In Myanmar proseguono le proteste contro il golpe. Alla repressione fisica si aggiunge quella legale. Onu e Usa minacciano i militari, mentre i vicini asiatici restano ancora in silenzio
In Myanmar proseguono le proteste contro il golpe. Alla repressione fisica si aggiunge quella legale. Onu e Usa minacciano i militari, mentre i vicini asiatici restano ancora in silenzio
Si allargano le proteste, si allarga la repressione. Il Myanmar rischia un ritorno al passato mentre l’esercito prova ad arginare la sollevazione popolare contro il golpe militare dello scorso 1° febbraio. Dai cannoni d’acqua si è passati ai proiettili, Internet è quasi completamente bloccato e, come accadeva tre decenni fa, bande criminali vengono utilizzate per scoraggiare il dissenso e giustificare la stretta sull’ordine pubblico. Si moltiplicano gli arresti anche nella società civile, ma soprattutto le generazioni più giovani non sembrano intenzionate a fermarsi. E il mondo osserva con preoccupazione quello che accade in un Paese chiave per stabilire gli equilibri geopolitici asiatici.
Più proteste
All’inizio si battevano le pentole in segno di dissenso. Ma è ormai da dieci giorni che le strade delle principali città birmane sono invase dalle proteste. Le manifestazioni si susseguono nella capitale politica Naypyidaw, in quella economica di Yangon e a Mandalay, ma non solo. Alle manifestazioni si affiancano gli scioperi, con la presenza anche di diversi monaci buddhisti e di suore e preti cattolici, e una continua disobbedienza civile.
Secondo gli osservatori, era dai tempi della “rivoluzione zafferano” del 2007 (che anticipò le prime riforme e aperture del regime militare) che non si vedeva una partecipazione di massa così numerosa. Con un’ampia presenza delle generazioni più giovani, quelle che sono cresciute in una società che sembrava avviata alla transizione democratica.
Generazioni le cui aspirazioni sono più difficili da contenere per il Tatmadaw, anche per l’utilizzo massiccio dei social media che, come già accaduto altrove, servono a fare da collante per le proteste. Non è un caso che le autorità abbiano imposto un blocco quasi totale di Internet. Navigare liberamente è diventato, per gli utenti birmani, molto complicato negli ultimi giorni. E sempre sui social comincia a serpeggiare la paura che la repressione dei militari possa diventare più violenta. C’è chi teme che alla fine i timori possano bloccare o diminuire l’intensità delle proteste. I manifestanti chiedono di mantenere alta la partecipazione e parlano di “settimana decisiva”, con i dipendenti pubblici chiamati a non cedere alle pressioni.
Più repressione
Se le proteste proseguono, la repressione si intensifica. A Yangon sono arrivati per la prima volta i mezzi blindati e le strade sono pattugliate dai militari. Stando a un video pubblicato su Twitter dal giornalista Mratt Kyaw Thu, le forze di sicurezza hanno aperto il fuoco (non è chiaro se con proiettili veri o di gomma) verso i manifestanti nella città di Myitkyina, nello Stato di Kachin nel nord del Paese. Una ragazza è stata colpita da un proiettile a Naypyidaw e ora è in fin di vita. A Mandalay i dimostranti sono stati respinti a colpi di fionda e di bastoni, con proiettili di gomma sparati anche all’interno delle case. I fucili, per ora, hanno sparato in aria. Ma il timore è che l’escalationdi violenza possa presto arrivare a un punto di non ritorno.
All’azione dei militari si accompagna quella delle bande criminali. Ronde di civili armati, in larga provenienti dai 23mila prigionieri liberati dalle carceri nei giorni scorsi, vengono utilizzate dalle forze di sicurezza per giustificare la stretta sull’ordine pubblico e allo stesso tempo per spaventare chi ha intenzione di protestare in modo pacifico.
Alla repressione fisicasi accompagna quella legale. Si minacciano fino a venti anni di carcere per “ostruzione alle forze armate” e pene severe anche per chi incita a “odio o disprezzo” verso i militari. Misure pensate anche verso i giornalisti, che sono finiti nel mirino. Almeno sette reporter sarebbero stati arrestati, mentre il Ministero dell’Informazione ha informato giornalisti e gruppi editoriali che “non devono scrivere allo scopo di causare tumulti di piazza”. Il tentativo è quello di controllare la narrazione che si fa delle proteste, che i militari vorrebbero vedere descritte come “tumulti” o “rivolte”, e del golpe stesso. Si sta preparando anche una nuova legge sulla cybersicurezza per imporre nuove restrizioni sui social.
Al momento sono stati fermati oltre 320 parlamentari, ma gli arresti coinvolgono anche la società civile e chi protesta pacificamente. A Naypyitaw sarebbero stati fermati tra i 20 e i 40 studenti, tutti minorenni, e una folla ha protestato fuori dalla centrale di polizia per chiederne il rilascio.
