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COP 28: Green New Deal for Future


La strana e surreale COP 28, organizzata dai petrolieri per liberare il mondo dall'inquinamento prodotto dal petrolio, sembrava destinata a essere la più inconcludente di sempre ma è risultata, a sorpresa, la più incisiva di tutte.

Il bello della politica è che non sai mai cosa aspettarti.

Anche quando le cose sembrano scritte, alla fine, succede sempre qualcosa.

A volte è qualcosa di molto brutto, come una pandemia o una guerra che piombano sulle nostre vite all’improvviso e le sconquassano. Altre è qualcosa di molto bello, come l’arrivo di un vaccino che ci restituisce la normalità o come una guerra che finisce. Altre ancora, e per la verità si tratta della maggior parte di queste, succede qualcosa di imprevisto: qualcosa il cui arrivo non era stato visto, immaginato, considerato possibile.

È successo, per esempio, poche settimane fa. Lo scorso dicembre. A Dubai, il 13 dicembre. Mentre noi qui eravamo affaccendati tra regali e regalini, laggiù ci si stava preparando a smantellare la COP28. Gli spazi andavano liberati perché di lì a poche ore scadeva il tempo per il quale gli spazi di EXPO Dubai erano stati riservati alla Conferenza da parte dell’ONU, il più grande appuntamento politico del mondo, tutto concentrato sul tema dell’ambiente, e bisognava fare spazio per chi li aveva prenotati per il giorno dopo: i mercatini di Natale (in un paese arabo, sì, ma, per fortuna o purtroppo, il mondo non è più quello di una volta. E nemmeno il Natale).

Eppure alla vigilia di quello sfratto, non c’era ancora niente. Dopo due settimane di negoziati, non c’era uno straccio di  bozza condivisa, di accordo, di principio condiviso, di risultato che potesse toccarsi e che potesse dimostrare che questa ventottesima COP non era stata solo una passerella, e solo un’infilata di belle parole e brutte bugie.

Non c’era nulla e nella sala stampa la tensione correva palpabile, divisa tra chi scuoteva la testa sconfortato e inseguiva il ministro per le risorse naturali delle Isole Marshall John M. Silk che, senza pudore di piangere davanti a tutti, diceva “Non ce ne andremo silenziosamente nelle nostre tombe d’acqua”, e chi, con aria navigata, diceva che era tutto prevedibile, che si sapeva da un pezzo che questa COP non sarebbe andata a parare da nessuna parte.

Del resto, questa era una COP nata zoppa, perché organizzata da un Paese produttore di petrolio, che regge tutta la sua (ricchissima) economia sulla dipendenza del mondo del petrolio, e perchè presieduta da Sultan Al Jaber, uno che di mestiere, nella vita normale, non fa il presidente di conferenze sul clima, ma il petroliere: produce e vende petrolio. E che – giustamente, perchè, alla fine, è il suo lavoro – cerca di produrne e di venderne il più possibile, e se inquina, pazienza.

Quindi, quando la COP è iniziata, alla fine di novembre, e alla vigilia della sua fine, a metà dicembre, questa conferenza aveva tutto l’aspetto di una pagina già scritta, un film di cui si conosce il finale fin dalla prima scena, di un preannunciato buco nell’acqua.

Poi, però, è successo, qualcosa.

Qualcosa le cui ragioni sono difficili da leggere, ma che hanno a che fare, prima di tutto con le persone e con la volontà politica occidentale, in particolare europea.

L’Ue, infatti, anche se priva del suo tedoforo ambientalista Frans Timmermans, era stata molto chiara alla vigilia della COP e aveva messo in chiaro che non avrebbe accettato niente che non prevedesse l’aumento (addirittura la triplicazione) dell’energia prodotta da fonti rinnovabili e un accordo all’eliminazione graduale dei combustibili fossili.

Una serie di condizioni, quelle europee, che sembravano destinate a restare lettera morta nella COP dei petrolieri.

Eppure, poi, come dicevamo, qualcosa è successo.

