Trentacinquenne, ex leader del movimento studentesco, Gabriel Boric porta la sinistra al Governo dopo anni di proteste contro il modello neoliberista del “miracolo” cileno. Si parla già di una nuova ondata progressista in America Latina
Nel 2011, in uno dei momenti più algidi delle proteste degli universitari cileni contro il modello privato di educazione superiore, il Presidente Sebastián Piñera, allora al suo primo mandato, si rifiutò di ricevere i leader del movimento studentesco. Dieci anni più tardi Piñera è costretto ad accogliere al Palacio de la Moneda uno di quei dirigenti rigettati perché considerati violenti e sovversivi, come Presidente eletto. Gabriel Boric sarà, a partire dall’11 marzo, il Presidente più giovane della storia del Cile, e anche quello più votato, dopo aver battuto per più di 11 punti il candidato dell’estrema destra José Antonio Kast al ballottaggio di domenica. Il Boric del 2021 è il rappresentante di un movimento a cui lo stesso Piñera, in un’ennesima dimostrazione della miopia dell’élite conservatrice cilena, aveva apertamente “dichiarato la guerra” verso la fine del 2019, quando le piazze di Santiago straripavano di giovani che chiedevano la fine del modello sociale ed economico impiantato dalla dittatura di Augusto Pinochet, e sostenuto dai Governi democratici eletti a partire dal 1990.
Il programma del nuovo Presidente è infatti diametralmente opposto ai cardini del sistema attuale cileno: aumento delle imposte fino all’8% del Pil, riforma del sistema pensionistico oggi totalmente privatizzato, legalizzazione dell’aborto, maggior partecipazione di donne e popoli indigeni nelle istituzioni di Governo, aumento del salario minimo, riduzione della giornata di lavoro e gratuità dei sistemi di salute e sanità. Un programma ambizioso, tenendo in conto che Apruebo Dignidad, la coalizione di Partito comunista e Frente Amplio che sostiene Boric, avrà solo 37 deputati su 155, e che in un congresso fortemente polarizzato il Governo faticherà molto per approvare riforme radicali. In parte questo problema ha segnato la campagna di Boric al secondo turno. L’ex leader delle manifestazioni studentesche ha moderato di molto il proprio discorso, cercando di captare il voto di centro e promettendo un Governo di compromessi con tutti i settori della politica.
Un nuovo Cile?
Il Cile è uno dei Paesi coi migliori indicatori di uguaglianza economica dell’America Latina, in cui però le fasce medie non possono accedere a servizi basici come salute, educazione, o addirittura l’acqua, senza indebitarsi vita natural durante. È questa la pesantissima eredità lasciata dagli alunni cileni di Milton Friedman, approdati alle più alte cariche dello Stato cileno grazie al sanguinoso golpe portato avanti da Pinochet nel 1973, primo fra tutti José Piñera, fratello dell’attuale presidente e ministro dell’economia durante la dittatura. I “Chicago Boys” del guru di Capitalismo e Libertà hanno impostato un sistema profondamente liberista, blindato dalla Costituzione del 1980, che gira intorno all’idea di sussidiarietà dello Stato: la gestione della vita economica delle persone deve essere integralmente consegnata in mano ai privati e i poteri pubblici intervengono solo se questi non possono garantire le prestazioni pattuite.
La vittoria di Gabriel Boric, che aveva solo quattro anni quando Pinochet abbandonò il potere, rappresenta l’ennesimo colpo a questo modello spesso osannato dalle élite latinoamericane e occidentali, ma che la maggior parte dei cileni considera evidentemente esaurito. La retorica della realizzazione personale a partire dallo sforzo individuale si scontra in Cile con una realtà di privilegi ormai insostenibili. Secondo il Peterson Institute for International Economics, il 67% dei multimilionari in Cile deve la propria ricchezza all’eredità famigliare, il 17% alle proprie connessioni col mondo della politica e solo il 16% ha generato la propria fortuna a partire da investimenti produttivi o finanziari. Ed è questo il Cile che la generazione del nuovo Presidente conosce.
Un Governo di sinistra e una chiara egemonia delle diverse espressioni della sinistra cilena anche nella Convenzione Costituente, insediatasi a luglio, potrebbero essere la garanzia di una svolta storica per il Paese. La sinergia tra Governo e costituenti, sorti entrambi dai movimenti che hanno animato le proteste del 2019, sarà uno dei punti forza del nuovo esecutivo, il quale però dovrà fare i conti con pressioni domestiche ed esterne considerevoli affinché le riforme non modifichino l’assetto macroeconomico del Paese.
Svolta a sinistra in America Latina?
