Le organizzazioni multilaterali e i singoli Paesi stanno prendendo nuove misure per ridurre il consumo energetico e rivoluzionare il modello di sviluppo
Nel 2040 nel mondo ci saranno 9,7 miliardi di persone se la fertilità rimarrà costante, altrimenti 8,5 miliardi. Il che significa, secondo lo scenario previsto dal Fondo monetario internazionale, che saranno necessari 736 exajoule (un miliardo di miliardi di joule, l’unità di misura del Sistema internazionale dell’energia). Si tratta all’incirca di 9 milioni di bombe come quella lanciata su Hiroshima.
Se il consumo attuale non è compatibile con la lotta al cambiamento climatico, ancora meno lo sarebbe questo ipotetico consumo futuro colossale. Ma, secondo invece lo scenario dell’Agenzia internazionale per l’energia (Iea) per un mondo efficiente, 625 exajoule nel 2040 potranno bastare.
Mentre diventa sempre più evidente che occorre ridurre drasticamente il nostro fabbisogno, cosa si sta facendo per riuscirci? Una precisazione è indispensabile: non è il fabbisogno del mondo intero a dover crollare. Al momento un baratro divide ancora i Paesi sviluppati da quelli in via di sviluppo.
Il superamento della povertà energetica
I ricercatori dell’Istituto internazionale per l’analisi dei sistemi applicati hanno studiato il cosiddetto “standard di vita dignitoso”: un insieme di requisiti materiali come cibo, riparo adeguato, acqua potabile, servizi igienici, trasporti e tecnologie di comunicazione. Dalle loro conclusioni, il superamento della povertà energetica può − o anche, in maniera cruciale, deve − essere conciliato con gli sforzi per raggiungere gli obiettivi climatici.
“La sfida più grande per i responsabili politici sarà quella di raggiungere un’equa distribuzione dell’accesso all’energia in tutto il mondo, che attualmente è ancora fuori portata”, afferma Jarmo Kikstra, autore principale e ricercatore presso il programma Energia, clima e ambiente.
Secondo lo studio, la quantità di energia necessaria per una vita dignitosa in tutto il mondo è meno della metà della domanda energetica finale totale prevista nella maggior parte dei percorsi futuri in cui la temperatura globale resta accettabile. Risulta allora un surplus “inaspettato”. “Anche in scenari molto ambiziosi di sradicamento della povertà e mitigazione del clima, c’è ancora molta energia disponibile per il benessere”, dice il co-autore Alessio Mastrucci.
In questa direzione si sono mosse le organizzazioni multilaterali negli ultimi anni. A cominciare dalle Nazioni Unite, che con l’Accordo di Parigi nel 2015 hanno stabilito di mantenere l’aumento della temperatura globale “ben al di sotto” dei 2 gradi Celsius in più rispetto ai livelli preindustriali. Questo significa, in termini di consumo energetico, rendere più efficienti i nostri edifici e mezzi di trasporto e in ogni caso puntare sulle rinnovabili.
L’efficienza delle abitazioni è un punto dolente, specialmente con l’inflazione vista negli ultimi mesi. Tra giugno e settembre, infatti, il costo del consumo di gas è aumentato di quasi l’8% in Europa (Belgio e Francia i più colpiti) e di quasi il 7% negli Stati Uniti. Nel Regno Unito, l’impennata ha raggiunto il 30% nell’ultimo anno.
Ma un terzo dell’energia utilizzata nelle case europee e metà di quella nelle case americane proviene ancora dal gas, nonostante sia uno dei combustibili fossili da cui dovremmo allontanarci.
Verso la transizione energetica
L’importanza della transizione energetica è stata al cuore della presidenza italiana del G20. Durante l’incontro di Napoli a luglio, tutti i leader coinvolti (comprese Cina, India e Russia) hanno sottoscritto il documento finale della ministeriale Energia e Clima e concordato che la transizione energetica verso le energie rinnovabili sia la chiave per la ripresa dalla pandemia.
Secondo il Climate Action Network (CAN) Europa, “oltre a una rapida mobilitazione dei potenziali di risparmio energetico,” occorre “un’eliminazione graduale del carbone entro il 2030 e del gas fossile entro il 2035”. Per riuscirci, possiamo già contare su fonti rinnovabili sempre più economiche. Mancano le infrastrutture: CAN Europa esorta i responsabili politici a prepararsi per la totalità dell’energia di provenienza rinnovabile, creando nuove reti a prova di futuro.
