Il maestro rurale vince le elezioni, ma il fujimorismo non accetta il verdetto delle urne. Il Perù piomba nel caos, con un elettorato spaccato a metà
Quando il gruppo di esperti incaricato dal Governo peruviano ha reso noti, ai primi di giugno, i risultati del proprio lavoro, finalizzato alla revisione dei casi di mortalità per Covid-19 attraverso l’analisi di nuovi parametri, il timore di molti si è convertito in cruda realtà. Il numero di decessi causati dalla pandemia è stato infatti fissato in 180mila, quasi triplicando le 70mila morti ufficialmente registrate fino a quel momento. Dati che hanno convertito il Perù nel Paese col più alto tasso di mortalità pro capite a livello mondiale, con circa 500 decessi per ogni centomila abitanti.
Le richieste di aiuto lanciate da mesi sui social networks, con migliaia di persone alla disperata ricerca di bombole d’ossigeno e posti letto nelle unità di terapia intensiva, avevano certificato l’assoluta inadeguatezza del sistema sanitario peruviano, facendo presagire che il costo della pandemia in termini di vite umane fosse più alto dei numeri snocciolati dalle autorità locali.
Una crisi sanitaria che ha alimentato la frustrazione di una popolazione composta al 70% da una forza lavoro informale. “Bisogna scegliere se morire di fame o di coronavirus”, ripetevano in molti nei corridoi dei grandi mercati rionali di Lima, divenuti i principali focolai di trasmissione del virus, a proposito dell’impossibilità di rispettare il lockdown imposto dal Governo per frenare l’avanzata della pandemia.
Chi è Pedro Castillo
Una rabbia popolare sconfinata ben presto nel terreno della politica, che ha convertito la gestione dell’emergenza sanitaria in uno dei pilastri della recente campagna elettorale, influenzando, al tempo stesso, il risultato delle elezioni presidenziali, che hanno visto l’affermazione di un vero outsider della politica peruviana quale Pedro Castillo.
Personaggio pressoché sconosciuto all’opinione pubblica, soprattutto dalle parti della capitale Lima, Castillo è assurto per la prima volta agli onori della cronaca nel 2017, guidando uno sciopero nazionale degli insegnanti di scuola primaria. Di professione insegnante e sindacalista nella regione andina di Cajamarca, ha fatto irruzione sulla scena politica nazionale nel 2020, come candidato del partito Peru Libre alle elezioni presidenziali in programma per l’anno successivo.
Inizialmente nato come movimento regionale per mano di Vladimir Cerrón, medico ed ex governatore regionale di Junín, Peru Libre si definisce un partito di ispirazione marxista-leninista, un’impronta ideologica che ne permea l’intero programma politico.
Al primo turno Castillo si è affermato col 19% delle preferenze, circa 3 milioni di voti, sovvertendo pronostici e sondaggi in una tornata elettorale caratterizzata da un’alta frammentazione partitica. Al secondo posto Keiko Fujimori, figlia dell’ex dittatore Alberto, al suo terzo tentativo di essere eletta presidente. In vista del ballottaggio decisivo, il Perù si è quindi trovato davanti uno scenario di estrema polarizzazione, con due candidati agli antipodi per ideologia e programma di governo e un elettorato nettamente diviso in quanto a composizione socio-economica.
Le urne hanno sancito la vittoria di Castillo per circa 45mila voti, pari al 50,1% delle preferenze, consegnando l’immagine di un Paese spaccato a metà, con una marcata divisione territoriale tra fascia costiera ed entroterra in termini di voto espresso. Il candidato di Peru Libre ha infatti trionfato nella regione andina e in buona parte di quella amazzonica, le più povere e meno densamente popolate, mentre l’elettorato di Lima, cuore economico e finanziario del Perù, ha confermato la sua tradizione conservatrice, arroccandosi a difesa dei propri interessi al cospetto di un candidato percepito come una minaccia per la stabilità economica e politica del Paese.
“Più che un voto solamente di sinistra, è un voto che riunisce diverse cose: è un voto di rivendicazione e di identità, che dimostra inclinazione verso candidati con radici meticce ed andine”, spiega l’analista Gonzalo Banda al quotidiano El País, evidenziando come quella di Castillo sia una candidatura con una componente identitaria molto forte, che empatizza pienamente con la cultura propria degli altopiani rurali peruviani.
