Tre milioni e mezzo di elettori turchi vivono all’estero: in Germania e in Francia, dove vive la prima e seconda comunità turca per dimensioni, Erdoğan ha avuto un consenso molto maggiore che non in TurchiaIl 14 maggio si è votato in Turchia, ma non solo. Le elezioni per scegliere il Presidente e la composizione del nuovo Parlamento non si sono infatti tenute soltanto all’interno dei confini nazionali, ma anche all’estero. Alle urne potevano recarsi circa tre milioni e mezzo di cittadini turchi che vivono fuori dal proprio Paese d’origine, ma che continuano ad avere il passaporto di Ankara e mantengono perciò il diritto di voto.
Visti i numeri significativi, il voto degli emigrati è sempre stato importante, da quando è stato introdotto nel 2012. In questa tornata, tuttavia, era naturale che la diaspora assumesse un ruolo cruciale, dato che era chiaro che le elezioni turche si sarebbero decise sulla base di dettagli. I sondaggi indicavano infatti una lotta serrata tra l’AKP di Recep Tayyip Erdoğan e la coalizione di opposizione guidata da Kemal Kiriçdaroğlu. Ed il Presidente uscente sperava che fossero proprio i turchi all’estero a regalargli la riconferma.
Non si trattava di speranze campate per aria, anzi. Alla fine Erdoğan non è riuscito ad ottenere una vittoria, per lo meno non al primo turno, ma di certo non può dare la colpa ai turchi che vivono nel resto d’Europa. In Germania, Paese in cui si concentrano 1,4 milioni di emigrati turchi con diritto di voto, Erdoğan ha ottenuto ben due terzi dei voti, un risultato nettamente migliore rispetto al 49% registrato in patria. In Francia, dove vive la seconda comunità turca per dimensioni, ha ottenuto percentuali di poco inferiori a quelle tedesche. E in Austria si è spinto fino al 72%.
Sarebbe sbagliato, va detto, parlare di una tendenza univoca. In altri stati a dominare è stata invece l’opposizione, che ha ottenuto percentuali schiaccianti nel Regno Unito, in Polonia e nei Paesi Baltici e che ha registrato buoni risultati anche in Svezia e nei Balcani. Ma si tratta di aree in cui la presenza turca è estremamente limitata, ed i cui risultati hanno quindi un’incidenza minima sul bilancio finale.
Se i risultati hanno certamente fatto notizia, non si può dire che abbiano colto di sorpresa gli analisti, né che si siano discostati da quelli del passato. In Germania, anzi, Erdoğan gode di un consenso stabile, a prescindere dal tipo di elezione, dai temi e da chi tenta di sfidarlo: aveva ottenuto percentuali molto vicine a quella di quest’anno anche in occasione del referendum costituzionale del 2017 e delle elezioni presidenziali dell’anno successivo.
Le ragioni del suo supporto sono infatti strutturali, non tanto legate ai temi e alle singole campagne elettorali, e derivano in primis dalle caratteristiche della diaspora negli stati come Germania, Austria e Francia, in cui la loro presenza è storica. Arrivati nel corso del boom economico europeo come forza lavoro, i turchi che vivono in questi stati sono emigrati dall’Anatolia profonda, un’area caratterizzata da un forte conservatorismo religioso e sociale. Nel corso dei decenni, questi gruppi hanno conosciuto un’integrazione e un’europeizzazione solo parziali: spesso, anzi, la marginalizzazione che hanno subito ha fatto sì che si sviluppassero come comunità chiuse. Ancora oggi, quindi, gli emigrati e i loro discendenti appoggiano l’idea di una Turchia religiosa, proposta da Erdoğan, molto più di quanto non siano attratti dalla visione maggiormente laica dell’opposizione.
Erdoğan non è però appoggiato soltanto per le caratteristiche culturali della diaspora, ma anche per quello che ha realizzato nei vent’anni in cui è stato al potere: nonostante la crisi attuale, infatti, da molti il Presidente uscente è visto come il fautore del miracolo economico turco. Anche in questo caso, l’appoggio è maggiore da parte degli emigrati arrivati in Europa nei tardi anni Sessanta, che venivano dalle aree più povere del Paese e hanno potuto osservare un netto miglioramento delle condizioni di vita di chi vive in Turchia.
Anche il nazionalismo gioca un ruolo di primo piano, nel garantire un appoggio a Erdoğan. L’immagine di una grande Turchia promossa dal Presidente ha molti sostenitori tra gli emigrati e tra le seconde generazioni: questi, che vivono in un contesto spesso sfavorevole e discriminatorio, sono infatti rassicurati ed in qualche modo vendicati da una patria forte e spesso in opposizione con l’Occidente.
La diaspora turca non è però immobile e negli ultimi anni sta conoscendo importanti trasformazioni. A partire dal fallito colpo di stato del 2016 e dalla conseguente repressione politica, dalla Turchia ha infatti iniziato ad uscire un numero sempre maggiore di oppositori e membri delle minoranze. Arrivati spesso come richiedenti asilo, questi si sono diretti verso gli stati con una maggiore presenza turca, ma anche e soprattutto verso il Nord Europa, andando a creare nuove comunità turche con caratteristiche totalmente diverse rispetto a quelle dei gruppi storici.
In Gran Bretagna, Svezia e Paesi Baltici, quindi, la diaspora turca è per lo più composta da persone con un’educazione di alto livello, politici di sinistra o ambientalisti, ma anche curdi e ciprioti del Nord. E questo si riflette anche sul voto, in cui i nazionalisti di Erdogan finiscono in minoranza.
Non si trattava di speranze campate per aria, anzi. Alla fine Erdoğan non è riuscito ad ottenere una vittoria, per lo meno non al primo turno, ma di certo non può dare la colpa ai turchi che vivono nel resto d’Europa. In Germania, Paese in cui si concentrano 1,4 milioni di emigrati turchi con diritto di voto, Erdoğan ha ottenuto ben due terzi dei voti, un risultato nettamente migliore rispetto al 49% registrato in patria. In Francia, dove vive la seconda comunità turca per dimensioni, ha ottenuto percentuali di poco inferiori a quelle tedesche. E in Austria si è spinto fino al 72%.