George Floyd: chi era veramente e perché il caso ha infiammato le elezioni
Non sappiamo quanto la morte di George Floyd abbia contribuito alla sconfitta di Trump ma l’empatia generale ha prodotto le elezioni più partecipate negli ultimi 120 anni
Non sappiamo quanto la morte di George Floyd abbia contribuito alla sconfitta di Trump ma l’empatia generale ha prodotto le elezioni più partecipate negli ultimi 120 anni
The Third Ward è un grande quartiere di case basse nella parte sud di Houston, in Texas. Edilizia popolare, mattoni rossi, era molto apprezzato negli anni ‘30 dagli afroamericani che lasciavano le altre zone nel sud degli Usa e andavano in cerca di lavoro. La vita notturna sfavillante e l’entusiasmo della prima ondata però si erano spenti presto. Come in molte altre città del Paese, le banche rifiutavano di concedere mutui per acquistare le abitazioni nel Third Ward e quindi si creava una selezione al contrario: quelle case attiravano la parte di popolazione che può pagare un affitto ma non comprare. I più poveri. Che era un modo neutro per dire gli afroamericani. Un paio di autostrade piazzate in modo strategico dal piano urbanistico per separare il quartiere dal resto della città avevano aumentato il senso di segregazione.
George Floyd: da dove veniva
Di fatto, il cosiddetto redlining era una pratica per concentrare la minoranza afroamericana in una zona ed evitare che si mescolasse con gli altri quartieri di Houston. È una pratica che in seguito è stata riconosciuta come razzista, ma è andata avanti fino agli anni ‘80 e siccome il mercato immobiliare e la demografia si muovono con lentezza le conseguenze di questa pratica si vedranno ancora per qualche anno. George Floyd è l’afroamericano ucciso dalla polizia a fine maggio a Minneapolis, a 2000 km da Houston, ma è cresciuto e ha passato la maggior parte della sua vita in un angolo del Third Ward che si chiama Bricks, i mattoni, un riferimento agli onnipresenti mattoni rossi. È anche il quartiere da dove viene Beyoncé, la stella del pop americano.
La mamma di Floyd era una donna separata che i vicini consideravano forte. Era un’attivista, aveva le idee chiare, frequentava la comunità religiosa locale e si occupava anche dei figli degli altri. Floyd non dava problemi. Al primo anno di liceo era già alto 1,80 cm e aveva talento per gli sport. Assieme alla corporatura sovradimensionata aveva anche un buon carattere, i suoi compagni di squadra hanno raccontato che dopo ogni partita andata male era lui a rompere la tensione con una battuta. Lo chiamavano Perry, che è il suo secondo nome. La sua squadra di football americano vinse il campionato dei licei del Texas nel 1992 e detta così sembra una cosa amatoriale, ma è un risultato di alto livello. Pubblico, sponsor, stadi pieni, dirette televisive. Alla fine del liceo Floyd aveva confidato ai suoi amici: “Voglio toccare il mondo”, cioè provare lo sport da professionista, basket e football americano. Per uno con le sue qualità era la strada diretta per uscire dal Third Ward.
George Floyd: gli studi e il lavoro
E infatti per due anni è andato all’università, che negli Usa costa parecchio, grazie ai meriti sportivi. Poi aveva mollato. Non sappiamo perché, succede, per uno che diventa un professionista ce ne sono cento che lasciano. Di nuovo ai Mattoni a 23 anni, Floyd aveva cominciato a occuparsi di macchine da truccare e modificare – una subcultura dove avere ruote con i cerchioni enormi fa guadagnare punti – e di musica hip-hop. Cantava con un registro di voce molto basso che lo rendeva particolare. Ma la fine della carriera sportiva e il ritorno a casa avevano coinciso con l’inizio dei suoi problemi. Droga, furti, violazione di proprietà. Tra il 1997 e il 2005 Floyd è finito 8 volte in prigione. La condanna più seria fu a 4 anni per rapina, era entrato armato in una casa. La sua fedina penale è stata rispolverata da molti a giugno per dimostrare che era un soggetto pericoloso.
Fuori di prigione Floyd era diventato religioso, si era trasformato in tuttofare per la chiesa locale dei metodisti, si occupava di assistenza ai poveri. Passava molto tempo alla Chiesa della Resurrezione, che tiene molti dei suoi servizi religiosi nel campo da basket lì vicino. La sua specialità era spostare la grande vasca per i battesimi da dentro la chiesa fino al centro del campo da basket. I battesimi sono un momento spettacolare del rito metodista e lui a suo modo era entrato a farne parte. Non lo chiamavano più Perry, ma Big Floyd. Lavorava al centro di assistenza per le persone in difficoltà e allo stesso tempo era anche uno degli assistiti.
George Floyd: la morte
Tre anni fa la chiesa lo aveva spostato a Minneapolis, in Minnesota. Tutti nella comunità sanno cosa vuol dire, è una specie di ripartenza, la chiesa trasferisce alcuni uomini per fargli cambiare ambiente e tenerli lontani dal Third Ward. Floyd si era trovato lavoro come camionista e faceva la guardia per l’Esercito della Salvezza, un ente benefico che si occupa di senzatetto. Faceva anche il buttafuori in un locale che si chiamava El Nuevo Rodeo (è stato distrutto da un rogo) e che il giovedì sera si animava molto perché era il giorno della gara di ballo.