Aung San Suu Kyi, nel frattempo, resta in detenzione preventiva almeno fino a mercoledì 17 febbraio, quando sarà interrogata in videoconferenza per la presunta violazione della legge sull’import-export per la detenzione di sei walkie-talkie. La leader della Lega nazionale per la democrazia, trionfatrice alle elezioni dello scorso novembre, rischia fino a tre anni di reclusione. Pena che di fatto la escluderebbe dalla elezioni “libere” che la giunta militare ha annunciato di voler organizzare per il prossimo anno, al termine dello stato d’emergenza. Accusa alla quale si è aggiunta anche quella di aver violato la legge sulle catastrofi naturali.
I silenzi asiatici
A “rassicurare” i militari c’è per ora la timidezza dei vicini asiatici. La Cina continua a definire l’evoluzione come un “affare interno”, in linea col cosiddetto principio di “non interferenza” che governa la politica estera di Pechino e di tanti altri Paesi dell’area. Il Governo cinese ha smentito le voci secondo le quali stia aiutando il Tatmadaw dal punto di vista operativo (l’arrivo di cinque cargo con derrate alimentari dallo Yunnan ha diffuso sospetti sul possibile invio di rinforzi militari) e dal punto di vista informatico, in particolare sulla costruzione di un “great firewall” per bloccare Internet.
Ma in Myanmar non tutti si fidano del Dragone. Nei giorni scorsi ci sono state diverse manifestazioni davanti all’ambasciata cinese. Come già spiegato su eastwest, il Myanmar è fondamentale all’interno del progetto della Belt and Road Initiative di Xi Jinping. Il porto di Kyaukpyu garantisce, attraverso il corridoio economico bilaterale, l’accesso al Golfo del Bengala e dunque all’Oceano Indiano aggirando lo stretto di Malacca. Il Governo cinese aveva ottimi rapporti con Suu Kyi, ma il suo principale interesse è la stabilità. A prescindere da chi ci sia alla guida. Per questo non ha intenzione di interferire coi processi interni birmani.
Timidezza comune anche all’India. Nuova Delhi ha spedito ai militari un sottomarino negli scorsi mesi e ha da poco vinto la corsa sulla “diplomazia del vaccino“, regalando un milione e mezzo di dosi alle quali se ne sono sommate altre 30 milioni vendute. Lo stesso Giappone ha sempre mantenuto rapporti di collaborazione con il Tatmadaw. In una recente visita in Myanmar, il Ministro degli Esteri nipponico Motegi Toshimitsu ha incontrato sia Suu Kyi sia il generale Min Aung Hlaing, come fatto dall’omologo cinese Wang Yi. D’altronde Tokyo ha importanti interessi economici nel Paese.
Onu, Usa e Occidente che fanno?
L’Onu ha avvertito che i capi della giunta militare saranno “ritenuti responsabili” delle violenze nel Paese. “È come se i generali avessero dichiarato guerra al popolo birmano”, ha scritto su Twitter il relatore speciale delle Nazioni Unite Tom Andrews.
Ma per ora, sul fronte occidentale, arrivano soprattutto avvertimenti. In una dichiarazione congiunta, gli ambasciatori di Stati Uniti, Regno Unito, Canada, Finlandia, Norvegia, Svizzera e da diversi paesi dell’Unione europea (tra cui Italia, Francia, Germania, Paesi Bassi, Spagna e Danimarca) hanno fatto appello “alle forze di sicurezza perché si astengano dalla violenza contro i manifestanti e i civili che protestano contro il rovesciamento del loro legittimo Governo”. Nello stesso comunicato vengono condannati gli arresti e “le aggressioni ai giornalisti”, così come “l’interruzione delle comunicazioni” e le “limitazioni dei diritti fondamentali e delle tutele legali essenziali dei cittadini birmani”. Con un ammonimento finale: “Il mondo sta guardando”.
Nei giorni scorsi, il neo Presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha annunciato l’imposizione di sanzioni contro i militari responsabili del colpo di Stato. Annuncio che è piaciuto ai manifestanti, che si sono radunati sotto la rappresentanza diplomatica americana di Yangon per esprimere sostegno alla Casa Bianca.
“Il mondo sta guardando”. Forse guardare non basta più.
In Myanmar proseguono le proteste contro il golpe. Alla repressione fisica si aggiunge quella legale. Onu e Usa minacciano i militari, mentre i vicini asiatici restano ancora in silenzio
Si allargano le proteste, si allarga la repressione. Il Myanmar rischia un ritorno al passato mentre l’esercito prova ad arginare la sollevazione popolare contro il golpe militare dello scorso 1° febbraio. Dai cannoni d’acqua si è passati ai proiettili, Internet è quasi completamente bloccato e, come accadeva tre decenni fa, bande criminali vengono utilizzate per scoraggiare il dissenso e giustificare la stretta sull’ordine pubblico. Si moltiplicano gli arresti anche nella società civile, ma soprattutto le generazioni più giovani non sembrano intenzionate a fermarsi. E il mondo osserva con preoccupazione quello che accade in un Paese chiave per stabilire gli equilibri geopolitici asiatici.
Più proteste
Questo contenuto è riservato agli abbonati
Abbonati per un anno a tutti i contenuti
del sito e all'edizione cartacea + digitale della rivista di
geopolitica