Iran e Usa tornano alla diplomazia, ma chi farà il primo passo?
Il livello di sfiducia dell'Iran verso gli Usa è altissimo, così come la necessità di normalizzare le relazioni diplomatiche e liberarsi delle sanzioni
Il livello di sfiducia dell’Iran verso gli Usa è altissimo, così come la necessità di normalizzare le relazioni diplomatiche e liberarsi delle sanzioni
Il fatto che Joe Biden abbia scelto una platea di giovani diplomatici del Dipartimento di Stato per il suo discorso sulla politica estera Usa, descrive il cambio di postura rispetto al suo predecessore. Trump nel suo analogo discorso si era rivolto ai simboli dell’hard power – Pentagono e Cia -, oggi l’ex vice di Obama ha deciso di mandare un messaggio di segno opposto, annunciando un “ritorno” della diplomazia.
L’altro segnale è la nomina di Robert Malley come inviato speciale per l’Iran: già protagonista dei negoziati sul nucleare iraniano conclusi con l’accordo del 2015, Malley è stato criticato dai parlamentari repubblicani, che lo descrivono come “empatico verso il regime iraniano e nemico di Israele” e ne hanno avversato la nomina, facendo eco anche alle preoccupazioni dell’Arabia Saudita e di Israele. Sebbene il nuovo Segretario di Stato Anthony Blinken abbia incaricato Malley di formare un team negoziale dalle sensibilità eterogenee, è evidente la volontà politica di recuperare una forma d’intesa con l’Iran. L’arte della diplomazia ha però tempi lunghi. Inoltre, necessita della decisione (politica) di stimolarla. Sulla strada di un nuovo accordo, Iran e Usa hanno quindi un problema di tempi e di modi.
Verso le elezioni in Iran
Gli iraniani eleggeranno un nuovo Presidente il prossimo giugno. Dopo la netta vittoria alle scorse elezioni parlamentari – pur con un’affluenza molto bassa -, il fronte “conservatore” ha rafforzato la maggioranza in Parlamento, e si prepara a veder eletto un proprio candidato alla presidenza. Quella di Rouhani ha scontato da un lato la strategia della “massima pressione” di Trump, che ha polverizzato i benefici che un accordo – per cui si era speso molto sul piano interno – aveva prodotto; dall’altro, la nomina di alcuni Ministri conservatori nel suo secondo mandato, ha alienato molte simpatie dell’elettorato “riformista” a cui si era in parte rivolto.
L’idea che con un’amministrazione conservatrice, priva di una figura come l’attuale Ministro degli Esteri Javad Zarif (che porta in dote buone relazioni con le controparti europee), potrebbe essere più complesso negoziare, è sensata. Ma è utile ricordare che i primi colloqui Usa-Iran sul nucleare erano avvenuti in forma segreta in Oman, nel 2011, con un parlamento iraniano a maggioranza conservatrice e durante il secondo mandato di Ahmadinejad: un Presidente con posizioni oltranziste; inoltre, la politica estera iraniana dipende soprattutto dalla Guida Suprema, Ali Khamenei, diviso tra la necessità di fare sintesi tra le fazioni del Majles (Parlamento) e le agenzie di sicurezza iraniane, e la sua sensibilità politica, vicina ad alti quadri conservatori dell’Irgc (Guardie della Rivoluzione islamica).
Nessuna intesa sarebbe stata raggiunta nel 2015 senza la disponibilità – con riserva – di questi attori. Il vero rischio legato al fattore temporale risiede soprattutto nel fatto che un nuovo accordo, se non concluso in tempi brevi, diventi un tema caldo della campagna elettorale, finendo per porre in stallo qualunque decisione, fino alla formazione del nuovo Governo. Ciò suggerirebbe all’amministrazione Biden di affrettare i tempi ma, come ricorda Akbar Shahid Ahmed su Huffpost, il neo Presidente deve fare i conti con l’opposizione dei “falchi” repubblicani al Congresso e con la loro profonda avversione per la diplomazia con l’Iran. L’idea, diffusa anche tra alcuni democratici, è che un troppo rapido ritorno all’accordo possa far apparire Biden debole agli occhi di Teheran.
Il rischio di una presidenza oltranzista in Iran potrebbe però tradursi in ostacoli tecnici. Sia Washington che Teheran hanno già accettato un meccanismo per ridare vita al JCPoA: quello della compliance for compliance. Washington recede dal proposito di usare le sanzioni reintrodotte da Trump come “leva” per ottenere delle concessioni da Teheran prima di un ritorno all’accordo; Teheran rinuncia invece a chiedere a Washington delle compensazioni per l’abbandono dell’intesa da parte di Trump. Con una presidenza conservatrice, e una situazione di stallo instabile come quella attuale, è possibile che i nuovi negoziatori iraniani tornino a rivendicare queste compensazioni. E sarebbe forse utile neutralizzare questa eventualità con la rimozione di sanzioni nei settori non legati all’industria nucleare, formalizzando la mossa come un “primo passo”.
