Per Giappone e India non è semplice ridurre la dipendenza economica da Pechino. E fino a che punto la convergenza tra attori regionali può diventare strategica?
Per Giappone e India non è semplice ridurre la dipendenza economica da Pechino. E fino a che punto la convergenza tra attori regionali può diventare strategica?
Doveva andare in maniera diversa. A ottobre 2019, Xi Jinping e Narendra Modi si erano visti in India. Il Global Times, tabloid di Pechino, prevedeva una “nuova era gloriosa per l’Asia” grazie all’incontro delle due più vaste civiltà asiatiche. Ad aprile 2020, Xi avrebbe dovuto essere ricevuto a Tokyo nella prima visita di un Presidente cinese in Giappone dal 2008. Poi è arrivata la pandemia da Covid-19, la visita è saltata e molto è cambiato. Tendenze già in atto hanno assunto maggiore velocità e le contraddizioni nei rapporti tra la Cina e le potenze medie asiatiche si sono fatte evidenti. Pechino, già impegnata nella sfida globale con Washington, si ritrova a dover fronteggiare i movimenti sempre più allineati dei vicini di casa, impegnati a ridurre la propria dipendenza economica e diplomatica dal Dragone.
Il rapporto tra Cina e Giappone
Nel 2012-2013, quando Shinzo Abe e Xi sono saliti al potere, i rapporti bilaterali erano ai minimi termini. I due leader hanno avviato una normalizzazione, che ha portato a un aumento del 37% degli investimenti nipponici in Cina tra il 2016 e il 2019, quando si sono superati i 300 milioni di interscambio. La visita di Xi avrebbe dovuto sancire l’ingresso delle relazioni in una nuova fase. La pandemia ha però accelerato la volontà di Tokyo di diversificare le proprie catene di approvvigionamento. Nel pacchetto di stimolo economico di aprile, il Governo Abe ha messo a punto il cosiddetto China Exit, con quasi due miliardi di dollari di incentivi alle imprese per tornare in Giappone e ulteriori 200 milioni per delocalizzare in altri Paesi del sud-est. Sono state anche introdotte restrizioni agli investimenti stranieri nelle imprese nazionali strategiche. Una misura che sembra pensata per Huawei, peraltro esclusa dai contratti governativi già dal 2018. Le aziende di telecomunicazione si muovono per creare un campione nazionale sul 5G e si lavora anche a limitazioni per TikTok.
A livello diplomatico è calato il gelo. Il partito liberal-democratico di Abe ha chiesto di cancellare la visita di Xi, mentre il Governo ha abbandonato il principio di non interferenza negli affari “interni” di Pechino. L’entrata in vigore della legge sulla sicurezza nazionale a Hong Kong è stata definita un “tentativo unilaterale di mutare lo status quo“. È stato appoggiato l’ingresso di Taiwan nell’assemblea dell’Oms, mentre nel report annuale della politica estera si definisce Taipei un “partner estremamente importante”: un passaggio di livello rispetto al passato.
Le isole contese
C’è poi il nodo delle isole Senkaku/Diaoyu, controllate da Tokyo ma rivendicate da Pechino. Il Governo municipale di Ishigaki, prefettura di Okinawa, ha rinominato l’area amministrativa che comprende le isole contese. Mossa criticata dalla Cina, la cui Marina gravita sempre più di frequente nell’area. A marzo, il Governo nipponico ha approvato un budget difensivo record da 48,5 miliardi, prevedendo una crescita fino a 56,7 miliardi nel 2024. La Marina si doterà nuovamente di portaerei mentre si investe in nuovi missili ipersonici e si programma la produzione di massa di nuove unità aeree entro il 2031. Tokyo sta di fatto cercando di forzare la costituzione pacifista imposta dagli Usa al termine della Seconda guerra mondiale e si avvicina sempre di più ai Five Eyes: ufficialmente per la Corea del Nord, ma in realtà gli occhi sono su Pechino.
La crisi diplomatica con l’India
Anche l’India ha messo a punto un pacchetto di misure per stimolare la produzione locale. Ma in questo caso è un incidente militare ad aver alzato il livello dello scontro commerciale e diplomatico. Dopo gli scontri lungo l’enorme confine conteso, in cui hanno perso la vita 20 militari indiani, Nuova Delhi ha avviato un decoupling tecnologico con Pechino: bannate 59 app cinesi a cui se ne sono poi aggiunte 47. E altre 275 sarebbero a rischio. Coinvolti tutti i big (compresi Tencent, Alibaba e Baidu), per cui il mercato indiano rappresenta uno sbocco fondamentale. Bytedance rischia danni per sei miliardi dopo il ban di TikTok, che qui aveva 200 milioni di utenti. La versione locale, Roposo, ne ha raggiunti 100 milioni in poco tempo. Huawei ha dimezzato le stime sui ricavi nel Paese, mentre Jack Ma ha ricevuto un mandato di comparizione per il licenziamento di un dipendente locale. Sono finite sotto revisione 50 proposte di investimento di aziende cinesi, così come le attività dell’Istituto Confucio. Modi prova ad attrarre le imprese internazionali, mettendo a disposizione terre per nuovi stabilimenti con la speranza di diventare il nuovo hub produttivo regionale. Facebook, Kkr e Google hanno investito in parchi solari e aziende digitali tra cui Jio Platforms, il braccio digitale di Reliance Industries (la maggiore impresa indiana).
L’India ha sempre guardato con sospetto alla Belt and RoadInitiative, percepita come un allargamento della sfera d’influenza cinese in Paesi vicini come Sri Lanka e Maldive. La Cina sta sviluppando in Pakistan il porto di Gwadar per aggirare lo stretto di Malacca, trascina dalla sua parte il Nepal nelle contese territoriali ed è sempre più attiva in Afghanistan. Da parte sua, Nuova Delhi ha concluso l’acquisto di 31 jet Rafale dalla Francia e investe sulla Marina.
