In attesa di rimontare a player globale, il Regno Unito gioca delle mini partite commerciali e prende di mira i cittadini Ue, detenuti come “irregolari senza visto”
Quel che resta della Brexit è un gioco di specchi. Sono passati cinque anni dal referendum con cui il 23 giugno 2016 il Regno Unito decise di lasciare l’Unione europea, sul filo del 52% a 48% e con importanti differenze geografiche al suo interno, e sei mesi dall’effettiva uscita di Londra dal mercato unico europeo.
L’impressione è che – fra “guerra delle salsicce” nell’Irlanda del Nord, Royal Navy schierata contro i pescherecci francesi al largo dell’isola di Jersey e chiusura dei confini ai lavoratori stranieri – “Little England” si trovi adesso a recitare a soggetto la parte di “Global Britain” che s’era cucita addosso già durante la campagna referendaria; una visione che nei mesi scorsi ha approfondito in un documento strategico che guarda alla proiezione esterna del Paese fino al 2030. Londra prova a salpare verso nuovi orizzonti senza esser riuscita, tuttavia, a togliere gli ormeggi che la tengono ancora legata al mai troppo amato approdo continentale.
Il peso dell’ambizione, del resto, era palpabile al G7 di inizio giugno in Cornovaglia, il primo appuntamento su scala internazionale ospitato dal Regno Unito post-Brexit, finito per essere funestato anch’esso dall’ombra lunga dell’addio all’Ue: in particolare, dal rischio – evidenziato anche dal Presidente degli Stati Uniti Joe Biden nel suo viaggio europeo – che mosse “disinvolte” da parte del Governo di Sua Maestà possano mettere a rischio la delicata pace sull’isola d’Irlanda. Per evitare un hard border – come prescritto dagli Accordi del Venerdì Santo 1998, che sancirono una difficile pace -, Belfast è infatti rimasta all’interno del mercato unico, con una frontiera doganale individuata nel Mare d’Irlanda e l’Ue che delega di fatto ai britannici i controlli sul rispetto dei propri standard (come quelli fitosanitari che riguardano le carni, da cui discende la battaglia delle salsicce adesso in pausa). Ma al di là del significato pratico, la situazione irrita gli unionisti fedeli alla Corona e rilancia le spinte degli indipendentisti che sperano nella riunificazione con Dublino 100 anni dopo la Partition.
Secondo un sondaggio pubblicato alla vigilia dell’anniversario del voto che sancì il divorzio, anni di interminabili negoziati non hanno rivoluzionato gli equilibri in campo: realizzata dal guru britannico delle rilevazioni John Curtice per il gruppo What UK Thinks, l’indagine fotografa una situazione inamovibile. L’80% dei britannici – rivela lo studio – confermerebbe il proprio voto di cinque anni fa, tanto fra i Leave quanto fra i Remain, anche se soltanto il 20% degli interpellati dice di approvare il Trade and Cooperation Agreement concluso fra Londra e Bruxelles quasi fuori tempo massimo, il pomeriggio della Vigilia di Natale 2020.
Proprio sei mesi dopo la data di (provvisoria) entrata in vigore dell’accordo che regola le relazioni post-Brexit tra le due sponde della Manica, temi e tempi restituiscono la complessità degli effetti dell’operazione che ha posto fine a 47 anni di membership del Regno Unito nell’Ue. A cominciare dal capitolo commerciale, ma con conseguenze dirompenti anche per gli europei che vivono e lavorano nel Paese, visto che la libertà di circolazione – tra i temi contro cui si scagliò la propaganda identitaria Brexiteer – non rientra tra le misure concordate nell’intesa.
I dati del primo quadrimestre 2021 diffusi da Eurostat vedono le esportazioni britanniche verso l’Ue registrare un -27,1% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, “intrappolate” dalle nuove regole che ripristinano i controlli doganali. Se la misurazione del crollo dell’export è ostaggio di criteri diversi seguiti dagli uffici statistici di Londra e Bruxelles, il tema conferma però il suo impatto prepotente anzitutto sulla catena dell’approvvigionamento alimentare: a giudicare dalle posizioni allarmiste dei rappresentanti di settore, infatti, i tempi supplementari della Brexit si starebbero giocando fra gli scaffali dei supermercati, con l’export dell’agrifood verso il continente dimezzato (e picchi fino al -90%, ad esempio, per il comparto caseario), un incremento dei prezzi al dettaglio e il concreto rischio – come successo a inizio anno – che molti prodotti freschi e di stagione non raggiungano i consumatori.