Come riprendere i negoziati?
Questo aspetto introduce la dimensione delle modalità. Come ha raccontato sul Time la baronessa Catherine Ashton – fino al 2014 alto rappresentante della politica estera Ue e protagonista dei colloqui tra Iran e 5+1 -, durante i negoziati per l’accordo del 2015 “gli iraniani erano consapevoli dell’ostilità dei repubblicani americani all’intesa, ed esprimevano spesso il timore che una nuova amministrazione statunitense l’avrebbe stracciata”. Un timore comprensibile non solo col senno di poi, visto il promesso e mantenuto abbandono del JCPoA da parte di Trump, ma anche in quel momento: è infatti viva nella memoria degli iraniani la “doccia gelata” del discorso sullo Stato dell’Unione del 2002 da parte di Bush Jr., nel quale inserì l’Iran nel celebre “Asse del Male”. Avvenne solo alcuni giorni dopo che il presidente iraniano e riformista, Mohammad Khatami, aveva prefigurato un “Grand Bargain” con gli Usa (aprendo anche lo spazio aereo iraniano agli strike americani contro i Talebani in Afghanistan), e pochi anni dopo che l’allora neo-capo delle Forze Quds dell’Irgc, Qassem Soleimani, aveva aiutato l’Alleanza del Nord contro i Talebani, condividendo alcune importanti informazioni logistico-militari.
Non è troppo lontano nemmeno quel che accadde ad inizio anni ’90. Il neo eletto George Bush nel 1989 annuncia la strategia del “goodwill begets goodwill”: chiede al Presidente iraniano Ali Akbar Rafsanjani aiuto nella liberazione dei rimanenti ostaggi americani presi da Hezbollah in Libano, promettendo in cambio la rimozione dell’Iran dalla lista degli Stati sponsor del terrorismo, una ulteriore compensazione per l’abbattimento involontario da parte americana di un aereo di linea iraniano nel 1988, e la riduzione delle sanzioni. Gli ostaggi verranno liberati ma gli Usa non manterranno la promessa, adducendo per la prima volta una motivazione che risuonerà poi diverse volte, cioè “le attività di destabilizzazione regionale dell’Iran”. Tenere conto del livello di sfiducia accumulata dagli iraniani verso gli Usa, e in generale sforzarsi di considerare la percezione altrui, a prescindere dal potere negoziale, non è più eludibile, specie in seguito agli avvenimenti dell’ultimo anno, l’assassinio dello stesso Soleimani e poi dello scienziato Mohsen Fakhrizadeh.
“Per alcuni, in Occidente, un accordo efficace è quello che impedisca all’Iran anche di avere un programma nucleare civile; per altri, che l’Iran cambi la sua politica regionale”, ha aggiunto Ashton nel suo intervento. Questo è uno degli aspetti più delicati: la possibilità che alcuni attori spingano per un accordo che non si limiti al nucleare ma che includa altri argomenti come il programma missilistico, che per Teheran è una linea rossa della sua strategia di deterrenza. Malley ha chiarito che l’intenzione è circoscrivere l’intesa al nucleare, ed eventualmente renderla più solida e duratura, in modo da poter affrontare altri dossier in futuro, nell’ambizione di ristabilire un framework integrato di sicurezza regionale.
Biden ha già usato alcune espressioni nemiche della celerità: la posizione americana, infatti, è al momento quella della disponibilità a rientrare in un accordo dopo che l’Iran tornerà a rispettare i suoi obblighi (che imponevano di arricchire uranio al 3%, laddove Teheran è tornata ad arricchire al 20%). L’Iran ritiene questa posizione emblematica dell’ambiguità americana: Teheran ha in effetti smesso di adempiere ai suoi obblighi sul tetto all’arricchimento, ma lo ha fatto oltre un anno dopo il ritiro unilaterale Usa dall’accordo, accompagnato dalla immediata reintroduzione delle sanzioni. Non c’è quindi dubbio, tra le autorità iraniane, su chi debba fare quel “primo passo” in grado di innescare nuovamente la difficile arte della diplomazia: coloro che hanno fatto per primi un passo indietro.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di marzo/aprile di eastwest.
Il livello di sfiducia dell’Iran verso gli Usa è altissimo, così come la necessità di normalizzare le relazioni diplomatiche e liberarsi delle sanzioni
Il fatto che Joe Biden abbia scelto una platea di giovani diplomatici del Dipartimento di Stato per il suo discorso sulla politica estera Usa, descrive il cambio di postura rispetto al suo predecessore. Trump nel suo analogo discorso si era rivolto ai simboli dell’hard power – Pentagono e Cia -, oggi l’ex vice di Obama ha deciso di mandare un messaggio di segno opposto, annunciando un “ritorno” della diplomazia.
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