La libertà degli organi di stampa Usa è tutelata dalla Costituzione, mentre gli informatori delle grandi inchieste, gli insostituibili whistleblower, sono perseguiti con accanimento
Negli Stati Uniti vige il culto della libertà di espressione. Il primo emendamento alla Costituzione, adottato nel 1791 come parte della Bill of Rights recita: “Il popolo non sarà privato o limitato nel suo diritto di parlare, scrivere o pubblicare i suoi sentimenti; e la libertà di stampa, come uno dei grandi baluardi della libertà, sarà inviolabile”. Nei decenni, la Corte Suprema ha posto dei vincoli relativi, ad esempio alla pedo-pornografia o a quello che chiamiamo discorso d’odio (hate speech), ma difficilmente in altre democrazie avanzate sentirete fare, specie ascoltando le talk radio, discorsi estremi quali ne ascoltate negli Usa senza che ci siano conseguenze legali. In questo senso la libertà di stampa e di informazione non corre pericoli in America, al panorama mediatico vario, ricco e spesso di qualità, si affianca una galassia di radio, canali Tv, siti ultra conservatori e veicolo di tonnellate di fake news e/o di una retorica potenzialmente dannosa per la democrazia. Ma non, appunto, per la libertà d’espressione.
I limiti alla libertà di parola
Le libertà violate e i vincoli alla libertà dei media di fare giornalismo sono altri e più complessi della semplice repressione, non siamo nel Myanmar e neppure in Ungheria. Con una novità recente: l’uso di un eccesso di brutalità e di arresti fatti con troppa leggerezza nei confronti di giornalisti che coprono le proteste. Il Press Freedom Tracker documenta gli episodi che coinvolgono in qualche modo i rappresentanti dei media (arresti, violenze, violazioni di altro tipo) e segnala che nel 2020 sono state arrestate 139 persone, mentre dal 2017 sono in totale 205. Nell’anno delle proteste contro il razzismo istituzionale, gli incidenti che coinvolgono rappresentanti dei media in qualche forma sono stati 500, la media degli anni precedenti era 150. Delle 114 aggressioni fisiche segnalate, il 60% venivano da rappresentanti delle forze dell’ordine. Un brutto e preoccupante record che non ha coinvolto solo giornalisti indipendenti ma anche, ad esempio, il corrispondente di The Independent Andrew Buncombe, messo a terra e legato alla maniera di George Floyd e poi detenuto per non aver obbedito all’ordine di disperdersi impartito dalla polizia di Seattle − che non si applica ai giornalisti a meno che non impediscano le operazioni di polizia.
“Anche nel 2021 assistiamo ad arresti di giornalisti al lavoro in strada. Tutti gli arresti o i fermi che abbiamo documentato finora quest’anno sono di giornalisti che coprono proteste legate alla giustizia sociale, che si tratti di Black Lives Matter o, come è successo a Los Angeles a marzo, contro lo sfratto di un campo di senza tetto. Dal punto di vista dei numeri, siamo purtroppo in linea con l’anno scorso”, precisa Kristen McKudden, di Press Freedom Tracker.
La retorica contro i giornalisti dei media mainstream usata dal Presidente Trump per quattro anni è divenuta luogo comune in certi ambienti. Secondo il database del Committee to Protect Journalists l’ex Presidente ha usato circa 550 dei suoi tweet per insultare, denigrare, dare del “nemico del popolo” ai giornalisti in genere o a singoli professionisti. Lo stesso avveniva spesso in sala stampa, con i portavoce del presidente che insultavano chi li incalzava. Il tono non cambiò neppure dopo che un uomo entrò nell’edificio della Capital Gazette di Annapolis e uccise 5 membri della redazione. Quelle parole ripetute nei comizi dal podio presidenziale hanno cambiato il clima generando atteggiamenti aggressivi da parte di eletti e forze dell’ordine. E così si sono moltiplicati gli episodi di giornalisti fotografati o identificati da poliziotti mentre facevano il loro lavoro e un rappresentante del Tennessee è arrivato a presentare un improbabile testo di risoluzione che indica CNN e Washington Post come fake news.
