Nati come estremisti ecologisti, i Verdi tedeschi oggi si battono per l’ambiente e i diritti sociali ma in politica estera sono pragmatici ed eclettici
“Sono la speranza d’Europa e il nemico numero uno dell’estrema destra”: non poteva essere più chiaro il sostegno del New York Times ai Verdi tedeschi, il partito che ha più possibilità degli altri di chiudere la lunga stagione di dominio della Cdu di Angela Merkel sulla Germania e, di conseguenza, sulla politica europea.
Se è vero l’aforisma di Gramsci per cui la storia di un partito è quella, in piccolo, di una nazione, andare alle origini delle cose ci permetterà di capire meglio perché il mondo liberal vede con tanta simpatia i Grünen. Fu alla fine degli anni Settanta che si raggiunsero le condizioni ottimali per la condensazione tra gli elementi della sinistra contestataria sessantottina, quelli del neonato movimento ambientalista che protestava contro l’inquinamento urbano e le piogge acide che distruggevano le secolari foreste tedesche, e quelli del pacifismo impegnato contro l’istallazione dei missili nucleari Pershing II puntati contro il Patto di Varsavia. A manifestare c’erano anche i genitori dell’attuale leader del partito Annalena Baerbock, due hippies di Hannover che avevano lasciato la città per vivere in una fattoria.
Non c’era molta scelta, per questa sinistra irregolare: il partito comunista era sciolto, i socialdemocratici erano al governo e rimanevano orgogliosamente la forza di riferimento della classe operaia. Nacquero così i Verdi: per lo scioglimento della Nato, per il disarmo, per la chiusura delle centrali nucleari. Una forza anti-autoritaria, decentralizzata, perfino favorevole al ritorno a forme di vita più tradizionali contro la “grande macchina” del capitalismo. “Lunatici marxisti-leninisti in pensione” li vedeva all’epoca il New York Times, preoccupato che un loro successo alle elezioni del 1983 avrebbe spinto l’Urss a invadere una Germania ovest smilitarizzata. Ma il “partito anti-partito”, che prendeva decisioni strabilianti per l’epoca – come l’assoluta eguaglianza nelle cariche interne tra uomini e donne – in poco tempo riuscì a stabilizzarsi sui 3-4 milioni di voti.
Tra gli ingredienti del successo dei Grünen, per prima cosa l’eclettismo. L’assenza di una rigidità politico-dottrinaria e di un legame preferenziale con certe classi sociali hanno permesso al partito di riemergere dalle tempeste successive alla caduta del Muro. Questa flessibilità ha fatto crescere dentro i Verdi una classe politica pragmatica e allenata al compromesso, che al contrario di altre forze libertarie o radicali europee ha saputo consolidarsi nel sistema istituzionale.
Il pragmatismo inossidabile dei Verdi tedeschi si deve forse a un sottile filo di contatto con gli Stati Uniti che ne ha caratterizzato i momenti chiave. Petra Kelly, la prima leader, era bambina quando il patrigno, un ufficiale americano di stanza in Germania Ovest con cui sua madre si era risposata, la tolse dal convento cattolico in cui l’avevano rinchiusa i genitori. In America, dove la portò, la futura fondatrice dei Verdi scoprì la politica: i suoi modelli non furono Marx o Lenin, ma Bob Kennedy, Martin Luther King e i contestatori della guerra in Vietnam: “padrini” che possono sopravvivere alla fine delle ideologie. Nel 1998 i Verdi guidati da Joschka Fischer vanno al governo della Germania in coalizione con i socialdemocratici di Gerhard Schröder: un altro momento chiave. E’ appena scoppiata la guerra del Kosovo. Fischer, che è anche ministro degli Esteri, già prima delle elezioni era stato informato da Bill Clinton. Non solo accetta che dalle basi tedesche partano i bombardamenti sulla Serbia, ma giunge anche a promuovere l’idea dell’invasione via terra: non possiamo permettere che i serbi facciano in Kosovo “una seconda Auschwitz”, diceva. Al congresso del partito, Fischer sarà assalito da un gruppo di contestatori della base e cosparso di vernice rosa; tuttavia la linea della “guerra giusta” passerà a leggera maggioranza, a riprova di una svolta non solo dei vertici ma anche tra i quadri dei Verdi. E Fischer potrà così sostenere, nel 2001, anche l’attacco Nato all’Afghanistan dopo l’attentato alle Torri Gemelle.
