Domenica 14 marzo è stata la giornata più sanguinosa dall’inizio del golpe in Myanmar. Ora le proteste assumono una forte connotazione anti-Pechino
Il punto di non ritorno è vicino, forse è già stato superato. In Myanmar le proteste contro il golpe militare dello scorso 1° febbraio proseguono senza sosta, così come prosegue e, anzi, si intensifica la repressione da parte delle forze di sicurezza. Mentre la comunità internazionale condanna (per ora soprattutto a parole) le violenze, la Cina chiede di ristabilire l’ordine dopo che suoi cittadini e fabbriche sono stati presi di mira.
Nella sola giornata di domenica 14 marzo, la giornata più sanguinosa dall’inizio delle proteste, ci sarebbero stati 59 morti (tra cui un agente di polizia) e 129 feriti. Numeri drammatici in continuo aggiornamento (lunedì 15 marzo si sarebbero registrati un’altra ventina di decessi) e che i medici temono in realtà siano molto più alti. Stando ai dati dell’ufficio diritti umani dell’Onu, in un mese mezzo le vittime sarebbero 138 (ma con un conteggio al ribasso dei morti di domenica, che per le Nazioni Unite sono 38), tra i quali anche donne e bambini.
La repressione fisica e digitale
Secondo l’Associazione per l’assistenza prigionieri politici della Birmania i manifestanti politici uccisi sarebbero almeno 191 con oltre duemila arresti. La giunta militare ha imposto la legge marziale in sei distretti di Yangon (Hlaing Thayar, Shwepyithar, North Dagon, North Okkalapa, South Dagon e Dagon Seikkan), in cinque distretti di Mandalay (Aung Myay Tharzan, Chan Aye Tharzan, Chan Mya Thazi, Mahar Aung Myay e Pyi Gyi Takhoon) e in altri punti del Paese. Attivisti e organizzazioni non governative, tra cui Amnesty International, accusano l’esercito di utilizzare “armi da battaglia” contro chi scende per strada a manifestare. Dalla zona industriale di Yangon è cominciato un piccolo esodo di abitanti che cercano di lasciare la zona. Secondo il quotidiano birmano The Irrawaddy, la polizia ha risposto lanciando lacrimogeni e sparando sul traffico di motociclette e tuk-tuk.
Alla repressione fisica si somma quella digitale, con i ripetuti blocchi di Internet e dei social media, utilizzati dagli attivisti per organizzare le proteste. A causa della mancanza di connessione è stata anche rinviata l’udienza in tribunale per Aung San Suu Kyi. Il premio Nobel per la Pace 1991 ed ex consigliere di Stato tornerà in aula il prossimo 24 marzo per rispondere di quattro accuse: importazione illegale di walkie-talkie, mancato rispetto delle restrizioni legate al coronavirus, violazione di una legge sulle telecomunicazioni e incitazioni ai disordini.
Le reazioni di Giappone e Corea del Sud
Gli Stati Uniti continuano a denunciare la violenza dei militari. Il segretario di Stato Antony Blinken, in viaggio a Tokyo, ha accusato il Tatmadaw di “reprimere brutalmente i manifestanti pacifici” e di stare cercando di “ribaltare i risultati di un’elezione democratica”. Proprio in concomitanza della visita del diplomatico Usa, anche il Giappone sta pensando di rompere gli indugi e condannare in maniera esplicita l’operato dell’esercito. Finora il Governo nipponico è stato piuttosto timido sull’argomento, così come molti altri vicini asiatici, che hanno in maggioranza applicato un principio di “non interferenza” volto anche a mantenere i (numerosi) interessi economici e geopolitici in Myanmar.
L’aumento delle violenze sta rendendo però questa linea sempre più difficile da mantenere. La Corea del Sud ha annunciato la sospensione della cooperazione in materia di difesa e il divieto all’esportazione di armi verso Naypyidaw e sempre più aziende internazionali presenti sul territorio birmano stanno rivedendo i loro accordi e la loro produzione. Per restare alle realtà nipponiche, il produttore di birra Kirin Holdings Co ha annunciato dopo sei anni la fine della collaborazione con la Myanma Economic Holdings, controllata dai militari. Suzuki ha temporaneamente fermato la produzione nei due stabilimenti locali, archiviando per ora la costruzione di un terzo. Anche Toyota ha congelato l’apertura di uno stabilimento a Yangon, inizialmente prevista per marzo. In fase di riflessione Mitsubishi, che a dicembre ha concluso un accordo con la Myanma Railways.
