Le nazioni insulari del Pacifico sono più interessate a soddisfare le loro necessità che alla competizione geopolitica. Nello specifico, chiedono aiuto per gestire l’impatto dei cambiamenti climatici e per contrastare la pesca illegale
Il coordinatore per l’Indo-Pacifico dell’amministrazione di Joe Biden, Kurt Campbell, ha detto che gli Stati Uniti saranno diplomaticamente più attivi e presenti nel Pacifico, il principale teatro strategico della competizione con la Cina.
Presenza diplomatica sul posto
Questo engagement si tradurrà in più sedi di rappresentanza diplomatica e in contatti di alto livello anche con quelle isole del Pacifico che a volte “ricevono meno attenzione”. “Niente sostituisce davvero gli uomini diplomatici sul posto”, ha detto Campbell nel corso del suo intervento, giovedì scorso, al Centro per gli studi strategici e internazionali (CSIS), un think tank con sede a Washington. Il coordinatore ha utilizzato un’espressione (boots on the ground, preceduta però dall’aggettivo diplomatic) solitamente impiegata dagli analisti per riferirsi al potenziamento della presenza militare americana nei Paesi della Nato in Europa orientale.
Nonostante l’invasione russa dell’Ucraina, la priorità degli Stati Uniti rimane l’Indo-Pacifico, al quale dicono di volere destinare maggiori risorse per rispondere ai tentativi della Cina di espandere la propria influenza economica e militare sull’area. Attraverso gli investimenti e i patti sulla sicurezza, Pechino potrebbe volersi garantire delle postazioni per proiettare potenza marittima al di là delle sue coste: è quanto temono gli americani e gli alleati dopo l’accordo con le isole Salomone e dopo il piano di ammodernamento della base navale di Ream, in Cambogia.
Cina e sovranità
“La sovranità è fondamentale per il modo in cui vediamo il Pacifico nel complesso”, ha spiegato Campbell, parlando dell’approccio statunitense alla regione. “Qualsiasi iniziativa che comprometta o metta in discussione tale sovranità, credo che ci preoccuperebbe”. Non ha menzionato esplicitamente la Cina, ma il riferimento era evidente. Per disincentivare i Governi stranieri a stringere accordi con Pechino, tradizionalmente Washington cerca appunto di presentare quelle intese come “troppo belle per essere vere”: dietro ai vantaggi esibiti, cioè, si nasconderebbero insidie e vincoli alla sovranità (ad esempio l’acquisizione cinese di infrastrutture strategiche).
Il mese scorso gli Stati federati di Micronesia, nel respingere la “Visione di sviluppo” regionale proposta della Cina, dissero appunto che l’adesione al patto avrebbe portato le isole pacifiche “molto vicino all’orbita di Pechino, legandovi intrinsecamente le nostre economie e società”. L’accordo multilaterale, alla fine, è saltato.
Gli Stati Uniti hanno intenzione di aprire presto un’ambasciata nelle isole Salomone, e Campbell ha fatto sapere che le Figi – repubblica insulare in Oceania, a est dell’Australia – sarà uno dei “poli” della politica di engagement di Washington. “Il nostro mantra sarà: ‘Niente nel Pacifico senza il Pacifico’. Non diamo per scontati questi legami”.
Cosa vogliono le isole del Pacifico (non la geopolitica)
Il coordinatore ha ammesso che non sempre l’America ha tenuto sufficientemente conto delle esigenze delle isole del Pacifico, poco appassionate alla great power competition e allo schieramento e più interessate a soddisfare le loro necessità economiche e sociali. L’inviato alle Nazioni Unite di Samoa, un arcipelago nell’Oceano Pacifico meridionale, ha spiegato molto bene la situazione: “Se chiedete [aiuto] a un determinato Paese ma non è in grado di aiutarvi, potete scegliere se dire no, non forniremo quel servizio alla popolazione; oppure potete andare da un altro Paese che forse non è il partner tradizionale e dirgli: Puoi aiutarci?”.
A questo proposito Monica Medina, responsabile per gli Oceani e gli affari ambientali e scientifici internazionali al dipartimento di Stato, ha dichiarato che le nazioni insulari del Pacifico hanno bisogno di aiuto per gestire l’impatto dei cambiamenti climatici e per contrastare la pesca illegale. A maggio il Quad – il quadrilatero sulla sicurezza tra Stati Uniti, Giappone, Australia e India – aveva avviato un’iniziativa di monitoraggio satellitare dei pescherecci nella regione. Qualche settimana prima Washington aveva annunciato l’invio di imbarcazioni della Guardia costiera per pattugliare le acque asiatiche.
“Sappiamo che abbiamo molto, molto, molto altro lavoro da fare”, ha ammesso però Medina. Fino ad oggi l’America si è focalizzata parecchio sulle partnership per la sicurezza e poco sulle iniziative economiche-commerciali: l’Indo-Pacific Economic Framework è solo un mezzo passo in avanti, perché non è un accordo di libero scambio tradizionale e non abbassa le barriere d’accesso al mercato statunitense.
Un impegno costante e prevedibile
Le isole del Pacifico – così ha detto l’ambasciatore delle Figi alle Nazioni Unite durante l’evento del CSIS con Campbell – vogliono “una partnership duratura con gli Stati Uniti”, che sia di lungo termine, prevedibile e non soggetta a “stop-start”, cioè a interruzioni e riavvii continui. Un probabile riferimento all’approccio dell’ex Presidente Donald Trump in politica estera, che ha creato dubbi sull’affidabilità americana.
Le nazioni insulari del Pacifico sono più interessate a soddisfare le loro necessità che alla competizione geopolitica. Nello specifico, chiedono aiuto per gestire l’impatto dei cambiamenti climatici e per contrastare la pesca illegale