La dipendenza dalla Cina
Ma sia per Tokyo sia per Nuova Delhi non è semplice ridurre la dipendenza da Pechino. La Cina è il principale partner commerciale del Giappone, con oltre 300 milioni di interscambio nel 2019, quando il Paese del Sol Levante ha accolto 10 milioni di turisti e 115mila studenti cinesi. Il China Exit sembra coinvolgere più piccole e medie imprese che non le grandi aziende. Toyota, per esempio, ha appena annunciato nuovi investimenti nel Paese. Il rapporto commerciale tra Nuova Delhi e Pechino è molto più sbilanciato. L’export cinese in India (12esimo partner commerciale del Dragone) vale solo il 3% del totale, ma rappresenta comunque il 90% dell’import indiano dei farmaci salvavita, l’80% dell’equipaggiamento medico e il 30% delle componenti per auto. Il sistema di sorveglianza è in mano a Hikvision.
Il mercato degli smartphone è dominato da Xiaomi (30,9% del totale), Vivo, Oppo, Realme che hanno stabilimenti in cui si arriva a produrre (è il caso di Xiaomi) il 95% dei telefoni venduti localmente. Una cesura significherebbe innescare una crisi occupazionale. Senza contare che la metà degli unicorni indiani ha investitori cinesi, che prima della crisi avevano già pianificato nuovi progetti per 26 miliardi. Le tariffe anti cinesi rischiano anche di colpire il settore solare, su cui Modi punta molto. L’ecosistema indiano non sembra pronto ad accogliere le grandi realtà straniere per l’incompleta integrazione nelle supply chains globali che l’era Modi prometteva. Invece lo scorso anno Nuova Delhi si è ritirata dalla Regional Comprehensive Economic Partnership.
Gli attori regionali
Resta da capire quanto la convergenza tra attori regionali possa diventare strategica. Dal 2015 Tokyo partecipa ai test navali con India e Usa e nel 2019 ci sono state anche esercitazioni terrestri. Cooperazione estesa all’Australia, che in questi mesi ha firmato accordi difensivi col Giappone e per la condivisione di basi militari con l’India. Una sorta di ritorno al progetto Quad, evocato proprio da Abe durante una visita a Nuova Delhi del 2007 in cui si posero le basi retoriche per la “grande Asia” e il teatro dell’Indo-Pacifico. Il progetto non si è mai trasformato in un’alleanza, anche per la ritirata geopolitica dell’America First di Donald Trump. Il ritorno sulla scena di Washington non sembra essere alla base della nuova convergenza. Dalla tecnologia al Mar cinese meridionale, gli Usa vogliono il decoupling e la creazione di un fronte anti cinese. Ma agli attori medi alzare la tensione non conviene, anche perché non sono pronti a fare a meno di Pechino.
Tokyo sembra farsi capofila di un’alternativa indo-pacifica, con o senza gli Usa, nell’ambito di una competizione strategica che non metta, però, a repentaglio la sicurezza regionale e le opportunità commerciali. Da qui il no al sistema missilistico americano Aegis Ashore e la presenza sempre più massiccia in Myanmar (dove si sta per creare una nuova zona economica speciale) o in Vietnam (per esempio col prestito di 348 milioni per unità navali). Non sarà una partita semplice, ma potrebbe essere decisiva.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di settembre/ottobre di eastwest.
Doveva andare in maniera diversa. A ottobre 2019, Xi Jinping e Narendra Modi si erano visti in India. Il Global Times, tabloid di Pechino, prevedeva una “nuova era gloriosa per l’Asia” grazie all’incontro delle due più vaste civiltà asiatiche. Ad aprile 2020, Xi avrebbe dovuto essere ricevuto a Tokyo nella prima visita di un Presidente cinese in Giappone dal 2008. Poi è arrivata la pandemia da Covid-19, la visita è saltata e molto è cambiato. Tendenze già in atto hanno assunto maggiore velocità e le contraddizioni nei rapporti tra la Cina e le potenze medie asiatiche si sono fatte evidenti. Pechino, già impegnata nella sfida globale con Washington, si ritrova a dover fronteggiare i movimenti sempre più allineati dei vicini di casa, impegnati a ridurre la propria dipendenza economica e diplomatica dal Dragone.
Il rapporto tra Cina e Giappone
Nel 2012-2013, quando Shinzo Abe e Xi sono saliti al potere, i rapporti bilaterali erano ai minimi termini. I due leader hanno avviato una normalizzazione, che ha portato a un aumento del 37% degli investimenti nipponici in Cina tra il 2016 e il 2019, quando si sono superati i 300 milioni di interscambio. La visita di Xi avrebbe dovuto sancire l’ingresso delle relazioni in una nuova fase. La pandemia ha però accelerato la volontà di Tokyo di diversificare le proprie catene di approvvigionamento. Nel pacchetto di stimolo economico di aprile, il Governo Abe ha messo a punto il cosiddetto China Exit, con quasi due miliardi di dollari di incentivi alle imprese per tornare in Giappone e ulteriori 200 milioni per delocalizzare in altri Paesi del sud-est. Sono state anche introdotte restrizioni agli investimenti stranieri nelle imprese nazionali strategiche. Una misura che sembra pensata per Huawei, peraltro esclusa dai contratti governativi già dal 2018. Le aziende di telecomunicazione si muovono per creare un campione nazionale sul 5G e si lavora anche a limitazioni per TikTok.
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