L'incontro/scontro di Anchorage tra le delegazioni di Stati Uniti e Cina dice molto su come una potenza vede l'altra. Tra le tensioni emerge una possibile cooperazione, ma resta forte la rivalità
L’incontro/scontro di Anchorage tra le delegazioni di Stati Uniti e Cina dice molto su come una potenza vede l’altra. Tra le tensioni emerge una possibile cooperazione, ma resta forte la rivalità
Ristabilire l’equilibrio quando ci si trova su un piano inclinato non è impresa semplice. Soprattutto quando su quel piano inclinato ci sono la principale potenza globale e la sua prima (possibile) contendente.
Stati Uniti e Cina hanno riavviato i canali diplomatici con l’incontro 2+2 andato in scena nei giorni scorsi in Alaska. Il segretario di Stato Antony Blinken e il consigliere per la Sicurezza nazionale Jake Sullivan da parte statunitense, il Ministro degli Esteri Wang Yi e il direttore dell’ufficio della commissione centrale degli Affari esteri Yang Jiechi, artefice della diplomazia targata Xi Jinping, da parte cinese. Questo il quartetto che si è ritrovato nella (rigida) vigilia di primavera di Anchorage, a oltre un anno e mezzo di distanza dall’ultimo incontro di tale livello, quando il volto della politica estera a stelle e strisce era ancora Mike Pompeo.
In mezzo è successo di tutto, tra la pandemia, il “chinese virus” di Donald Trump, le sanzioni e l’apertura di molteplici dossier in una contesa che dalla sfera commerciale ha invaso da tempo anche quelle tecnologica, mediatica, strategica e quasi ideologica. Dopo l’Alaska, potrebbe succedere ancora altrettanto. Partiamo da un presupposto: il cosiddetto “restart summit” non ha resettato i rapporti. Troppo forte l’impatto di Trump, troppo inclinato il piano per riportarlo in orizzontale. Le due parti, che non avevano nemmeno concordato sulla definizione di “dialogo strategico” (proposta da Pechino e disconosciuta da Washington), hanno esordito con accuse reciproche a favore di telecamera. Yang ha preso il proscenio, parlando per 16 minuti invece dei tradizionali due della conferenza stampa iniziale. E da lui sono arrivate alcune frasi che fotografano il sentimento cinese attuale nei confronti degli Usa. Riassumibili in questa: “Gli Stati Uniti non possono permettersi di parlare alla Cina in tono condiscendente o da una posizione di forza” e “non possono darci lezioni come se ci fossero superiori”.
Ecco la chiave. La Cina di Xi Jinping non nasconde più la sua forza, come faceva quella di Deng Xiaoping. La Cina di Xi è ambiziosa e non fa nulla per celarlo, sin dal lancio della Belt and Road Initiative nel 2013. L’offensiva trumpiana ha rafforzato il nazionalismo interno e ha velocizzato il processo di estroversione cinese, accompagnato dal perseguimento dell’autosufficienza tecnologica e da tutta una serie di azioni volte a limitare gli effetti delle turbolenze esterne sul fronte interno, in ossequio a quella doppia circolazione che il Presidente Xi ha presentato durante la visita nel Guangdong anticipatoria del V Plenum dello scorso ottobre.
La Cina esige una relazione tra pari, basata sul “dogma” della non interferenza, a protezione dei delicati nodi interni tra cui Pechino, oltre Hong Kong, Tibet e Xinjiang, annovera anche Taiwan. Prerequisito difficile da accettare anche per gli Usa di Joe Biden. Con questi presupposti era piuttosto scontato che il summit non producesse grandi risultati, ma che semmai collezionasse una serie di linee rosse da non oltrepassare a vicenda. La coppia cinese ha citato quei quattro capitoli di cui sopra, mentre il duo americano ha citato, tra le altre cose, il rispetto dei diritti umani, i cyberattacchi contro gli Stati Uniti e le misure di coercizione economica utilizzati contro gli alleati, in primis l’Australia.
