Le dinamiche degli aiuti al terremoto in Turchia e Siria confermano la forte posizione della Russia: permette raid israeliani in Siria, ha convinto Gerusalemme a mandare aiuti, e ha nell’area anche una fonte di reclutamento per il proprio esercito
Il terremoto che il 6 febbraio scorso ha colpito Turchia e Siria, ha lasciato morte e distruzione. Ma ha anche mostrato un volto diverso in Medio Oriente, con due paesi certamente non amici, Israele e Siria, che hanno in qualche modo messo da parte ostilità. Non senza il tornaconto di paesi terzi, Russia in particolare.
Subito dopo il sisma, Israele aveva fatto sapere di aver ricevuto una richiesta da Damasco, giunta tramite Mosca, per fornire assistenza e soccorsi alla popolazione. Il premier Benjamin Netanyahu, in un gesto che a molti era sembrato estremamente significativo visti i rapporti tra i due Paesi, aveva dichiarato di essere pronto a inviare aiuti. “Israele ha ricevuto una richiesta da una fonte diplomatica per aiuti umanitari alla Siria, e io l’ho approvata”, aveva detto Netanyahu ai membri del suo partito, il Likud, aggiungendo che gli aiuti sarebbero stati inviati presto. Si sarebbe trattato di coperte, medicine, cibo e altri generi di prima necessità per alleviare le sofferenze delle popolazioni colpite. Netanyahu inoltre si sarebbe dichiarato disponibile ad accogliere anche i feriti. Tuttavia il quotidiano filogovernativo siriano Al Watan ha citato una fonte ufficiale secondo cui Damasco non avrebbe mai richiesto l’aiuto di Israele dopo il terremoto. Secondo altre fonti, la richiesta di assistenza a cui Netanyahu avrebbe fatto riferimento, sarebbe giunta dall’opposizione al governo di Assad e dai gruppi jihadisti nel nord-ovest del Paese.
Israele e Siria: un rapporto molto complicato
Dalla creazione dello stato di Israele nel 1948, il governo siriano non ha riconosciuto Israele e i due Paesi hanno combattuto diverse guerre. Ancora oggi sono numerosi i raid dell’aviazione israeliana in Siria, per colpire, secondo fonti militari israeliane, basi iraniane e di ribelli che minerebbero la sicurezza dello stato ebraico. Il confine sulle alture del Golan è uno dei più militarizzati dell’area e pochissime volte si è aperto per favorire cittadini di una parte e dall’altra, soprattutto drusi, permettendo così a famiglie divise di incontrarsi o a fedeli di partecipare a feste religiose.
Cosa sia veramente successo tra i due Paesi non è chiaro. Certo è che aiuti israeliani sono stati inviati in Siria, anche attraverso organizzazioni non governative che da anni lavorano sul territorio, e personale dell’esercito con la stella di Davide ha operato diverse operazioni di aiuto in Turchia.
Se i rapporti con la Siria sono estremamente complicati, quelli con la Turchia segnalano alti e bassi. Per Ankara, Israele si è mossa subito. D’altronde, specie di recente, i rapporti tra i due Paesi sono migliorati, anche grazie e visite reciproche di alto livello. Già all’indomani del terremoto il Ministro della Difesa israeliano, Yoav Gallant ha parlato con il suo omologo turco e la macchina degli aiuti è partita velocemente. Israele del resto, come ricorda un editoriale del Jerusalem Post, ha decenni di esperienza nel fornire aiuti a seguito di disastri naturali, inclusi molti terremoti, oltre a fornire squadre di ricerca e salvataggio e assistenza umanitaria, specialmente sotto la guida del Comando del Fronte Interno.
Gli interessi in comune di Israele e Turchia
In questo momento, i due Paesi sono vicini, hanno stretto di nuovo relazioni, i leader a tutti i livelli si chiamano e si parlano, dopo un periodo di grosso gelo. Una pacificazione fra i due è nel mutuo interesse, dal momento che hanno nemici e interessi in comune. Entrambi puntano a un ruolo prominente nell’area. Ankara, come pure l’Arabia Saudita, è interessata al controllo del terzo sito più sacro per l’Islam, la Spianata delle moschee di Gerusalemme, che attualmente è sotto controllo del Waqf, un’organizzazione controllata dal regno hashemita di Giordania. Per il “sultano” Erdogan, la possibilità di mettere le mani sulla Spianata rappresenterebbe sicuramente una grande vittoria interna ed esterna e spezzerebbe, nell’area l’influenza dei Paesi del Golfo, sauditi in testa, riportando ai fasti l’impero ottomano, sogno mai sopito del Presidente turco.