Qualcosa che può avere a che fare con volontà dei singoli individui di passare alla storia, con la consapevolezza della non potabilità e non accettabilità politica e sociale di un nulla di fatto, o forse con la consapevolezza e l’aritmetica delle cose: il clima cambia, negarlo non ha più senso, mostrarsi inermi non solo non è più accettabile, ma nemmeno possibile. E neppure vantaggioso perchè, alla lunga, i costi economici della crisi climatica potrebbero essere più alti della sua, pur tardiva, prevenzione.

Per una sola di queste cose, o forse per tutte insieme, alla fine, a sorpresa, qualcosa a Dubai è successo.

In particolare è successo che la COP, alla fine, si è sbloccata e che questa strana e un po’ surreale conferenza delle parti organizzata dai petrolieri per liberare il mondo dall’inquinamento prodotto dal petrolio, alla fine si è trasformata dall’essere destinata a essere la più inconcludente di sempre a essere la più incisiva di tutte. La prima a pronunciarsi in modo esplicito contro i combustibili fossili.

Infatti, alla fine, la dichiarazione conclusiva di COP 28, è di 34 parole. Parole che, così in fila, nessuno aveva mai visto, e che auspicano “Una transizione dai combustibili fossili in un modo equo e ordinato, che acceleri nel prossimo decennio, così da raggiungere emissioni nette pari a zero nel 2050, in accordo con le conclusioni della scienza”.

Sembra poco, e probabilmente lo è, ma non solo è tutto quello che abbiamo. Ma è il massimo che sia mai stato raggiunto.

Infatti, benchè le COP siano lo strumento più ampio di discussione presente al mondo (non esiste niente che, oggi, paia paragonabile; non esiste nessun altro contesto nel quale siedono, allo stesso tavolo, più di duecento paesi, in un modo trasversale ad alleanze, interessi economici e partnership) e benché le COP abbiano circa 30 anni (la prima, nel 1995, è stata presieduta da una giovanissima Angela Merkel, all’epoca Ministro dell’Ambiente), mai, sino ad ora, si era arrivati a mettere in relazione diretta cambiamento climatico e fonti fossili.

Può sembrare assurdo (e in realtà lo è), ma dal 1995 allo scorso dicembre, le COP erano state vaghe geremiadi sul fatto che il pianeta andava salvato, che il clima era in pericolo (signora mia) e che insomma bisognava ridurre l’inquinamento e contenere il surriscaldamento del pianeta entro il grado e mezzo rispetto all’epoca pre-industriale. Poi, però, al momento di dire come e facendo cosa e dove, tutti si guardavano intorno con aria perplessa. “Boh, non saprei…’.

Più che una Conferenza delle Parti, un gioco delle parti.

Questo perché, per quanto sia vero che alle COP i Paesi siedono in modo paritetico allo stesso tavolo, è anche vero che quelli ambientali non sono gli unici interessi in gioco. Forse sono quelli che ha più senso tutelare, quelli la cui non tutela ha (e avrà) gli effetti più esiziali nel medio e lungo periodo. Ma, nel mondo vero, non esistono solo gli interessi di medio e lungo termine. Esistono anche quelli di breve e brevissimo termine. E, in genere, è di quelli che ci si preoccupa per primi.

E sino a questo punto, gli interessi più urgenti, ritenuti prioritari rispetto a quelli ambientali, sono sempre stati quelli economici.

E lo sono ancora, intendiamoci.

Solo che, nel frattempo, è successo, appunto qualcosa.

E questo qualcosa è stato che la tutela ambientale ha smesso di essere una medicina amara per diventare un ottimo affare.

Per capire come e quando, occorre spostare lo sguardo da Dubai un po’ più a nord, e cioè all’Europa e agli Stati Uniti.