Esistono altri due temi controversi che hanno a che fare con la libertà di informazione e di espressione. Il primo riguarda la diffusione di notizie false e di discorsi d’odio attraverso i social media. Qui il discorso si capovolge e diviene: quali limiti alla libertà di parola possono venire imposti su media che non sono tali e che immaginano se stessi e sono luoghi virtuali privati? Una discussione giuridica e persino filosofica complicata. Per anni il fondatore e padrone di Facebook, Mark Zuckerberg ha usato la libertà di espressione come argomento per non chiudere pagine o bloccare utenti. Il parere di una commissione indipendente sulla sospensione di Donald Trump per due anni ha aperto la discussione contraria: il timore che un privato dalle dimensioni non convenzionali, come sono Facebook o Twitter, possa determinare come e quanto circola una informazione. Un dibattito nel quale esistono argomenti che pendono a favore o contro qualsiasi delle ipotesi possibili: la libertà di espressione americana, infatti, prevede discorsi “spiacevoli”, ma dovremmo almeno pretendere dalle piattaforme di sapere quali criteri e strumenti utilizzano per moderare e censurare le parole di qualcuno.
La caccia al whistleblower
La più complicata e importante questione relativa alla libertà dei media negli Stati Uniti è la caccia al whistleblower. Al momento più d’uno tra costoro è in carcere mentre alcuni sono fuggiti all’estero. Negli anni della Seconda guerra mondiale e nei decenni della Guerra fredda cresce l’ossessione per la segretezza dei programmi militari, di intelligence e così via e nel 1951, Harry Truman emise un ordine esecutivo che creava il moderno sistema di secretazione. Non sappiamo esattamente quante informazioni siano state secretate, ma si parla di decine di milioni di documenti ogni anno. Cosa significa questo? Che molte scelte importanti fatte dalle istituzioni Usa, che il pubblico dovrebbe conoscere, sono ignote a meno che qualche dipendente di un’agenzia non decida di passarle ai media. Il problema è che la diffusione di documenti riservati è un reato grave e che passarli ai media equivale per la legge a passarli a una potenza straniera (o per denaro). Ma se non ci fossero stati i whistleblowers non avremmo saputo del Watergate, di alcune stragi di civili in Iraq e Afghanistan, non della sorveglianza portata avanti dalla National Security Agency e rivelata da Edward Snowden e dichiarata incostituzionale da una corte federale nel 2020. Di recente, tra l’altro, grazie a fonti anonime danesi, abbiamo saputo che anche i servizi di Copenhagen cooperavano con la NSA quando questa teneva sotto controllo i leader e figure di spicco europee tra le quali Angela Merkel. Più di recente dobbiamo alle gole profonde la notizia del tentativo russo di interferire nel processo elettorale statunitense, sappiamo cosa si dissero il presidente Trump e il premier russo Zelenszky − una telefonata che ha portato al primo processo di impeachment − e sappiamo che i 25 miliardari più ricchi d’America non pagano un centesimo o quasi di tasse.
Come sappiamo − con l’eccezione di Chelsea Manning la cui sentenza è stata drasticamente ridotta da Obama − la caccia al whistleblower e al fondatore di Wikileaks, Juliane Assange, è una nuova ossessione dell’intelligence statunitense. Quanto al caso dei file dell’Internal Revenue Service (l’agenzia federale delle entrate), Charles Rettig, il commissario dell’IRS, ha detto, dopo la loro diffusione, che l’agenzia aveva aperto un’indagine per scoprire la fonte della fuga di notizie.
Il paradosso della segretezza americana sta nel fatto che il primo emendamento consente di pubblicare qualsiasi atto secretato una volta che se ne viene in possesso. Questo significa che i giornali che pubblicano i leaks non rischiano nulla se non una pressione feroce affinché rivelino le loro fonti, mentre chi passa i documenti è perseguibile e passibile di pene severissime.
Diverse campagne e organizzazioni per la difesa della libertà di stampa definiscono i whistleblowers eroi nazionali e chiedono che venga consentito loro di rientrare nel Paese (il caso di Edward Snowden) o che venga commutata la loro pena (il caso di Reality Winner). Altri, come l’ex presidente Trump, li chiamano traditori, spiegano che si “dovrebbe fare come ai vecchi tempi” (giustiziarli). Nel tentativo di individuare i “nemici del popolo” che durante i quattro anni di governo del leader repubblicano hanno creato più di un grattacapo e reso noto molto di quanto avveniva nelle caotiche riunioni di Casa Trump, l’ex presidente arrivò a costringere Apple a condividere i metadati dei rappresentanti Adam B. Schiff e Eric Swalwell, che svolsero il lavoro di istruttoria per il processo di impeachment, così come i dati di molti dei loro attuali ed ex collaboratori e familiari. Allo stesso modo si comportò con i giornalisti che pubblicavano rivelazioni sulla Casa Bianca ottenute da informatori interni. Un abuso di potere senza precedenti che ricorda − il mezzo è diverso, non servono più le microspie − il Watergate. Parlando con l’ex Capo della CIA Comey, l’ex Presidente sostenne anche che fosse il caso di imprigionare i giornalisti che pubblicano le notizie procurate dai whistleblowers. Sarebbe stato illegale, non è successo, ma questo resoconto fatto da Comey indica quanto gli Stati Uniti abbiano rischiato di scivolare verso uno Stato autoritario senza bisogno di cambiare la Costituzione.