Non va dimenticato che tra Turchia e Israele, oltre all’interesse politico ed economico (Ankara guarda con estremo interesse alle trivellazioni, estrazioni e trasporto di gas dai giacimenti israeliani posti dinanzi alle sue coste), c’è anche quello militare. Entrambi i Paesi hanno nella Siria un nemico comune. Erdogan, dallo scoppio della guerra civile siriana nel 2011, si è schierato contro il governo di Assad, sostenendo gli oppositori e ospitando sul proprio territorio anche il quartier generale di questi, partecipando pure ad azioni militari. L’esercito turco ha occupato militarmente il nord della Siria e ha approfittato per portare avanti, sul territorio del Paese in guerra, operazioni contro i curdi. Israele, invece, è rimasto alla finestra, disinteressato alle vicende interne siriane e interessato più ai rapporti della Siria con l’Iran.
La mediazione della Russia
Il terremoto di febbraio ha un po’ stravolto le cose, facendo sotterrare l’ascia di guerra a tutti. Un’operazione certamente di facciata e sicuramente mediata dalla Russia di Putin, grande tessitrice e game master della situazione siriana. Mosca, infatti, funge spesso da public relation manager per Damasco e gli aiuti giunti dopo il terremoto, soprattutto dai paesi nemici, ne sono la prova. Dopotutto la Russia ha sempre garantito a Israele la possibilità di attaccare postazioni ostili, principalmente iraniane, in ogni angolo della Siria, facendo morti e danni. Mosca, nell’area, ha fatto una precisa scelta di campo: si è schierata con i “cattivi” per avere voce in capitolo e mediare con tutti per loro, oltre ad ottenere basi e punti di ascolto verso gli altri paesi. Come per la Siria, così è stato anche per la Palestina, uno dei pochi governi che hanno apertamente appoggiato l’invasione russa in Ucraina. La Russia è amica della Siria e dell’Autorità Nazionale Palestinese, ma per Israele è un importante alleato, vista la presenza in Israele di una nutrita componente ebraica russofona, che ha anche un partito politico e guida diverse città. Più per rispondere a questa esigenza che per venire incontro a Damasco, cercando una distensione, Israele si è mossa in aiuto delle popolazioni siriane colpite dal sisma.
È difficile che Netanyahu avrebbe fatto una fuga in avanti verso Damasco se non ci fosse stata la richiesta russa, anche se un segno di distensione verso la Siria potrebbe certamente aiutare nel soft power verso i Paesi arabi che il premier ha messo in campo da anni, e che è stato minato dalle recenti operazioni dell’esercito in Cisgiordania con la morte di decine di palestinesi e da nuovi accordi che potrebbero cambiare gli scenari. D’altro canto, la situazione così tragica e drammatica che la Siria vive, prima per anni di guerra civile, poi per il terremoto, può aver spinto a chiedere aiuti alla Russia che li avrebbe poi girati a tutti, Israele compreso.
Gli Accordi di Abramo
Scenari diversi, dicevamo. Benjamin Netanyahu ha sempre fatto degli accordi di Abramo, l’importante documento di cooperazione e di apertura di relazioni di Israele con Paesi arabi del Golfo e poi successivamente africani, una bandiera, intestandosi, congiuntamente all’ex Presidente americano Donald Trump, una incontestabile vittoria politica internazionale. Fino all’agosto 2020, infatti, Israele era isolatissimo nell’area, potendo contare solo sugli accordi post bellici sottoscritti con i vicini Giordania ed Egitto. Ma nessun altro paese islamico, soprattutto mediorientale o del Golfo, era propenso a stringere rapporti con lo Stato Ebraico, in particolare per l’annosa questione palestinese. Interessi economici, l’Expo di Dubai, necessità di scambi e armi, faccende legate anche ai sorvoli sia militari che civili, hanno però spinto prima Emirati Arabi e Bahrein, poi Marocco e Sudan, ad allacciare rapporti con Israele. Spingendosi anche oltre. Gli Emirati hanno sottoscritto una serie di accordi con Israele, soprattutto nel campo della sicurezza, dall’acquisto di armi e tecnologie alle esercitazioni congiunte; il Bahrein ha permesso la presenza israeliana nel proprio territorio a militari israeliani in servizio nella quinta flotta americana di stanza nel Golfo. Tra Gerusalemme e Abu Dhabi, inoltre, è in via di definizione un accordo di libero scambio che favorirà entrambe le economie.
