Le nuove condizioni climatiche stanno annientando la pastorizia e l’agricoltura. Gli ex allevatori si trasformano in minatori nel mostro urbano della capitale Ulan Bator
Sono anni che gli esperti (e i film di fantascienza, con loro) vanno ripetendo che esiste un filo sempre meno sottile tra crisi climatica e crisi sociale e che è da illusi (o da miopi) pensare che i ghiacci che si sciolgono e i boschi che vanno a fuoco, oggi, non si trasformeranno, domani, in mancanza di cibo e acqua e in miseria vera e concreta per tutti, incluso l’opulento occidente.
La crisi climatica
Per comprendere con chiarezza cosa si intende per crisi climatica che diventa crisi sociale, forse, un buon posto a cui guardare è la Mongolia, Paese spesso fuori dai radar delle cronache politiche internazionali, ma nel quale il domani della miseria causata dal clima impazzito sembra essere già arrivato.
La ragione degli “spoiler del mondo che sarà” che ci arrivano dalla Mongolia è piuttosto semplice: la Mongolia è uno dei Paesi più estesi del mondo (il 19esimo per superficie, cinque volte l’Italia) e uno dei meno popolosi (circa 3 milioni di abitanti, metà dei quali vive nella capitale, Ulan Bator). Gran parte del territorio mongolo è costituito da steppe e il 40% della sua popolazione, ossia tutti quelli che non si sono ancora inurbati, vive di pastorizia e di agricoltura.
Non ci sarebbe molto altro da dire, se non fosse che, negli ultimi anni, il clima mongolo, che da sempre è estremamente freddo, da una ventina d’anni, è impazzito.
Dall’inizio degli anni 2000, infatti, si sono fatti frequentissimi gli inverni particolarmente rigidi (con temperature che raggiungono i -50 gradi) seguiti da estati particolarmente secche e da lunghi periodi di siccità. Si tratta di un fenomeno, quello del combinarsi di siccità e inverni freddissimi, che i mongoli conoscono da sempre e chiamano dzud (o zud) e che, fino a pochi anni fa era considerato possibile ma estremamente raro e che ora, invece, si è fatto sempre più frequente fino a essere quasi la norma. Questo abbinamento, uguale e contrario, di siccità e di enorme freddo porta con sé due conseguenze. La prima: le estati troppo calde e la siccità hanno ridotto le possibilità di avere fieno e erba per il foraggio degli animali; la seconda: gli inverni troppo freddi, di fatto, fanno sì che gli animali consumino prima del tempo le loro riserve di grasso e, dunque, abbiano fame proprio di quel foraggio che manca.
Quali conseguenze?
A questo punto, di nuovo, le conseguenze dello dzud e della mancanza di foraggio e del freddo, sono due, nessuna delle quali buona.
La prima riguarda gli animali che, vuoi per il freddo, vuoi per la fame, muoiono in massa. Durante lo scorso inverno, per esempio, i dati del Ministero dell’Alimentazione e dell’Agricoltura Mongolo avevano contato le morti di 402.300 capi di bestiame, ossia lo 0,6% del totale nazionale; di questi 2.100 erano cammelli, 17.200 cavalli, 36.600 mucche, 123.300 pecore e 222.900 capre. Numeri alti, ma non quanto quelli, terribili, causati dallo Dzud del 2009-2010, durante il quale morirono 8 milioni di animali, o quanto quello del 1999-2001, quando morirono 12 milioni di capi.
La crisi sociale
La seconda conseguenza degli Dzud, quella che, come dicevamo, trasforma la crisi climatica in crisi sociale, ha a che fare con gli allevatori. Se gli animali muoiono, di freddo o di fame, evidentemente, i loro proprietari rimangono privi della loro principale fonte di sostentamento. A questo punto, per chi alleva bestiame in Mongolia, ci sono varie strade possibili.
C’è chi decide di uccidere gli animali più anziani, così da poter dare il poco mangime disponibile a quelli più giovani; oppure c’è chi decide di affrontare lunghissime transumanze (centinaia di chilometri) per trovare pascoli più ricchi, con il problema, però, di dover far saltare agli animali impegnati in viaggio la stagione dell’accoppiamento e dunque di non poter avere nuovo bestiame. Oppure ancora c’è chi decide di rimanere dov’è e dove è sempre stato, entrando però in una situazione di conflitto, non di rado violento, con gli allevatori vicini, con i quali ci si contende ferocemente il poco foraggio disponibile, tanto che i giornali di cronaca locali riportano con sempre maggiore frequenza storie di alterchi e risse.