Oggi, a poche settimane dalle elezioni tedesche, il filo riappare. Se Trump fosse stato rieletto, non ci sarebbe stato alcun riavvicinamento tra Berlino e Washington. Ma per l’amministrazione democratica l’idea che i Grünen siano centrali nel dopo-Merkel è fondamentale per almeno tre motivi. Il primo: i Verdi sono favorevoli ad agevolare la transizione ecologica mediante grandi interventi pubblici, sussidi alle imprese e sostegni ai cittadini. Un’idea che ben si adatta alle intenzioni di Joe Biden per gli Stati Uniti e per il resto del mondo, dove il mega-programma di investimenti Build Back Better World dovrà costituire un’alternativa alle Nuove Vie della Seta cinesi. Il secondo: i Verdi sono contro il principio del pareggio di bilancio a livello europeo: non è un caso che si siano attirati le ire dell’ex ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schäuble, campione dell’austerità. E da sempre gli Usa spingono perché la Germania e la Ue adottino una politica economica più espansiva, sia perché vantaggiosa per l’America, sia perché necessaria a rilanciare la malconcia eurozona. Il terzo: i Verdi hanno sposato la linea dura “atlantica” contro la Russia e la Cina. Vogliono ridurre i legami economici europei con Pechino, e sono contro il completamento del gasdotto Nord Stream 2, che raddoppia il gas esportato dalla Russia alla Germania ed è osteggiato in tutti i modi da Washington. Baerbock ha riconosciuto pure la necessità di avvicinare l’Ucraina alla Nato e alla Ue e aumentare le spese militari: musica, alle orecchie di Biden. Ma anche di sviluppare i progetti militari europei: musica, alle orecchie di Macron, che spera nell’aiuto della Germania nelle guerre in Sahel che la Francia sta perdendo.
Mentre i socialdemocratici declinavano nel loro crepuscolo operaio, negli ultimi anni i Verdi crescevano (sono al governo in 11 Land su 16, in coalizioni di ogni tipo) grazie a una nuova immagine declinata in chiave professionale, aperta, innovativa, che funziona specialmente tra i giovani, gli abitanti dei centri urbani, gli elettori più indecisi – alla ricerca di novità dopo 16 anni di Angela Merkel, ma che sia novità “con giudizio” e nella continuità. “Voglio una Germania nel cuore dell’Europa, un paese in cui la protezione del clima garantisce la prosperità, la libertà, la sicurezza”, dice Baerbock. Chi non sarebbe d’accordo?
I Verdi, ancora oggi guidati insieme da un uomo e una donna in nome dell’originaria parità di genere, hanno scelto di candidare “la donna” proprio per l’abbondanza di uomini tra gli avversari. Annalena Baerbock ha preso la tessera nel 2005, dopo una laurea alla London School of Economics e uno stage al parlamento europeo. E sottolinea: “io sono il cambiamento, gli altri lo status quo”; eppure in un certo modo è impossibile non vederla come “la seconda” Angela Merkel. Baerbock, cosciente della popolarità della Cancelliera, non la attacca mai personalmente; ed è stata persino sorpresa nel gesto delle mani a losanga tipico di Merkel.
Nessuno può prevedere se i Verdi saranno il partito più votato a settembre, e in questo caso Baerbock sarà Cancelliera, o se arriveranno secondi e dunque governeranno con il centrodestra in qualità di partner minore, come già accade in Austria e probabilmente anche nei Paesi Bassi. Formare un governo, comunque, sarà difficile: la CDU orfana di Merkel non accetterà facilmente di fare da stampella. Se i Verdi dovessero cercare un’altra coalizione, a disposizione ci sarebbero i socialdemocratici, ma con l’obbligata aggiunta o dei radicali della Linke, o degli ultraliberali della FDP. Risolvere questo rebus sarà il primo test per i nuovi Verdi degli anni Venti.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di luglio/agosto di eastwest.
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“Sono la speranza d’Europa e il nemico numero uno dell’estrema destra”: non poteva essere più chiaro il sostegno del New York Times ai Verdi tedeschi, il partito che ha più possibilità degli altri di chiudere la lunga stagione di dominio della Cdu di Angela Merkel sulla Germania e, di conseguenza, sulla politica europea.
Se è vero l’aforisma di Gramsci per cui la storia di un partito è quella, in piccolo, di una nazione, andare alle origini delle cose ci permetterà di capire meglio perché il mondo liberal vede con tanta simpatia i Grünen. Fu alla fine degli anni Settanta che si raggiunsero le condizioni ottimali per la condensazione tra gli elementi della sinistra contestataria sessantottina, quelli del neonato movimento ambientalista che protestava contro l’inquinamento urbano e le piogge acide che distruggevano le secolari foreste tedesche, e quelli del pacifismo impegnato contro l’istallazione dei missili nucleari Pershing II puntati contro il Patto di Varsavia. A manifestare c’erano anche i genitori dell’attuale leader del partito Annalena Baerbock, due hippies di Hannover che avevano lasciato la città per vivere in una fattoria.