La politica estera di Joe Biden avrà un approccio molto diverso dall'America First. Ma cancellare di colpo gli anni di presidenza Trump sarà quasi impossibile
La politica estera di Joe Biden avrà un approccio molto diverso dall’America First. Ma cancellare di colpo gli anni di presidenza Trump sarà quasi impossibile
Con 253 grandi elettori già assicurati e con un vantaggio in Nevada e in Arizona che gliene assegnerebbero altri 17 – 270 è il numero minimo necessario per la vittoria –, Joe Biden è il candidato favorito a diventare il nuovo Presidente degli Stati Uniti d’America. In Pennsylvania (20 grandi elettori) e in Georgia (16), poi, il vantaggio di Donald Trump si sta riducendo.
Prima la politica interna
Qualora Biden dovesse effettivamente vincere le elezioni, è lecito aspettarsi che, per la prima parte del suo mandato, si focalizzerà più sulla politica interna che su quella estera. Le sue priorità saranno gestire la crisi economico-sanitaria causata dal coronavirus e “unire il Paese” – come si dice –, appianando quelle tensioni sociali e razziali che il suo predecessore ha invece fomentato. Tutto questo in un clima di polarizzazione politica che complica la dialettica tra i due partiti, e con una delle due camere del Congresso – il Senato – controllata probabilmente dai Repubblicani.
I successi di Trump in politica estera
Joe Biden promette un approccio molto diverso in politica estera rispetto all’America First. La dottrina di Donald Trump, condensata in quello slogan, si è fondata sul dare la priorità all’interesse nazionale: durante il suo discorso di insediamento, nel gennaio 2017, disse infatti che “è diritto di tutte le nazioni mettere al primo posto i propri interessi”.
In questi anni, però, privilegiare l’interesse americano ha comportato un allentamento dei legami con gli alleati storici (come l’Unione europea o il Canada) e un approccio più economicistico alle questioni geopolitiche (le tensioni sulle spese per la difesa con la Corea del sud e la Nato, oppure l’uscita dalla Tpp). Ha significato una rinuncia più netta allo storico ruolo americano di “guida” dell’ordine globale e una brusca accelerazione sulla strada del disimpegno militare aperta da Barack Obama, sebbene con modi e toni diversi. America First, infine, ha significato insofferenza per i grandi accordi (come quello di Parigi sul clima) e per il multilateralismo (l’abbandono dell’Oms, il blocco della Wto).
In politica estera, comunque, Donald Trump ha raggiunto dei successi. Ha favorito l’avvio dei rapporti diplomatici tra Israele e tre Paesi a maggioranza musulmana (gli Emirati Arabi Uniti, il Bahrein e il Sudan): non una svolta quanto una formalizzazione di tendenze già in corso, ma la mediazione di Washington è stata un fattore determinante.
Trump ha poi ottenuto la rinegoziazione dell’accordo di libero scambio con la Corea del Sud e di quello con Canada e Messico: il contenuto dei due patti non è stato stravolto, ma è stato reso più vicino alla visione protezionistica del Presidente.
La terza vittoria di Trump in politica estera – nonché la più importante – ha a che vedere con la “guerra” aperta contro l’azienda cinese di telecomunicazioni Huawei per contrastare l’ascesa tecnologica di Pechino: gli Stati Uniti sono effettivamente riusciti a convincere un nutrito gruppo di Paesi alleati a non rivolgersi a Huawei per la costruzione delle nuove reti 5G, limitandone la proiezione globale.
Come sarà la politica estera di Biden
Sappiamo già in cosa consisterà la “dottrina Biden” perché è stato lui stesso a esporla in un articolo pubblicato sulla rivista Foreign Affairs e intitolato – la scelta delle parole è significativa – Why America Must Lead Again: ovvero “Perché l’America deve guidare di nuovo (il mondo)”. All’America di Trump che si è allontanata dai partner e che ha contribuito a indebolire il sistema multilaterale, Biden oppone un Paese determinato a recuperare i rapporti e a tornare a sedersi “a capotavola” nelle sedi delle organizzazioni internazionali.
La postura di Biden in politica estera appare certamente più tradizionale rispetto a quella di Trump, ma un ritorno di Washington nel mondo nelle forme viste in passato non è una prospettiva realistica. Sia perché non è possibile cancellare di colpo gli anni della presidenza Trump, sia perché il “disimpegno” è una tendenza iniziata già da prima: come Trump ha ripreso e modificato quanto avviato da Obama, così Biden reinterpreterà a suo modo alcune politiche del suo predecessore. Lo scontro con la Cina, innanzitutto: a cambiare sarà la forma – minore aggressività retorica e maggiore coinvolgimento degli alleati, forse –, ma non la sostanza. Impedire l’ascesa di Pechino è la priorità di Washington, a prescindere da chi occupi la Casa Bianca.
L’amministrazione Trump ha provato a convincere le nazioni asiatiche – il Giappone, l’India, l’Australia, il Sud-est asiatico – a schierarsi nettamente dalla parte dell’America contro la Cina. Ma ha fallito, perché non ha tenuto conto dei loro interessi: tutti questi Paesi temono sì la crescita dell’aggressività cinese, ma non vogliono compromettere gli importanti rapporti economici bilaterali. Biden, invece, puntando su una minore polarizzazione e recuperando l’approccio obamiano del “coinvolgimento” (engagement), potrebbe ottenere maggiori successi.
Biden ha già detto di voler far rientrare subito gli Stati Uniti nell’accordo di Parigi e nell’Organizzazione mondiale della sanità. Non è detto invece che farà lo stesso con l’accordo sul nucleare con l’Iran: è probabile che il suo approccio nei confronti di Teheran sarà più morbido di quello di Trump, ma Biden accusa comunque il regime di “comportamenti destabilizzanti in tutto il Medio Oriente”. La sorte del JCPoA dipende anche dagli iraniani, e in questi anni l’ala cosiddetta moderata – che fa capo al Presidente Hassan Rouhani e che è favorevole all’accordo – ha perso rilevanza.
Il Medio Oriente, comunque, non è più da tempo in cima all’agenda estera americana. Già Obama, con la dottrina del pivot to Asia, aveva fatto intendere che il vero “perno” – cioè l’area verso la quale bisognava convogliare gli sforzi e le risorse – era l’Asia-Pacifico.
Con 253 grandi elettori già assicurati e con un vantaggio in Nevada e in Arizona che gliene assegnerebbero altri 17 – 270 è il numero minimo necessario per la vittoria –, Joe Biden è il candidato favorito a diventare il nuovo Presidente degli Stati Uniti d’America. In Pennsylvania (20 grandi elettori) e in Georgia (16), poi, il vantaggio di Donald Trump si sta riducendo.
Prima la politica interna
Qualora Biden dovesse effettivamente vincere le elezioni, è lecito aspettarsi che, per la prima parte del suo mandato, si focalizzerà più sulla politica interna che su quella estera. Le sue priorità saranno gestire la crisi economico-sanitaria causata dal coronavirus e “unire il Paese” – come si dice –, appianando quelle tensioni sociali e razziali che il suo predecessore ha invece fomentato. Tutto questo in un clima di polarizzazione politica che complica la dialettica tra i due partiti, e con una delle due camere del Congresso – il Senato – controllata probabilmente dai Repubblicani.
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