Dalle campagne alla città
Se tutte queste opzioni appaiono, poi, poco percorribili o economicamente inconcludenti, infine, ce n’è un’altra, quella preferita dai più giovani. Gettare la spugna dell’allevamento, vendere i pochi animali rimasti e trasferirsi a Ulan Bator, città che, complice il mercato dell’estrazione mineraria, negli ultimi anni ha avuto un’enorme crescita (la sua popolazione è triplicata in 30 anni) che appare, agli abitanti impoveriti delle campagne una specie di Eldorado grondante di occasioni, lavoro, ricchezza.
Ovviamente, però, non è così. Non tanto perché non ci sia davvero possibilità di lavoro, che, in effetti c’è ed è anche molto, anche se riguarda quasi esclusivamente i minatori, ma perché a Ulan Bator non ci sono né case né infrastrutture adatte a ricevere così tante persone. La ragione di tanta mancanza di alloggi e di strutture ha a che fare in parte con l’enorme quantità di persone arrivate in pochi anni e, in parte, con la legge mongola che prescrive che chiunque ha il diritto di erigere la sua yurta su un pezzo di terreno libero, cosa che ha fatto sì che i terreni vicini alla città siano quasi tutti occupati, rendendo impossibile la costruzione di nuove case.
Il risultato è che, ad oggi, Ulan Bator appare come una città spaccata in due, a sud il quartiere gentrificato e di élite di Zaisan, con grattacieli e villette a schiera; a nord invece enormi slum, dove vecchi e fatiscenti edifici di epoca comunista si alternano alle yurte, in un sistema casuale, più che caotico, quasi del tutto privo di servizi, strade, fognature e riscaldamento. Quest’ultimo aspetto non è secondario, perché Ulan Bator è considerata la capitale più fredda del mondo, con una temperatura media annuale di 0 gradi. “I funzionari – scrive Reuters – stimano che il 55% della città – o 750.000 persone – ora viva in vasti distretti informali nelle tradizionali tende circolari dei pastori, o ger, senza accesso al riscaldamento centralizzato. Ciò ha portato a un grave problema di inquinamento con le stufe a carbone che le persone usano per stare al caldo, e che hanno portato l’inquinamento atmosferico a superare di 14 volte le linee guida globali. Consapevoli della necessità di rigenerare le vecchie aree residenziali sovietiche e di collegare i distretti ger alla fornitura di gas, per fermare l’inquinamento degli incendi, le autorità hanno promesso di investire miliardi in alloggi e servizi pubblici a prezzi accessibili entro il 2030”.
Riqualificazione
Al momento, però, il piano di nuove costruzioni prosegue a rilento e, secondo un report di Amnesty International del 2016, ha ottenuto il solo risultato di procedere a sgomberi ai quali non sono seguite costruzioni, con il risultato di produrre una pletora di potenziali senzatetto: “L’ambizioso programma di riqualificazione non è stato accompagnato dall’istituzione di garanzie sufficienti per proteggere dal rischio di sgombero forzato – dice il report -. È urgente che le autorità mettano in atto garanzie chiare ed efficaci per proteggere i diritti dei residenti”.
Così, ad oggi, le periferie di Ulan Bator appaiono non solo miserrime, sporche, e dimenticate, ma anche chiuse in un circolo vizioso del quale non si riesce a trovare il bandolo: non c’è più spazio, ma continua ad arrivare gente dalle campagne, spinta in città dagli effetti dell’inquinamento, di cui, in parte sono responsabili proprio quelle periferie sovraffollate nelle quali gli ex allevatori si trasferiscono, nella speranza di una vita migliore che, al momento, non c’è. Il risultato è che per sfuggire a una vita di miseria, se ne sceglie una ancor più misera e faticosa, priva di radici e di prospettive, incantati dal piffero magico di un futuro che, per ora, non c’è.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di settembre/ottobre di eastwest.
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Sono anni che gli esperti (e i film di fantascienza, con loro) vanno ripetendo che esiste un filo sempre meno sottile tra crisi climatica e crisi sociale e che è da illusi (o da miopi) pensare che i ghiacci che si sciolgono e i boschi che vanno a fuoco, oggi, non si trasformeranno, domani, in mancanza di cibo e acqua e in miseria vera e concreta per tutti, incluso l’opulento occidente.