Floyd lavorava all’interno del locale e a lavorare fuori, seduto nella sua macchina ma fuori servizio, c’era Derek Chauvin, il poliziotto che lo ucciderà. Anche Chauvin era pagato per occuparsi della sicurezza, ma interveniva soltanto in caso di problemi più gravi del solito. Era considerato troppo nervoso perché metteva subito mano alla bomboletta del peperoncino spray. Ci sono due versioni a proposito dei suoi rapporti con Big Floyd. Secondo alcuni non si conoscevano nemmeno, perché lo staff era di trenta persone assegnate a compiti diversi. Secondo altri si conoscevano e c’era stato un litigio, Chauvin non era contento dei soldi che aveva ricevuto dopo una serata, a darglieli in mano era stato Floyd, aveva protestato. L’idea che Chauvin sapesse benissimo chi fosse Floyd e durante l’arresto abbia usato la mano pesante per prendersi una vendetta personale sarà affrontata durante il processo.
La sera del 25 maggio la polizia ha arrestato Floyd davanti a un negozio perché il commesso adolescente aveva telefonato al 911 per dire che un uomo gli aveva rifilato una banconota da 20 dollari falsa. Chauvin ha messo un ginocchio sopra la testa di Floyd e lo ha soffocato, una ragazza che passava ha ripreso tutta la scena con il telefonino.
L’ondata di proteste
L’uccisione e il video hanno toccato la combinazione giusta di pulsanti nella coscienza americana e hanno scatenato un’ondata di proteste da un capo all’altro dell’America. Tutte le città un minimo rilevanti hanno visto manifestazioni nelle strade e in alcuni casi violenze e saccheggi. Ci sono almeno due spiegazioni, che in parte si sovrappongono. La prima è l’esasperazione di lungo corso. Gli afroamericani si sentono ancora bloccati in un limbo, passano i decenni ma le loro condizioni non migliorano e se migliorano lo fanno al rallentatore. Vedono esempi di successo, altri afroamericani che raggiungono la cima della scala sociale, e però conoscono e subiscono la brutalità nelle strade come se non si fossero mai staccati dal fondo.
Barack Obama è diventato il primo Presidente afroamericano nel 2008. Beyoncé è partita dal Third Ward ed è diventata la cantante più celebre del Paese. Ma le storie positive non sono abbastanza. La normalità è fatta di quartieri afroamericani decisi da piani regolatori degli anni ‘30 e di casi come quello di Floyd, che è speciale soltanto per una ragione: è stato ripreso alla perfezione da un paio di metri di distanza. Secondo uno studio di Pew Research fatto questa estate, il 74% degli elettori già registrati che dichiaravano di voler votare per Biden sosteneva che “essere neri è molto più difficile che essere bianchi in questo Paese” contro il 9% degli elettori di Trump.
Le elezioni
Il secondo motivo è il trumpismo, che nel maggio 2020 è arrivato al suo quarto anno e fa da accelerante per le proteste. Una parte enorme del Paese scossa dalla morte di Floyd percepisce per istinto prima che per ragione politica che il presidente Trump non è schierato dalla sua parte, ma simpatizza con “gli altri”. E lui non fa nulla per dissolvere questa impressione. Promette reazioni sempre più dure contro i manifestanti, tratta l’intera questione come un problema di ordine pubblico, ignora le ragioni delle proteste e parla soltanto delle violenze. Secondo lo studio di Pew Research già citato, il 76% degli elettori registrati pro Biden dice che “la diseguaglianza razziale è uno dei motivi per votare”.
Non sappiamo se l’estate di proteste sia una causa determinante della sconfitta di Trump alle elezioni, perché quella sconfitta è una questione multistrato, ci sono tanti argomenti che si sovrappongono e si fondono – vedi la gestione della pandemia. Ma è probabile che l’onda di coinvolgimento pubblico creata dalla morte di Floyd abbia fatto da rampa di lancio alle elezioni americane più partecipate degli ultimi centoventi anni.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di novembre/dicembre di eastwest.
The Third Ward è un grande quartiere di case basse nella parte sud di Houston, in Texas. Edilizia popolare, mattoni rossi, era molto apprezzato negli anni ‘30 dagli afroamericani che lasciavano le altre zone nel sud degli Usa e andavano in cerca di lavoro. La vita notturna sfavillante e l’entusiasmo della prima ondata però si erano spenti presto. Come in molte altre città del Paese, le banche rifiutavano di concedere mutui per acquistare le abitazioni nel Third Ward e quindi si creava una selezione al contrario: quelle case attiravano la parte di popolazione che può pagare un affitto ma non comprare. I più poveri. Che era un modo neutro per dire gli afroamericani. Un paio di autostrade piazzate in modo strategico dal piano urbanistico per separare il quartiere dal resto della città avevano aumentato il senso di segregazione.
George Floyd: da dove veniva
Di fatto, il cosiddetto redlining era una pratica per concentrare la minoranza afroamericana in una zona ed evitare che si mescolasse con gli altri quartieri di Houston. È una pratica che in seguito è stata riconosciuta come razzista, ma è andata avanti fino agli anni ‘80 e siccome il mercato immobiliare e la demografia si muovono con lentezza le conseguenze di questa pratica si vedranno ancora per qualche anno. George Floyd è l’afroamericano ucciso dalla polizia a fine maggio a Minneapolis, a 2000 km da Houston, ma è cresciuto e ha passato la maggior parte della sua vita in un angolo del Third Ward che si chiama Bricks, i mattoni, un riferimento agli onnipresenti mattoni rossi. È anche il quartiere da dove viene Beyoncé, la stella del pop americano.
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