I negoziatori alla conferenza delle parti di Glasgow, Cop26, avrebbero dovuto trovare un modo per aumentare l’uso delle energie rinnovabili anche nei paesi in via di sviluppo. In effetti il 4 novembre un gruppo di paesi (tra cui Canada, Germania, Indonesia, Polonia, Corea del Sud, Ucraina e Vietnam che sul carbone fanno molto affidamento) ha annunciato l’impegno a eliminare definitivamente il carbone dal novero delle fonti energetiche.
È un problema di domanda e offerta. Prendiamo l’esempio dei Paesi responsabili del maggior numero di emissioni su base assoluta: Cina, Stati Uniti e l’Unione europea.
Cosa stanno facendo Cina, Usa e Ue
In Cina, che punta a raggiungere la neutralità carbonica prima del 2060, il settore energetico è la fonte di quasi il 90% delle emissioni di gas serra. Uno studio dell’International Energy Agency (IEA) mostra che gli investimenti necessari per poter raggiungere i suoi obiettivi (garantendo al tempo stesso la sicurezza energetica e l’accessibilità economica per i suoi cittadini) rientrano ampiamente nelle capacità economiche del paese.
Dall’altra parte dell’oceano Pacifico, l’amministrazione Biden ha presentato un nuovo quadro nell’ambito del suo piano Build Back Better poco prima di Cop26. Questo include 555 miliardi di dollari dedicati alla riduzione delle emissioni di gas serra, il più grande investimento climatico nella storia degli Stati Uniti.
In Europa, il maxi pacchetto Fit for 55 presentato a luglio include tutte le proposte normative studiate dalla Commissione Ue per ridurre le emissioni nette di gas serra di almeno il 55% entro il 2030. Lo scopo è rendere l’Europa il primo continente a impatto climatico zero entro il 2050 e così realizzare il Green Deal. Tra le iniziative: la nuova direttiva (Ets) per il sistema di scambio di quote di emissioni legate alle industrie ad alta intensità energetica e all’aviazione commerciale che dovranno diminuire del 61%, lo stop alla vendita di auto benzina e diesel dal 2035 in poi, il rinnovo del 3% degli edifici nel settore pubblico ogni anno.
Ci sono anche i singoli target nazionali per gli Stati membri dell’Ue, che insieme si sono impegnati alla rimozione di 310 milioni di tonnellate di emissioni di CO2 entro il 2030.
L’Italia ha pubblicato la sua strategia di lungo termine sulla riduzione delle emissioni dei gas a effetto serra all’inizio del 2021. Al capitolo dedicato alla domanda di energia, si legge che “una prima importante sfida è che i consumi finali devono scendere sensibilmente, di circa il 40% rispetto a quelli attuali”. Anche qui si nota che “lo sforzo aggiuntivo deve essere concentrato soprattutto nel settore residenziale/commerciale e in quello dei trasporti”: il tasso annuale di riqualificazione degli immobili dovrebbe salire al 2% nel 2050.
Resta ancora molto da fare
Ma “la riduzione dei consumi si deve accompagnare a una importante ricomposizione di fonti e vettori energetici impiegati”: per esempio, le rinnovabili dovrebbero coprire non meno dell’85-90% dei consumi finali. “È tuttavia auspicabile un cambio di atteggiamento da parte dei diversi livelli istituzionali, dei cittadini e delle imprese, in quanto troppo spesso il percorso verso la decarbonizzazione incontra molte resistenze”, sottolinea il documento.
Resta insomma ancora molto lavoro da fare e la partita più importante si gioca fuori dalle grandi potenze mondiali.
Secondo una ricerca del McKinsey Global Institute sui Paesi in via di sviluppo, i vantaggi di una maggiore efficienza energetica sono ottenibili con un investimento di 90 miliardi di dollari all’anno nei prossimi 12 anni. A causa del minor costo del lavoro, il prezzo da pagare per investire nella produttività energetica è in media del 35% inferiore nelle economie in via di sviluppo rispetto a quelle avanzate. Del resto, vale lo stesso ovunque: “Ogni edificio o impianto industriale costruito senza un’efficienza energetica ottimale rappresenta un’occasione persa”.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di gennaio/febbraio di eastwest.
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