Nato e Ue temono una nuova crisi umanitaria e l’invasione di profughi siriani, ma rimangono cauti. L’Italia resta in silenzio
La visita rituale del segretario della Nato, il norvegese Jens Stoltenberg, a Roma il 9 ottobre per incontrare il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte e il Ministro degli Esteri Luigi Di Maio in vista del vertice per i 70 anni dell’Alleanza atlantica a Londra il 3 dicembre prossimo, ha coinciso (purtroppo) con l’azione militare della Turchia in Siria.
Al di là di vaghi inviti alla moderazione e preoccupazioni per una nuova crisi umanitaria alle porte d’Europa il Governo italiano si è caratterizzato per una grande prudenza. Conte e Di Maio non hanno alzato più di tanto la voce. Come del resto non ha fatto neppure l’Europa. La Turchia è un membro della Nato ma i rapporti tra Roma e Ankara sono stati altalenanti, soprattutto dopo la grave crisi del 2007 quando il leader del PKK Ocalan trovò riparo proprio a Roma (per poi, alla fine, essere riconsegnato ai turchi) durante i primi passi che stava muovendo allora il Governo guidato da Massimo D’Alema.
Nel “grande gioco” della crisi siriana, e nella lotta per l’egemonia sul Mediterraneo con potenze che si chiamano Russia e Iran, l’Italia non ha mai brillato per scelte chiare e definitive. Si è concentrata soprattutto sulla Libia ma nel 2015 con Renzi premier e Roberta Pinotti alla Difesa alcuni punti fermi furono fissati: piena partecipazione alla coalizione anti-Daesh guidata dagli Stati Uniti ma nessun “boots on the ground” né in Libia né in Siria a differenza dell’Iraq dove oltre 700 uomini furono schierati a Erbil per l’addestramento delle forze irachene e circa 500 sulla diga di Mosul assediata dall’Isis. Ma fu fatto di più: nell’agosto del 2015, con il consenso del Parlamento, l’Italia consegnò ai peshmerga curdi dell’Iraq (una delle quattro declinazioni dei curdi oltre a quelli siriani, turchi e iraniani, in tutto quasi 40 milioni di persone) una consistente fornitura di armi corte e lancia granate custodite in un deposito della Marina militare della Maddalena dopo che erano state sequestrate su un cargo diretto nei Balcani al largo della Calabria.
Ma c’è di più: il 6 giugno del 2016 in gran segreto una batteria di missili terra-aria SAMP/T e una trentina di militari italiani furono schierati nella zona di Kahramanras, a nord di Gaziantep (Turchia meridionale), nell’ambito dell’impegno Nato per proteggere lo spazio aereo turco dal “rischio di sconfinamenti provenienti dalla Siria”. L’operazione “Active Fence” aveva una ragion d’essere quando in Siria infiammava la guerra civile e c’era rischio di infiltrazioni terroristiche.
Ma ora, ricordano molti parlamentari, a cominciare dal capogruppo Pd alla Commissione Esteri della Camera, Lia Quartapelle, la Turchia ha deciso in modo unilaterale e senza nessuna azione ostile da parte curda di attaccare e invadere la regione di Ras al-Ain. Nel suo incontro di oggi con il Presidente turco Tayyip Erdogan, il segretario della Nato è apparso molto cauto limitandosi a ricordare che le operazioni non devono causare danni alle popolazioni civili. Tutto nasce dal fatto che la Turchia come membro Nato deve potere contare sulla solidarietà atlantica da attacchi terroristici e minacce alla propria sicurezza.
E qui si entra nel campo delle ambiguità e del non detto. Perché i curdi siriani del YPG nascono come forza curda non abituata a combattere l’Isis tanto che tutte le prime file del suo esercito sono formate da esponenti del PKK (quello di Ocalan) che non solo per la Turchia ma per Stati Uniti, Nato e Unione Europea è considerata una sigla con forti connotati terroristici. Anche l’Europa resta quindi cauta ma è soprattutto preoccupata per l’invasione dei profughi siriani.
L’intenzione di Erdogan è di creare una zona cuscinetto di 30 km di profondità e lunga circa 480 km vicino a Rojava al confine con la Siria dove creare vere e proprie città dove concentrare i 3,5 milioni di profughi liberandosi dalle tendopoli che si trovano oggi sul territorio turco. Ma in quella zona nelle carceri curde sono attualmente reclusi 12mila combattenti dell’Isis catturati negli ultimi anni. Di questi circa 4mila sono foreign fighters venuti a combattere in Siria. E di questi, 2mila sono europei che nessun Paese della Ue vuole ora riprendere nel proprio Paese.
Insomma un dedalo inestricabile che dovrà essere discusso il 17 e 18 ottobre al Consiglio Europeo di Bruxelles. E per di più, in una delicata fase di passaggio al nuovo esecutivo comunitario mentre non c’è stato ancora un passaggio di consegne tra il vecchio Alto rappresentante per la politica estera e di Difesa europea Federica Mogherini e il nuovo, Josep Borrell.
E a Roma il nuovo Ministro degli Esteri deve ancora prendere un po’ di confidenza con i dossier più delicati…
@pelosigerardo
Nato e Ue temono una nuova crisi umanitaria e l’invasione di profughi siriani, ma rimangono cauti. L’Italia resta in silenzio