L’amministrazione Biden considera Pechino la principale minaccia militare per Washington. Se mai un conflitto tra le due potenze dovesse scoppiare, questo avverrà quasi sicuramente nell’Indo-Pacifico, in un teatro marittimo
Questo giovedì il segretario di Stato degli Stati Uniti, Antony Blinken, avrebbe dovuto esporre la strategia cinese dell’amministrazione di Joe Biden con un discorso alla George Washington University. Benché probabilmente modellata sulla base di quella della precedente amministrazione Trump – il cambiamento è stato finora di forma, più che di sostanza –, e benché contenente forse più indicazioni generali che approfondimenti specifici, la presentazione della policy è comunque un evento importantissimo, vista l’assoluta centralità della competizione con Pechino nella politica estera di Washington. Il discorso, però, è stato rimandato: Blinken è positivo al coronavirus.
La sfida tra America e Cina investe praticamente ogni aspetto delle relazioni tra gli Stati: la grandezza dell’economia, la leadership tecnologica, il primato scientifico, le regole di riferimento nei settori industriali, l’influenza politica, la forma dell’ordine internazionale, la superiorità bellica. Limitandoci a quest’ultima prospettiva, l’amministrazione Biden considera Pechino la principale minaccia militare per Washington. E se mai un conflitto tra le due potenze dovesse scoppiare, lo farà quasi sicuramente nell’Indo-Pacifico, in un teatro marittimo.
Mesi fa Kori Schake, analista all’American Enterprise Institute e già funzionaria presso gli apparati statunitensi, ha pubblicato un lungo intervento sulla rivista di geopolitica Foreign Affairs dedicato proprio all’aspetto marittimo della rivalità tra America e Cina, a suo dire sottovalutato dalla Casa Bianca. L’articolo di Schake presentava un sottotitolo molto eloquente: The Dangerous Decline of American Naval Power, il pericoloso declino della potenza navale americana.
Secondo l’analista, la competizione tra Washington e Pechino diventerà sempre di più una lotta per la potenza navale. La capacità di controllare le rotte marittime, oggi esclusiva degli Stati Uniti, è un enorme vantaggio geopolitico, perché le acque permettono il passaggio di circa il 90% del commercio globale (anche energetico) e ospitano, nelle loro profondità, infrastrutture strategiche come i cavi di Internet. Tanto la prosperità economica quanto la sicurezza territoriale americana, dunque, dipendono dalla dominanza sui mari.
Schake scrive che il controllo del mare sarà il “fattore determinante” del Ventunesimo secolo, e l’America dovrebbe pertanto dare priorità al rafforzamento della marina piuttosto che a quello dell’esercito o dell’aeronautica: senza una U.S. Navy ben equipaggiata, Washington non riuscirà a garantire la difesa degli alleati asiatici come il Giappone e a ottenere un vantaggio sulle acque in caso di guerra con Pechino.
Per prepararsi a sfidare l’egemonia statunitense, la Cina si è già dotata di una marina militare più numerosa e possiede la seconda flotta mercantile più grande al mondo (che non tiene conto, peraltro, dei tanti pescherecci utilizzati per effettuare incursioni in acque contese). Con 393 imbarcazioni, invece, la flotta mercantile americana è ventisettesima nella classifica globale – nel 1950 valeva da sola ben il 43% del commercio marittimo internazionale –, e anche le dimensioni della marina militare si stanno riducendo: la U.S. Navy aveva più navi nel 1930 che oggi, benché ci sia un piano per portarla a 355 mezzi entro una decina d’anni.
Al di là dei numeri, Schake insiste sui problemi di preparazione: l’85% dei giovani ufficiali della marina militare americana non possiede le competenze necessarie alla gestione delle navi, e pare che la forza armata sia dominata da una cultura burocratica che assegna più valore alle attività amministrative che all’addestramento al combattimento.
“Nel suo resoconto sul declino della Royal Navy britannica”, scrive Schake, “lo storico Andrew Gordon distingue due tipi di personale militare: i ratcatchers [acchiappatopi, ndr], che piegano le regole e vincono le guerre, e i regulators [regolatori, ndr], seguaci delle regole che lavorano all’interno della struttura burocratica e avanzano in tempo di pace solo per poi perdere le guerre. Dando priorità ai compiti amministrativi piuttosto che alle competenze sostanziali necessarie per vincere le guerre”, conclude l’analista, “gli Stati Uniti stanno creando una marina di regulators”.