La posizione della Cina
Gli ultimi avvenimenti stanno invece spingendo la Cina ad assumere una linea diversa. Le proteste contro il golpe stanno assumendo sempre più una sfumatura anti Pechino. Nello scorso fine settimana sono state attaccate 32 fabbriche cinesi presenti in Myanmar, in particolare nell’area di Yangon. Alcune di esse sono state date alle fiamme, causando danni pari a circa 37 milioni di dollari. Il Governo di Taipei ha chiesto alle proprie aziende di issare la bandiera taiwanese per evitare rappresaglie. Durante gli attacchi, condotti da un gruppo di qualche decina di motociclisti armati di sbarre di ferro e taniche di benzina, sono rimasti feriti anche due lavoratori cinesi. Episodi che hanno spinto il portavoce del Ministero degli Esteri, Zhao Lijian, a sollecitare le autorità birmane affinché adottino “misure urgenti volte a porre fine agli attacchi e a consegnare alla giustizia i responsabili delle azioni”. L’Ambasciata di Pechino in Myanmar ha ricordato che gli investimenti nell’industria tessile hanno creato quasi 400mila posti di lavoro.
A torto o a ragione, come già raccontato da eastwest, tra i manifestanti c’è la convinzione che il Governo cinese abbia avuto in qualche modo un ruolo dietro il golpe, anche se sono state date alle fiamme anche due stabilimenti di aziende giapponesi. Questo nonostante Pechino avesse rapporti probabilmente migliori con la Lega nazionale per la democrazia di Aung San Suu Kyi (che ha un rapporto ottimo con Xi Jinping) che non con il Tatmadaw, con il quale è spesso entrata in rotta di collisione sul presunto sostegno alle milizie etniche. La Cina ha sempre mantenuto interessi importanti in Birmania. Il China-Myanmar Economic Corridor (CMEC) dovrebbe connettere lo Yunnan al golfo del Bengala (e dunque all’Oceano Indiano) attraverso il porto di Kyaukpyu, aggirando lo stretto di Malacca. Ma 29 dei 38 progetti in ambito CMEC sono ancora da approvare. Inoltre, quasi la metà delle importazioni cinesi di terbio e disprosio (terre rare con alto valore atomico) provengono proprio dal Myanmar.
L’avvio della transizione democratica era stata decisa dai militari anche per diversificare i rapporti commerciali e diplomatici e ridurre la dipendenza da Pechino. Lo dimostrano anche gli eccellenti rapporti costruiti nel tempo con Russia (soprattutto in materia militare) e India (poche settimane fa è stato acquistato un siero anti Covid di Nuova Delhi per far partire la campagna vaccinale, bloccando la distribuzione di quello cinese). Con un nuovo isolamento, però, il Myanmar potrebbe essere costretto a riavvicinarsi alla Cina, il cui interesse è soprattutto quello di stabilità. E ordine. Proprio il contrario di quanto sta accadendo. “La priorità assoluta è impedire il verificarsi di nuovi sanguinosi conflitti e ottenere un raffreddamento della situazione il prima possibile”, ha detto Zhao. A Naypyidaw il messaggio potrebbe essere letto come un via libera a ristabilire l’ordine (dunque, reprimere le proteste) il più presto possibile. Con qualsiasi mezzo.
Domenica 14 marzo è stata la giornata più sanguinosa dall’inizio del golpe in Myanmar. Ora le proteste assumono una forte connotazione anti-Pechino
Il punto di non ritorno è vicino, forse è già stato superato. In Myanmar le proteste contro il golpe militare dello scorso 1° febbraio proseguono senza sosta, così come prosegue e, anzi, si intensifica la repressione da parte delle forze di sicurezza. Mentre la comunità internazionale condanna (per ora soprattutto a parole) le violenze, la Cina chiede di ristabilire l’ordine dopo che suoi cittadini e fabbriche sono stati presi di mira.
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