I dossier
È prevedibile che le tensioni proseguiranno su tutti i dossier citati dalla Cina. Per Trump i diritti umani erano soprattutto uno strumento da utilizzare sul tavolo negoziale, per Biden invece sono un argomento per il quale passa la credibilità della sua retorica del riavvio delle alleanze. Non a caso, proprio alla vigilia del summit, il neo Presidente americano ha comminato le sue prime sanzioni contro ufficiali cinesi sul tema di Hong Kong, per poi passare, in contemporanea a Regno Unito e Unione europea, allo Xinjiang. Presto potrebbe tornare d’attualità anche il tema del Tibet, visto che si è aperta la lotta per la successione del Dalai Lama, che il Partito comunista vuole controllare. Ma il potenziale flashpoint più rischioso resta Taiwan. L’amministrazione Biden ha ribadito la sua aderenza al principio dell’unica Cina, ma allo stesso tempo continua a sostenere l’indipendenza de facto di Taipei.
C’è però spazio anche per una possibile collaborazione in alcuni settori, come emerso durante i meno bellicosi e più concreti colloqui a porte chiuse. A partire dalla crisi climatica, citata esplicitamente dal report post vertice di Xinhua. Anche qui, però, le versioni differiscono. L’agenzia di stampa cinese sostiene sia stato predisposto un gruppo di lavoro comune, elemento smentito ad Axios da un portavoce del Dipartimento di Stato americano. Trovati punti di contatto anche sull’inoculazione dei vaccini anti Covid-19 ai rispettivi diplomatici presenti nei due Paesi. Potrebbe essere messo un freno alla stagione delle espulsioni reciproche, culminata nelle chiusure dei consolati di Houston e Chengdu, ma anche in quelle di giornalisti dei rispettivi outlet media. Le due parti hanno concordato un abbassamento dei toni sia tra esponenti politici e diplomatici. In tal senso continuerà a giocare un ruolo fondamentale l’ambasciatore cinese Cui Tiankai, ben al di là dei canonici termini di mandato ma considerato pedina fondamentale da Pechino in terra statunitense. Il report di Xinhua cita anche un possibile miglioramento del coordinamento bilaterale in alcune sedi internazionali, tra cui per esempio il G20 e l’APEC.
Ma, in realtà, se il dialogo sarà più civile questo non significa che ci sia una convergenza di vedute. La possibile cooperazione su alcuni dossier di politica estera, in primis la Corea del Nord, è offuscata dalla ancora confusa linea Biden su Pyongyang e, soprattutto, dai movimenti asiatici dell’amministrazione democratica. Lo dimostra il tour di Blinken e del segretario alla Difesa Lloyd Austin a Tokyo e Seul, con il secondo che ha proseguito la sua permanenza asiatica anche a Nuova Delhi. I risultati sono stati ambivalenti: dichiarazioni esplicite sulla Cina dal Giappone, profilo molto più basso dalla Corea del Sud. Ma il messaggio, se sommato al precedente summit virtuale Quad, è chiaro: Washington vuole utilizzare le partnership asiatiche per arginare la Cina, che legge questo tentativo come una riesumazione delle sfere d’influenza dei tempi della Guerra fredda. Non a caso, a poche ore di distanza dal vertice in Alaska, Wang Yi ha ricevuto a Guilin l’omologo russo Sergej Lavrov. Il messaggio, che comprende anche un passaggio tutt’altro che trascurabile sul possibile sganciamento dal dollaro per mettersi al riparo dalle sanzioni americane, è chiaro: la Cina non starà a guardare le mosse di Biden.
L’incontro/scontro di Anchorage tra le delegazioni di Stati Uniti e Cina dice molto su come una potenza vede l’altra. Tra le tensioni emerge una possibile cooperazione, ma resta forte la rivalità
Ristabilire l’equilibrio quando ci si trova su un piano inclinato non è impresa semplice. Soprattutto quando su quel piano inclinato ci sono la principale potenza globale e la sua prima (possibile) contendente.
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