Nel 2019 una serie di gruppi per i diritti civili ha scritto una lettera al Congresso in cui chiede di esonerare gli appartenenti alla intelligence community dal rischio di finire in carcere per spionaggio nel caso in cui passino informazioni riservate al Congresso stesso − altri dipendenti pubblici sono protetti dalla legge. In questo caso non si parla della libertà di stampa, sebbene spesso gli eletti, verificata l’importanza di una informazione la passano ai media. La American Civil Liberties Union (ACLU) chiede però che anche gli informatori che diffondono notizie importanti tramite i media vadano protetti. “Il Congresso dovrebbe permettere a coloro che sono accusati di aver violato la legge sullo spionaggio di poter produrre prove che la loro rivelazione è servita all’interesse pubblico. Questo piccolo cambiamento implicherebbe che i dipendenti pubblici che sono testimoni di misfatti si sentirebbero autorizzati a dire ciò di cui sono testimoni senza paura di ritorsioni”. ACLU non chiede di non andare a processo, ma di garantire alle persone che mettono a rischio la loro libertà di potersi difendere, ammettendo l’interesse pubblico come fattore che scagiona dal reato di spionaggio”. Il caso di Edward Snowden è clamoroso in questo senso.
Libertà d’espressione e Big Tech
La costante della presenza dei whistleblower nel panorama informativo Usa è un’anomalia che, come detto sopra, si spiega e giustifica con l’ossessione per la segretezza − un’ossessione che è divenuta crescente anche per le imprese Big Tech, che pure hanno problemi con le notizie diffuse anonimamente da dipendenti sdegnati dai loro comportamenti.
Ma torniamo al Primo emendamento, alla necessità o meno di censurare le fake news e alla necessità di produrre informazione di qualità in un panorama intasato da caccia al click, relativa mancanza di risorse per giornalismo investigativo e conseguente dipendenza dai whistleblowers. Lo storico Sam Lebovic, nel suo Free Speech and Unfree News: The Paradox of Press Freedom in America (2016), sostiene che la libertà d’espressione regolata dal primo emendamento sia inadeguata a produrre una stampa democratica in un’epoca definita dalla concentrazione dei media e dalla accresciuta ossessione per la segretezza da parte dello Stato federale. Affinché la libertà di informazione sia davvero effettiva, il problema non è censurare le notizie false, “un obiettivo donchisciottesco che potrebbe portare alla censura. − scrive Lebovic − La sfida è piuttosto quella di assicurare che le informazioni importanti siano disponibili. Iniziative per una maggiore trasparenza sarebbero dunque d’aiuto: ridurre la fuga del sistema di classificazione, fornire protezioni per gli informatori, e riformare il Freedom Of Information Act − la legge che consente di chiedere la pubblicazione di documenti riservati, ma non secretati. Anche gli sforzi dedicati a finanziare nuove iniziative di giornalismo aiuterebbero. Sia che il denaro provenga da filantropi, da abbonati perspicaci, o (meno probabile) da fondi pubblici, la chiave è che il denaro finisca a coloro che producono notizie sulla politica, la governance locale e i problemi sociali − il denaro non dovrebbe essere insomma usato per sostenere media che disseminano falsi”.
In estrema sintesi, dunque, gli Stati Uniti hanno corso un grosso pericolo e il fatto che nessuno abbia pagato o stia pagando, non per l’impennata di uso della violenza nei confronti dei giornalisti, non per lo spionaggio dei rappresentanti democratici e del loro staff, mentre la caccia al whistleblower sia una costante, ci racconta di come l’infrastruttura legale che garantisce la libertà di informazione avrebbe bisogno di una messa a punto. Resta il fatto che grazie ai media americani abbiamo scoperto e saputo cose in questi anni, e che nessuno ha tentato di chiudere giornali mentre facevano il loro lavoro. Anche se a Trump sarebbe tanto piaciuto.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di luglio/agosto di eastwest.
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La libertà degli organi di stampa Usa è tutelata dalla Costituzione, mentre gli informatori delle grandi inchieste, gli insostituibili whistleblower, sono perseguiti con accanimento