Provando a giocare in contropiede, e sognando una Global Britain che avvia il nuovo corso anzitutto con i Paesi del Commonwealth, il Governo Johnson ha concluso con l’Australia il primo accordo di libero scambio al di fuori dello schema di gioco comune dell’Ue (che sulla politica commerciale ha competenza esclusiva e negozia per conto degli Stati membri), mentre altri sono in discussione ad esempio con l’India. Peccato che il valore aggiunto stimato per il Pil britannico derivante dall’intesa con Canberra – che sarà applicata gradualmente nell’arco di 15 anni – oscilla sulla forbice dell’irrilevanza: tra 0,01% e 0,02%.
Ad avere esasperato i toni all’alba dell’era post-Brexit è stata, però, la campagna vaccinale. Soprattutto la prima parte dell’anno, infatti, ha fatto registrare uno sprint nelle somministrazioni britanniche. Londra s’è mossa in autonomia – cominciando prima dei cugini europei e con piani d’acquisto e autorizzazione propri – e ha fatto esultare i tabloid: “Ecco la migliore pubblicità per la Brexit”. La complicità di AstraZeneca ha fatto il resto, finendo per aprire un nuovo fronte tra Londra e Bruxelles anche sui vaccini: come riconosciuto anche dalla giustizia belga nella prima ordinanza pronunciata sul tema dei ritardi nella consegna delle dosi alla Commissione, la compagnia anglo-svedese avrebbe promesso le stesse fiale a britannici ed europei, salvo destinare la produzione degli impianti Uk unicamente alle forniture per Londra.
Duello sulle dosi a parte, la contesa permanente tra i britannici e gli europei ha assunto anche i contorni della farsa, con battaglie di una guerra-spezzatino combattute su dossier economicamente marginali, ma simbolicamente esplosivi. A cominciare dalla pesca, il simbolo forse più eloquente sin dai tempi della campagna referendaria della volontà di “take back control”, da parte di Londra, delle proprie acque, ma che ripropone l’anatema dello “zero virgola”. Il contributo del settore al Pil britannico è inferiore allo 0,1% – meno dei grandi magazzini Harrod’s –, ma la possibilità di mantenere l’accesso per gli europei al pescoso mare territoriale britannico ha apparecchiato un braccio di ferro conclusosi solo parecchi mesi dopo l’intesa generale sul Trade and Cooperation Agreement. Alla fine, la soluzione escogitata passa per più burocrazia – quello stesso red tape, ma maggiorato, per cui a Londra stavano strette le norme Ue -: si fissano infatti delle quote di pescato per oltre 70 specie che popolano le acque condivise, intavolando un negoziato perenne che dovrà aggiornarsi orientativamente con cadenza annuale.
Se i pesci sono liberi di muoversi fra le ricche acque della Manica, lo stesso non si può dire per i cittadini europei nel Regno Unito: scaduto il termine del 30 giugno per registrarsi per ottenere il permesso di residenza, il sistema si annuncia già in difficoltà in vista dell’esame dell’enorme volume di richieste. Le anticipazioni sul modo in cui Londra intende gestire il dossier immigrazione, poi, sono tutt’altro che rassicuranti, visto il trattamento riservato nei primi mesi dell’anno a centinaia di cittadini Ue, tra cui degli italiani. Considerati “irregolari senza visto” – nonostante alcuni avessero colloqui di lavoro già fissati o precedenti periodi di occupazione nel Paese -, le autorità Uk li hanno fermati all’ingresso nel Regno Unito e trasferiti in centri di detenzione, dove sono stati trattenuti senza cellulare anche per diversi giorni. Un caso che ha provocato la mobilitazione consolare degli Stati europei coinvolti e anche una levata di scudi fra i leader Ue, che hanno ottenuto garanzie da Londra sulla sostituzione della reclusione con un ingresso su cauzione prima del rimpatrio.
La stretta sugli ingressi di lavoratori non altamente qualificati scontenta anche i settori produttivi Uk – manifatturiero, edilizia e servizi sanitari in testa (molti infermieri, ad esempio, in prima linea nella lotta alla pandemia) -, che chiedono infatti a gran voce di allentare le misure e non bloccare l’afflusso di forza lavoro dal continente. Per ora, una mini-deroga applicabile agli stagionali per il raccolto nei campi prevede la possibilità per 30mila operai di arrivare nel Paese per sei mesi.
Cinque anni dopo, insomma, va in scena “La Grande Illusione”. Non a casa il titolo che il capo negoziatore Ue sulla Brexit Michel Barnier ha scelto (anche) per il suo libro di memorie da poco in libreria (Gallimard, 544 pagine, per ora solo in francese; in autunno anche in inglese).
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di luglio/agosto di eastwest.
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