Il Cile è il principale produttore di rame del mondo. È il secondo alleato di Washington in America Latina dopo la Colombia. Vanta una proiezione naturale verso il commercio con l’Asia sul Pacifico e verso i territori antartici. È il Paese col maggior numero di trattati di libero scambio della regione e il primo sudamericano a entrare nell’Osce. Negli ultimi quarant’anni il Cile – così come il Messico a partire dagli anni ’80 – si è chiaramente differenziato dal resto dei Paesi latinoamericani che hanno cercato nell’integrazione regionale uno strumento per il proprio inserimento economico e politico nel sistema internazionale. Il Cile ha privilegiato gli accorti bilaterali con le principali potenze del mondo occidentale e il rendiconto garantito dai patti commerciali al di sopra dei legami di solidarietà coi propri vicini. Eppure, anche i capisaldi della politica estera cilena sembrerebbero esser messi in discussione dopo il risultato di domenica.
Il senatore Juan Ignacio Latorre, principale consulente in politica estera del nuovo Presidente, ha chiarito le principali linee guida della visione internazionale del nuovo Governo: nessun allineamento con l’asse bolivariano (Venezuela e Nicaragua in primis, da cui Boric ha già preso le distanze in campagna elettorale), equidistanza e autonomia nella relazione con Usa e Cina (divenuto il principale partner commerciale di Santiago) e ricerca di spazi di consenso e integrazione coi soci latinoamericani, specialmente coi Governi progressisti.
Il primo viaggio all’estero di Boric, secondo quanto trapelato finora, sarà Buenos Aires, con cui le tensioni per la sovranità del mare antartico sono scalate negli ultimi mesi, e parte del repertorio della campagna della destra di Kast. Il primo grande gesto verso la regione del nuovo Governo poi, oltre all’affermazione dell’asse con Buenos Aires, potrebbe essere la ratifica del Trattato di Escazú, primo accordo vincolante sull’ambiente in America Latina, proposto dal Cile di Bachelet e rifiutato in toto dal Governo Piñera. Dunque, un allontanamento dal cammino intrapreso finora, ma non una chiara rottura.
Verso il progressismo latinoamericano?
Quello di Boric è l’ennesimo trionfo della sinistra latinoamericana negli ultimi due anni, dopo quelli di López Obrador in Messico, Fernández in Argentina, Arce in Bolivia, Castillo in Perù e Xiomara Castro in Honduras. E c’è già chi lancia previsioni rosee per il progressismo latinoamericano viste le chiare possibilità di vittoria di Gustavo Petro in Colombia e Lula da Silva in Brasile nel 2022. Le condizioni attuali però sono molto diverse da quelle della “marea rosa” del decennio 2005-2015 in cui la stragrande maggioranza del continente era governata da movimenti appartenenti al Foro de São Paulo.
Le iniziative più innovatrici di quell’epoca (l’Unasur, la Banca del Sur o Petrocaribe) sono fallite miseramente appena è cambiato il vento a favore dei prezzi internazionali delle materie prime. I vizi del regionalismo latinoamericano, come l’estremo presidenzialismo, la subordinazione delle relazioni diplomatiche alle simpatie politiche dei Presidenti, o la sovrapposizione di organismi diversi con i medesimi compiti, rallentano ancora oggi i tiepidi processi di integrazione. L’estrazione politica dei movimenti al Governo oggi nei diversi Paesi latinoamericani, poi, è molto diversa e spesso slegata dall’andamento delle problematiche regionali. Molti dei Presidenti di sinistra sono duramente contestati in patria (da Fernández a Castillo, per non parlare del Nicaragua di Ortega) e hanno dimostrato scarsissima capacità di attrazione a livello latinoamericano.
Sebbene dunque sia molto presto per parlare di una nuova ondata progressista latinoamericana, l’arrivo di Boric al potere modifica chiaramente l’assetto del continente a favore di Governi che propongono politiche fiscali espansive, l’ampliamento del welfare, una nuova agenda verde e il sostegno alle rivendicazioni dei movimenti femministi.
Il programma del nuovo Presidente è infatti diametralmente opposto ai cardini del sistema attuale cileno: aumento delle imposte fino all’8% del Pil, riforma del sistema pensionistico oggi totalmente privatizzato, legalizzazione dell’aborto, maggior partecipazione di donne e popoli indigeni nelle istituzioni di Governo, aumento del salario minimo, riduzione della giornata di lavoro e gratuità dei sistemi di salute e sanità. Un programma ambizioso, tenendo in conto che Apruebo Dignidad, la coalizione di Partito comunista e Frente Amplio che sostiene Boric, avrà solo 37 deputati su 155, e che in un congresso fortemente polarizzato il Governo faticherà molto per approvare riforme radicali. In parte questo problema ha segnato la campagna di Boric al secondo turno. L’ex leader delle manifestazioni studentesche ha moderato di molto il proprio discorso, cercando di captare il voto di centro e promettendo un Governo di compromessi con tutti i settori della politica.