Il ruolo di questi due soggetti alle COP è da sempre particolarmente controverso. Questo perché è notorio che il pasticcio ambientale e climatico nel quale ci troviamo tutti è stato causato dallo sviluppo enorme e velocissimo dei Paesi Europei e degli Stati Uniti. La rivoluzione industriale è cominciata lì, la diffusione dell’auto è cominciata lì (e lì a lungo è rimasta), il consumismo più forsennato è cominciato lì (e lì a lungo è rimasto). Il problema però è che il conto climatico di tutta questa crescita è ricaduto sul pianeta intero, mentre i vantaggi solo a Stati Uniti e Europa. Questo ha sempre reso la voce dei Paesi occidentali per forza di cose smorzata: a che titolo chiedevano ad altri Paesi, per giunta più poveri, di fare sacrifici per riparare un debito climatico che loro stessi avevano contratto? A che titolo chiedevano ad altri Paesi, per giunta più poveri, di fare sacrifici che loro stessi non avevano intenzione di fare?

Poi però, ancora una volta, è successo qualcosa.

Anzi, di cose ne sono successe tre, la prima causa della seconda, la seconda causa della terza.

La prima è stata che la crisi climatica ha smesso di essere un’ipotesi teorica e lontana e ha preso a farsi tangibile, evidente, plastica.

Questo ha innescato la seconda cosa: ossia che il cambiamento climatico e la necessità di una transizione energetica  hanno ottenuto l’attenzione dell’opinione pubblica e sono diventati un tema elettorale. Uno dei pochi, per altro, in grado di catalizzare voti e interesse (specie dall’altrimenti piuttosto riluttante elettorato giovanile).

Il più grande successo elettorale delle istanze ambientaliste è stato probabilmente quello delle europee: in Francia, Germania e Regno Unito, i partiti verdi sono andati fortissimo e hanno ottenuto la loro delegazione più ampia di sempre (75 seggi) a Strasburgo.

I verdi, in realtà, non sono mai entrati nella “maggioranza Ursula”, quella che ha sostenuto la presidente della Commissione Europea Von der Leyen, e a Strasburgo hanno avuto un peso piuttosto limitato, ma il peso del loro elettorato è stato importante.

Questo perché la commissione Von der Leyen si è insediata come la più debole di sempre (appena 9 voti) e perché la Presidente sapeva che, non essendo particolarmente amata (eufemismo) dall’aula, doveva almeno cercare popolarità all’esterno.

E che per farlo serviva una presa di posizione che fosse forte, visibile, riconoscibile.

Questa presa di posizione (prima che arrivassero  il Covid e il piano Next Generation EU) è stata la scrittura del Green New Deal.

Il Green New Deal, oltre che un piano di riduzione dell’impatto ambientale delle attività industriali e civili, è soprattutto un gigantesco piano di investimenti. Circa mille miliardi messi sul piatto affinché il sistema industriale e infrastrutturale europeo cercasse e trovasse modi per non inquinare o, almeno, per farlo meno. Lo stesso, mesi dopo, ha fatto l’amministrazione americana di Joe Biden, sia con il piano per le infrastrutture (circa 1000 miliardi), sia con l’IRA (il piano anti inflazione che contiene enormi incentivi per la produzione di energia da fonti sostenibili).

E qui arriva la terza cosa.

Il fatto che la tutela del clima da intenzione si è trasformata in azione. Da auspicio, in affare.

La ragione per cui, per la prima volta, ad una COP, per giunta una COP organizzata da un petro-stato, si è scritto nero su bianco che c’è una relazione diretta tra crisi climatica e combustibili fossili, è figlia del fatto che per la prima volta si è vista un’alternativa al petrolio che fosse non solo percorribile, ma conveniente e proficua.

E questo processo, questa trasformazione da amara medicina in ottimo affare, affonda le sue radici in Europa. Nell’Europa in cui sono nati i Friday for Future, nell’Europa in cui i partiti verdi hanno ottenuto buoni risultati, nell’Europa in cui il clima è diventato tema elettorale.

Nella stessa Europa in cui, per ironia della sorte, il primo motore a scoppio è stato inventato e tutto questo pasticcio iniziato.

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