La visita della speaker della Camera degli Stati Uniti arriva in un momento estremamente delicato per l’ordine internazionale e rischia di aumentare l’instabilità. La Cina si è già detta pronta a reagire nel caso la visita dovesse concretizzarsi
Il futuro di Taiwan è uno dei grandi punti interrogativi del nostro secolo. Se da un lato potrebbe rimanere una questione latente, come del resto è successo negli ultimi cinquant’anni, il conflitto in Ucraina ci ha dimostrato che oggi l’ordine internazionale è, forse, più fragile di quello che pensiamo. Alla base dell’instabilità politica intorno alla questione di Taiwan ci sono principalmente due fattori: l’ascesa della Cina e la “discesa” degli Stati Uniti. La teoria della stabilità egemonica, elaborata dal politologo americano Robert Keohane, aveva postulato la necessità di una potenza egemone per sfuggire all’anarchia che, altrimenti, caratterizza le relazioni internazionali. Il XXI secolo ha visto la diminuzione graduale del potere relativo degli Stati Uniti. Si parla di potere relativo per indicare il fatto che non sono tanto gli Usa a essere diventati più deboli quanto la Cina a essere diventata più forte. La conseguenza di una distribuzione più equa del potere tra le grandi potenze globali è una maggiore instabilità, in cui nessuno può mostrarsi debole.
La Cina, successivamente alla morte dello storico leader Mao Zedong, aveva abbracciato sotto la leadership di Deng, e poi successivamente, una politica estera volta a creare un ambiente internazionale favorevole allo sviluppo economico cinese. Gli elementi chiave di questo approccio erano evitare conflitti, soprattutto con gli Stati Uniti, in modo da concentrare tutte le energie sullo sviluppo economico. Questo approccio era stato etichettato come “peaceful rise”, ovvero “ascesa pacifica” in modo da mitigare la sinofobia occidentale.
Con l’avvento di Xi Jinping, come nuovo leader del Pcc e della Cina nel 2013, questo approccio è iniziato a cambiare. La Cina di Xi Jinping è consapevole delle proprie forze e, dunque, non è più disposta ad abbassare la testa davanti a nessuno per proteggere propri interessi. Da questa nuova attitudine deriva la cosiddetta “red line diplomacy”, tradotto “diplomazia della linea rossa”. Essa vuole indicare che ci sono delle questioni su cui la Cina non è disposta a scendere a compromessi e che demarcano, quindi, una linea rossa che non deve essere superata. Una di queste, se non una delle più importanti, è la questione di Taiwan che rientra a pieno titolo in una delle priorità politiche della Cina: l’integrità territoriale. Si tratta di uno dei principi più cari a Pechino: la Cina è una e non può essere divisa.
Mantenere stabile un territorio grande come la Cina è difficile. Se qualche territorio affermasse la propria indipendenza il rischio sarebbe una spirale di instabilità politica che potrebbe portare alla messa in discussione del Partito comunista nonché alla perdita dell’unità territoriale cinese. Per questo motivo, nonostante Taiwan abbia potuto in questi anni svilupparsi autonomamente, diventando una democrazia affermata, continua a non essere riconosciuta come stato dalla maggior parte dei Paesi, Stati Uniti compresi. Gli Usa definiscono questa politica come “ambiguità strategica”: viene riconosciuta una sola Cina, quella comunista, ma allo stesso tempo si sostiene la necessità di rispettare l’indipendenza politica ed economica di Taiwan. Intanto a Pechino è andato bene così accettando l’ambiguità statunitense come coerente con il suo approccio adottato per Taiwan: una sola Cina, due sistemi. Entrambe le potenze hanno finora scelto di evitare uno scontro diretto che sarebbe profondamente dannoso data la forte interdipendenza economica che caratterizza i due rispettivi sistemi di produzione.
Si capisce dunque quanto peso abbia oggi Taiwan. La visita della Pelosi nella Cina democratica vuole essere un messaggio a Pechino in un momento delicato. L’invasione russa dell’Ucraina ha mostrato che oggi viviamo in un ordine internazionale fragile, in cui i confini possono essere messi in discussione dalle aspirazioni delle grandi potenze.
La crisi in Ucraina ha aperto gli occhi su questa realtà, riaccendendo la necessità degli Stati Uniti di mostrarsi presenti nel mondo, a maggior ragione in Asia dove la Cina ormai è la principale potenza regionale. A sua volta Pechino non è più disposta a fare passi indietro e mostrarsi debole. La Cina ha aspirazioni da superpotenza e in un momento in cui gli equilibri internazionali sono in bilico, mostrarsi debole vorrebbe dire mettere in pericolo il futuro del Paese. Ne deriva una situazione pericolosa e instabile, in cui l’ego delle due superpotenze rischia di aggiungere instabilità ad un sistema già messo duramente alla prova dallo strappo della Russia.
La Cina, successivamente alla morte dello storico leader Mao Zedong, aveva abbracciato sotto la leadership di Deng, e poi successivamente, una politica estera volta a creare un ambiente internazionale favorevole allo sviluppo economico cinese. Gli elementi chiave di questo approccio erano evitare conflitti, soprattutto con gli Stati Uniti, in modo da concentrare tutte le energie sullo sviluppo economico. Questo approccio era stato etichettato come “peaceful rise”, ovvero “ascesa pacifica” in modo da mitigare la sinofobia occidentale.