Cosa ha stravolto i piani di Nethanyahu
Ma due cose hanno stravolto, nelle ultime settimane, i piani di Netanyahu. Gli Emirati hanno fatto sapere che non intendono procedere ad acquistare armi da Israele a causa della presenza dei due esponenti di destra nell’esecutivo. Presenza, che non permetterebbe a Netanyahu di avere il pieno controllo del gruppo di governo. Secondo rilevazioni della israeliana Channel 12, il Presidente degli Emirati, lo sceicco Mohamed bin Zayed, avrebbe detto a funzionari israeliani che “fino a quando non saremo sicuri che il primo Ministro Netanyahu abbia un governo che può controllare, non saremo in grado di operare congiuntamente”. La notizia è stata successivamente smentita dagli uffici del Premier israeliano, ma comunque ha fatto rumore nella politica interna ed esterna israeliana. Primo perché è arrivata pochi giorni dopo il pogrom che gruppi di coloni hanno organizzato ad Hawara, la cittadina palestinese nella quale due coloni sono stati uccisi da un membro di Hamas mentre erano in auto, il tutto inasprendo i rapporti già tesi. Situazione che ha reso vano il vertice di Aqaba nel quale, dopo anni, si sono incontrati servizi palestinesi e israeliani per discutere, arrivando a un accordo, un alleggerimento delle tensioni in vista delle feste religiose di Ramadan e della Pasqua ebraica. Ma soprattutto, a sparigliare la situazione, è stato l’incontro, mediato dalla Cina, tra Arabia Saudita e Iran che hanno ristabilito i loro rapporti diplomatici dopo sette anni, una mossa che rende più difficile per Netanyahu raggiungere il suo obiettivo di normalizzare i rapporti con l’Arabia Saudita. Netanyahu ha cercato di stringere quante più relazioni possibili con i Paesi islamici per ottenere internamente l’isolamento della Palestina, esternamente quello dell’Iran. Per questo si parlava da tempo di accordi e di uno stato avanzato di colloqui con l’Arabia Saudita. Il permesso, concesso solo poche settimane fa, ai voli israeliani di attraversare lo spazio aereo saudita, per accorciare le rotte verso l’Asia, India in particolare, aveva fatto ben sperare. Invece, l’accordo che Riad, mediato da Pechino, ha stretto con Teheran per la ripresa delle relazioni, ha gelato tutti. Al momento, nessun esponente del governo o della presidenza israeliana ha commentato l’accordo. Lo hanno solo fatto, condannandolo, i leader dell’opposizione, che hanno parlato di minaccia ad Israele. Una grana per Netanyahu, che deve affrontare problemi e contestazioni politiche interne, sia da parte dell’opposizione che di molti cittadini, ma anche di alcuni sodali; gelo sulle relazioni internazionali, una delle maggiori vittorie di Bibi degli ultimi anni.
Il premier israeliano, infatti, deve riscrivere la sua road map estera, alla luce dell’accordo saudita-iraniano. Sembrava avesse la strada spianata per aumentare la propria influenza nel Golfo, ed invece deve ricominciare da capo. E con la pesante situazione di contestazione interna a causa della riforma della giustizia, non è semplice.
La presenza nel suo esecutivo di estremisti antipalestinesi, che hanno incitato, più volte, la folla contro i residenti musulmani in Cisgiordania e inneggiato a uno stato esclusivamente di ebrei, certo non lo aiuta. La sponda ritrovata con Ankara può essere sicuramente un aiuto, ma non dimentichiamoci che Erdogan da sempre mira a un’influenza nell’area che cozza non solo con quella israeliana ma soprattutto con le potenze del Golfo. L’accordo tra Riad e Teheran è una coltellata alle spalle a Gerusalemme, la stessa che, come denunciò Mahmoud Abbas (Abu Mazen) fu inferta ai palestinesi dai Paesi del Golfo con la sottoscrizione degli Accordi di Abramo.
Se una cosa gli aiuti al terremoto hanno dimostrato è che nell’area non si muove foglia che la Russia non voglia. La sua influenza, nonostante la lunga e debilitante guerra in Ucraina, non è cambiata, avendo conquistato posizioni importanti. Dopotutto Mosca fa sentire forte il suo ascendente. Non solo continuando a permettere i raid israeliani in Siria, non solo convincendo Gerusalemme a mandare aiuti alla popolazione nemica, ma ha nell’area anche una fonte di reclutamento per il proprio esercito. Sono infatti numerosi i palestinesi residenti in Libano che hanno accettato di andare a combattere a favore della Russia, nel conflitto in corso con l’Ucraina, in cambio di circa 350 dollari al mese. Secondo fonti di stampa, si tratterebbe per lo più di palestinesi nati dopo il 1969, cioè coloro che nel paese dei cedri non hanno un’adeguata registrazione anagrafica presso le autorità libanesi, e quindi per loro è più facile viaggiare per andare a partecipare al conflitto come mercenari. La maggior parte dei palestinesi schierati in prima linea in Ucraina proverrebbe da Ein Al-Khalwa, il più grande campo profughi palestinese in Libano, situato a sud della città di Sidone, e sarebbero quasi tutti membri del movimento politico Fatah, guidato dal presidente dell’ANP Mahmoud Abbas.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di aprile/giugno di eastwest
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