasi tentativo di mediazione. La forza militare è concentrata a Londra e Parigi: l’idea di metterla in comune è inverosimile. La solidità economica abita a Berlino, dove l’obiettivo è registrare avanzi commerciali con tutti, da Pechino a Washington, alla stessa Europa. “Se saprai fare un solo mucchio di tutte le tue fortune”: rivolto a Bruxelles, l’appello del poeta cade nel vuoto. L’Europa ha realizzato un compromesso straordinario, epocale, ammirevole tra capitalismo e democrazia. È ora impotente per avviarne uno tra Cina e Stati Uniti, anche perché i nuovi soggetti sono più ostici.
Le due potenze non sono verosimilmente interessate a una mediazione, tendono se mai a uno schieramento dell’Europa dalla loro parte. Rappresentano Stati ispirati da nazionalismo – seppure declinato in maniera differente – e non dimostrano intenzione di delegare competenze fuori dai propri confini, siano essi federali o Pechino-centrici. Non comprendono il trattato di Schengen, l’avventura della moneta unica, la tragedia della Grecia. Soprattutto, rimane loro oscuro come l’integrazione economica abbia prevalso su quella politica. Il senso autentico della disputa tra Cina e Stati Uniti risiede infatti sul terreno politico e strategico. I dazi, le conferenze stampa, i tweet appartengono a un arsenale necessario, probabilmente efficace, ma secondario. La vera partita riguarda gli assetti derivanti dall’emersione della Cina nella globalizzazione.
Dopo anni di crescita silenziosa – della quale hanno beneficiato in molti – il Dragone è abbastanza forte da riscuoterne i dividendi. Sono queste ambizioni a preoccupare la Casa Bianca. All’interno, la Cina ha lanciato un piano strategico – Made in China 2025 – che rivoluzionerà il suo impianto industriale, consegnando alla storia “la fabbrica del mondo” e proiettandola verso mete più sofisticate e redditizie. Sul versante internazionale mostra i muscoli e impugna il ramoscello d’ulivo nel Mar Cinese meridionale e lungo la titanica nuova Via della Seta. Da questi esiti dipenderanno gli assetti futuri. Una mediazione sarebbe possibile, ma richiederebbe unità e potenza politica, due asset che Bruxelles non è in grado di mettere in campo. Kissinger sosteneva che quando doveva interloquire con l’Europa, non conosceva il numero da comporre. Pechino vola direttamente a Berlino. Senza scatti in avanti, è possibile dunque che al caro, vecchio continente, venga lasciato un ruolo marginale dove, per ironia della storia, anche Kipling non sarà più un poeta europeo.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di marzo/aprile di eastwest.
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