La campagna elettorale
Durante la campagna elettorale Castillo ha esibito lo slogan “Non più poveri in un Paese ricco”, riferendosi alle enormi ricchezze minerarie del Perù, ai primi posti al mondo per la produzione di rame, argento e zinco. Un settore che rappresenta il marchio di fabbrica del modello economico imposto dal fujimorismo, che ha garantito al Paese un vero boom economico, scatenando però, al tempo stesso, decine di conflitti socio-ambientali legati allo sfruttamento delle risorse minerarie.
A subire le conseguenze dell’attività delle grandi multinazionali, in primis in termini di impatto ambientale, è quella porzione di società a cui si rivolge Castillo, che ha fatto breccia nell’elettorato di matrice andina promettendo una rivisitazione del modello economico. Una proposta che ha visto però l’uomo nuovo della politica peruviana distanziarsi progressivamente dalle posizioni del proprio partito, Peru Libre, indirizzate verso una completa nazionalizzazione delle risorse minerarie seguendo uno schema tipicamente chavista dell’economia.
“Non è vero che vogliamo chiudere il tuo negozio o espropriarti la casa. Rispettiamo il diritto di proprietà e in nessun modo esproprieremo o nazionalizzeremo il settore minerario”, ha ripetuto Castillo nei comizi che hanno preceduto il ballottaggio finale. Parole pronunciate col chiaro intento di tranquillizzare i mercati e, soprattutto, quella fetta di elettorato spaventata all’idea che il Perù possa convertirsi in un nuovo Venezuela. Uno strategico abbassamento dei toni frutto anche dell’avvicinamento con le forze moderate della sinistra di Juntos por el Perù, coalizione che ha apportato uomini e idee col chiaro scopo di sbarrare la strada al fujimorismo.
Non più quindi una “nazionalizzazione delle nostre ricchezze” come conseguenza di una rinegoziazione fallita dei contratti con le industrie estrattive, ma piuttosto l’adozione di nuove regole fiscali che garantiscano un aumento della tassazione a carico delle imprese minerarie, obbligate inoltre al pieno rispetto dei diritti umani e dell’ambiente.
Un flusso di denaro destinato ad aumentare la spesa pubblica nei settori educazione e salute, gli altri capisaldi del programma di Castillo, che promette una sostanziale riforma del sistema sanitario. Scopo primario è quello di garantire maggiore assistenza alle comunità dell’entroterra, alcune delle quali, soprattutto nella regione amazzonica, sono state abbandonate al proprio destino nel fronteggiare la pandemia.
La mossa di Keiko Fujimori
Alla riforma del modello economico si aggiunge la decisione di convocare un referendum avente a oggetto l’eventuale modifica della Costituzione introdotta da Fujimori. Una proposta che vede un nuovo distanziamento rispetto ai programmi iniziali, che prevedevano la convocazione di un’Assemblea costituente bypassando la volontà popolare.
Nonostante le urne abbiano sancito l’affermazione di Castillo, la sua proclamazione a Presidente non è stata ufficializzata immediatamente a causa del ricorso presentato da Keiko Fujimori, che ha chiesto l’annullamento di circa 200mila voti andati al proprio avversario per una presunta frode elettorale.
Una mossa che ha polarizzato ulteriormente il Paese, con gruppi editoriali, esponenti della destra e intellettuali come Mario Vargas Llosa pronti a sostenere la causa di Keiko pur non appartenendo allo stretto circolo fujimorista. Il timore di una deriva “comunista” ha infatti compattato il fronte anti-Castillo, al punto tale da indurre un gruppo di militari in pensione a sollecitare un intervento delle Forze armate qualora venga ratificata la vittoria del candidato di Peru Libre.
Una lotta di potere che presenta tutti i connotati della lotta di classe tra le due versioni del Perù, difficilmente conciliabili ed ognuna indirizzata sul proprio cammino.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di luglio/agosto di eastwest.
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Il maestro rurale vince le elezioni, ma il fujimorismo non accetta il verdetto delle urne. Il Perù piomba nel caos, con un elettorato spaccato a metà